CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 08 luglio 2020, n. 14362
Esistenza di un rapporto di lavoro subordinato – Mancato versamento contributivo – Distinzione tra rapporto di lavoro subordinato da quello avente natura autonoma – Natura libero professionale della prestazione
Rileva che
con ricorso del 31 ottobre 2011 il dottor P.N. appellava la sentenza pronunciata dal giudice del lavoro di Napoli il 3 maggio 2011, con la quale era stata rigettata la sua domanda (atto introduttivo depositato il 18 maggio 2010), volta ad accettare dichiarare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato dello stesso le dipendenze della società A.A. dal 1979 all’anno 1992, con la condanna in via generica della convenuta al risarcimento del danno, asseritamente patito dall’attore all’atto del collocamento in pensione, per il mancato versamento contributivo relativo al suddetto periodo;
la Corte d’Appello di Napoli con sentenza n. 8 in data 7 gennaio – 14 aprile 2015 rigettava l’interposto gravame, confermando quindi l’impugnata pronuncia e compensando le relative spese;
avverso la sentenza di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, il dr. P. N. (p.e.c. del 13.10.2015 e relata di notifica tramite ufficiale giudiziario in data 15-10-15). Ha resistito al ricorso la S.p.a. A.A. mediante controricorso del 20 novembre 2015, in seguito illustrato da memoria.
Considerato che
con il primo motivo il ricorrente ha dedotto inesistenza, apoditticità e/o laconicità della motivazione – violazione degli articoli 132 c.p.c., 118 delle relative disposizioni di attuazione e 111 della Costituzione – nullità della sentenza ex articolo 360 comma primo n. 4 c.p.c. e/o invalidità della stessa pronuncia impugnata ex art. 360 n. 5 dello stesso codice
con il secondo motivo la sentenza di appello è stata censurata per nullità della stessa con riferimento ad omessa pronuncia, in violazione dell’articolo 112 c.p.c., sul primo motivo di appello, concernente l’erroneità della sentenza di primo grado laddove era stato affermato che il ricorso introduttivo presentava lacune assertive ostative all’accertamento della natura subordinata del dedotto rapporto di lavoro;
con il terzo motivo è stata denunciata l’erroneità, la illegittimità e/o l’invalidità della sentenza d’appello nella parte in cui non aveva ammesso l’invocata prova testimoniale;
le anzidette doglianze vanno disattese in forza delle seguenti ragioni;
invero, la Corte distrettuale con la sentenza qui impugnata, premessi i dati essenziali dell’iter processuale (riportando, altresì, sinteticamente i motivi posti a sostegno dell’appello, dando pure atto della reiterata istanza di ammissione della prova testimoniale, già articolata con il ricorso di primo grado), nonché riferimenti giurisprudenziali in tema di distinzione tra rapporto di lavoro subordinato da quello avente natura autonoma, ha condiviso le argomentazioni in base alle quali il giudice di primo grado aveva rigettato la domanda di parte attrice, secondo cui già dalla lettura dell’atto introduttivo del giudizio e dal libero interrogatorio del dr. N. emergeva che i compiti a costui assegnati coincidevano con quelli indicati nel contratto di consulenza, per cui la natura libero professionale della prestazione si aggiungeva, ma conservando la propria autonomia, a quella di dirigente medico aziendale. Infatti, l’appellante, in qualità di medico di fabbrica, non poteva assicurare la sua presenza giornaliera presso ogni stabilimento A., gli orari di lavoro erano stati preventivamente concordati nel contratto di consulenza a suo tempo intervenuto tra le parti, sicché inoltre veniva determinato il compenso orario in base alla durata giornaliera e settimanale della prestazione. Il contenuto dell’attività svolta dall’attore, unitamente ad altro libero professionista, aveva giustificato anche la predisposizione da parte aziendale dell’elenco dei lavoratori da visitare e dei luoghi da ispezionare, essendo evidentemente necessario un coordinamento tra l’attività del ricorrente e le esigenze dell’impresa. Alcun controllo da parte aziendale risultava essere stato dedotto in ordine alle possibili assenze, come emerso dal libero interrogatorio, da quale inoltre era risultato trattarsi di fogli in bianco quanto all’uso di un ricettario intestato alla stessa azienda. Peraltro, era stata anche evidenziata la mancata indicazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, del c.c.n.l. di riferimento con relativa declaratoria, unitamente alla circostanza che solo a distanza di 17 anni era stato chiesto l’accertamento della pretesa natura subordinata del rapporto de quo. Inoltre, la Corte di merito osservava come effettivamente risultasse la stipula di un contratto di consulenza professionale, nel quale erano previste cinque ore giornaliere e con la precisazione che lo stesso consulente avrebbe dovuto specificare anticipatamente gli orari nonché disporre di un suo sostituto, perciò di sua scelta, in caso di propria assenza, e che le remunerazioni sarebbero avvenute in relazione alle prestazioni eseguite. D’altro canto, non appariva significativa l’unica circostanza di un rimprovero ricevuto, dal ricorrente, da parte del dirigente medico, laddove in occasione del libero interrogatorio era stato anzi precisato che in caso di assenza non era necessaria alcuna giustificazione. Pertanto, secondo la Corte partenopea, era da escludersi la natura subordinata del rapporto contrattuale dedotto dall’attore; alla stregua delle anzidette argomentazioni, logiche e coerenti, peraltro da leggersi unitamente ai motivi della sentenza di primo grado, espressamente condivisi dalla pronuncia d’appello, attesi i relativi riferimenti per relationem da parte di quest’ultima, si appalesa l’infondatezza della censura contenuta nel primo motivo di ricorso, essendo state chiaramente enunciate le ragioni, in fatto ed in diritto, in base alle quali veniva rigettato l’interposto gravame, non risultando dunque violato il c.d. minimo costituzionale occorrente a norma degli artt. 111 Cost. e 132 n. 4 c.p.c., né tampoco omesso l’esame di fatti rilevanti a fini della decisione;
deve, pertanto, ribadirsi il principio secondo cui in tema di ricorso per cassazione per vizi della motivazione della sentenza, il controllo di logicità del giudizio del giudice di merito non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto tale giudice ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento degli elementi probatori valutati, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, come tale insindacabile in sede di legittimità (v. tra le altre Cass. I civ. n. 16526 del 5/8/2016. Cfr. altresì Cass. III civ. n. 5066 del 5/3/2007: il ricorso per cassazione, con il quale si facciano valere vizi della motivazione della sentenza, deve contenere la precisa indicazione di carenze o di lacune nelle argomentazioni sulle quali si basano la decisione -o il capo di essa- censurata, ovvero la specificazione di illogicità, o ancora la mancanza di coerenza fra le varie ragioni esposte, e quindi l’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti e l’insanabile contrasto degli stessi, mentre non può farsi valere il contrasto dell’apprezzamento dei fatti compiuto dal giudice di merito con il convincimento e con le tesi della parte, poiché, diversamente opinando, il motivo di ricorso di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. finirebbe per risolversi in una richiesta di sindacato del giudice di legittimità sulle valutazioni riservate al giudice di merito. V. inoltre, più recentemente, Cass. Il civ. n. 27415 del 29/10/2018, secondo cui l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. in l. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, di guisa che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
Analogamente, secondo Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 7/4/2014, secondo cui inoltre, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, co. II, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. Inoltre, secondo le Sezioni unite di aprile 2014, la succitata riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., va interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Di conseguenza, è denunciabile in cassazione soltanto l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. V. altresì Cass. Sez. 6 – 5, ordinanza n. 13977 del 23/05/2019: ricorre il vizio di motivazione apparente della sentenza, denunziabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. quando essa, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche, congetture. In senso conforme Cass. sez. un. n. 22232 del 2016);
le considerazioni che precedono assorbono, evidentemente, anche le doglianze di cui alla seconda ed alla terza censura, dovendosi ancora rilevare come nessuna omissione sia ascrivibile all’impugnata sentenza, ove si consideri che la Corte distrettuale dava pure atto che “l’articolato e sostanzialmente unico motivo di appello” riguardava la valutazione operata dal giudice di prime cure in merito alla ritenuta insussistenza di un rapporto di lavoro di natura subordinata per il periodo indicato. Per contro, il ricorso de quo, pur contestando (asseritamente però soltanto all’udienza di discussione in data 7 gennaio 2015, e non già ritualmente e tempestivamente con il ricorso di cui all’art. 435 c.p.c.) il contratto di consulenza professionale concluso con A.A. S.p.a., siccome oggetto di specifica doglianza di simulazione nella sua attuazione, essendo la domanda volta ad accertate il reale svolgimento del rapporto (cfr. in part. pag. 9 del ricorso per cassazione), risulta ampiamente carente sotto il profilo dell’autosufficienza e della specificità, a sensi e per gli effetti soprattutto di quanto previsto dall’art. 366 co. 1 nn. 4 e 6 c.p.c., non avendo compiutamente riprodotto gli atti processuali in cui sarebbero state dedotte le menzionate doglianze (in particolare con il ricorso introduttivo, verbali di udienza e libero interrogatorio del ricorrente, atto d’appello), né tanto meno i termini dello stesso contratto di consulenza, pacificamente di natura autonoma intervenuto tra le parti, del quale non è stata nemmeno indicata la data. D’altro canto, si appalesa anche l’inconferenza del secondo motivo del ricorso circa la pretesa violazione dell’art. 112 c.p.c., tenuto conto soprattutto che il ricorso introduttivo del giudizio non risulta essere stato dichiarato nullo per carenza dei requisito prescritti dall’art. 414 c.p.c. dalla sentenza di primo grado, che infatti rigettava nel merito la domanda, né tanto meno dalla pronuncia di appello, che anch’essa nel merito disattendeva il gravame, così evidentemente superando, ancorché implicitamente, l’asserito motivo d’impugnazione sul punto, all’evidenza irrilevante una volta che il tribunale non aveva dichiarato inammissibile l’atto introduttivo, avendo come già detto pronunciato nel merito;
parimenti, è inammissibile il terzo motivo di ricorso (pagine da 12 a 15), che non solo ha omesso di indicare a quale delle distinte ipotesi di cui all’art. 360 co. 1 c.p.c. abbia inteso riferire la doglianza, laddove poi nella sua illustrazione si rinvengono promiscui riferimenti agli artt. 2697 c.c., 24 e 111 Cost., nonché 115, 116 e 416 c.p.c., mentre non risultano riprodotte ex art. 366 n. 6 dello stesso codice di rito le specifiche circostanze per le quali il ricorrente lamenta la mancata ammissione della prova testimoniale, peraltro evidentemente giudicata superflua, anche dalla Corte di merito, in base agli elementi di cognizione già in atti, in base ai quali veniva ritenuta insussistente la pretesa natura subordinata del dedotto rapporto contrattuale, laddove in particolare gli aditi giudici di merito dallo stesso ricorso introduttivo e dal menzionato libero interrogatorio desumevano la corrispondenza tra i compiti (di fatto) assegnati al dr. N. e quelli contemplati dal contratto di consulenza;
pertanto, il ricorso va rigettato, con conseguente condanna del soccombente al rimborso delle relative spese;
atteso l’esito negativo dell’impugnazione de qua, sussistono i presupposti processuali di cui all’art. 13, co. 1 quater del d.P.R. n. 115/02.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida, in favore della controricorrente, in euro 4500,00 per compensi professionali ed in euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
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