CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 08 luglio 2021, n. 19441
Tributi – IRPEF – Accertamento sintetico – Redditometro – Incrementi patrimoniali – Onere di prova contraria
Rilevato che:
1. In data 3/12/2012, l’Agenzia delle Entrate notificò a D.E.G. due distinti avvisi di accertamento, relativi rispettivamente agli anni di imposta 2006 e 2007, rispetto ai quali era già stato instaurato il contraddittorio in seguito a invito del 23/03/2012 e con i quali, premessa la mancata presentazione della dichiarazioni dei redditi per entrambe le annualità, erano stati rideterminati i redditi attraverso accertamento sintetico, rideterminate le imposte e irrogate le sanzioni, sul presupposto del possesso, da parte sua e del coniuge, di veicoli e immobili e, quanto al periodo 2007/2011, di incrementi patrimoniali.
In seguito all’impugnazione con distinti ricorsi, da parte della contribuente, dei predetti atti, con i quali eccepì la prescrizione quanto al 2006 e affermò di non avere presentato la dichiarazione dei redditi in quanto in possesso, per entrambe le annualità, di redditi da lavoro dipendente certificati da mod. CUD, ritualmente allegati, adducendo giustificazioni in ordine all’utilizzo dell’appartamento e al possesso di somme di denaro, la C.T.P., previa riunione dei ricorsi, accolse la domanda con sentenza n. 278 del 3/7/2013 e annullò gli avvisi di accertamento. La C.T.R., invece, adita dall’Agenzia delle Entrate, accolse parzialmente il gravame, rideterminando l’ammontare degli incrementi patrimoniali effettuati dalla contribuente per il periodo 2007/2011.
2. Avverso questa sentenza, la società contribuente ha proposto ricorso per cassazione sulla base di sette motivi, erroneamente indicati in numero di sei, stante la ripetizione, nel sesto, del n. 5 susseguente al precedente n. 5, illustrati anche con memoria.
L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
Considerato che
1. Con il primo motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 132 cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ., e la nullità della sentenza, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., per avere la C.T.R. omesso di giustificare il perché avesse accolto il ricorso soltanto con riguardo al periodo 2007/2011 e dunque per l’anno di imposta 2007, senza modificare la sentenza di primo grado con riguardo agli anni 2006- 2010, rispetto ai quali aveva di fatto confermato perciò la declaratoria di nullità comminata in primo grado avverso l’avviso di accertamento relativo al 2006, benché le doglianze avanzate in primo grado fossero fondate sulle medesime argomentazioni per entrambi gli accertamenti.
2. Con il secondo motivo, la contribuente lamenta la violazionee falsa applicazione dell’art. 38 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e dei D.M. 10 settembre 1992 e 19 novembre 1992, nonché degli artt. 2727 e 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere la C.T.R. accolto le doglianze dell’Ufficio sulla base della presunzione semplice fondata sul c.d. redditometro, senza tener conto delle giustificazioni dalla stessa addotte circa gli aiuti ricevuti dai parenti, puntualmente documentate, e del fatto che, in ragione di ciò, sarebbe spettato alla controparte l’onere di dimostrare che alle operazioni finanziarie si era fatto fronte mediante redditi non dichiarati. Ad avviso della ricorrente, la C.T.R. aveva ritenuto che il presupposto fondante l’azione accertativa basata sul redditometro costituisse prova legale in grado di motivare l’accertamento e di provare i maggiori redditi, disattendendo la documentazione da lei prodotta, peraltro conoscibile dall’Ufficio, e trascurando di valutare la capacità reddituale degli altri conviventi, appartenenti o meno allo stesso nucleo familiare, in quanto incidente sulla capacità di spesa del contribuente.
3. Con il terzo motivo, la contribuente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 38 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e dei D.M. 10 settembre 1992 e 19 novembre 1992, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per non avere la C.T.R. considerato che la presunzione di spesa contestatale si riferiva a due autovetture, di cui una di proprietà del marito per la quota del 25% e l’altra interamente di sua proprietà, e ad un appartamento il cui contratto di locazione era intestato agli zii del marito, i quali, per dare loro un aiuto, provvedevano a pagare il relativo canone. Ad avviso della contribuente, tali voci sarebbero dovute essere distribuite tra i vari componenti del nucleo familiare e non interamente addossate a lei da un punto di vista fiscale.
4. Con il quarto motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 38, quarto e quinto comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nel testo vigente fino all’entrata in vigore delle modifiche introdotte dall’art. 22, comma 1, d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 38 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dall’art. 22, comma 1, d.l. 31 maggio 2010, n. 78, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere la C.T.R. applicato in modo scorretto il citato art. 38 nella formulazione vigente ratione temporis, benché contestato fin dal primo grado del giudizio. Ad avviso della contribuente, infatti, gli accertamenti riferiti agli anni 2006 e 2007 sarebbero dovuti essere disciplinati dall’art. 38, quarto e quinto comma, nella formulazione antecedente alla novella introdotta con il d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, che avrebbe imposto di considerare le spese effettuate negli anni 2006 e 2007 o al più del 2008 e di suddividerle per i quattro anni precedenti e quello di imposta, mentre non sarebbero dovute essere valutate le spese per incrementi patrimoniali verificatisi dal 2009 in poi, per i quali avrebbe dovuto trovare applicazione l’art. 38 nella nuova formulazione, che aveva eliminato la distinzione tra spese correnti e per incrementi patrimoniali, introducendo la presunzione di spesa per cassa nell’anno di imposta. Nella specie, infatti, era stata valutata un’autovettura a benzina acquistata nel 2011 (per il solo 2007), un’autovettura diesel acquistata nel 2010 e il complesso immobiliare acquistato nel 2009.
5. Con il quinto motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 38, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., in quanto l’avviso riguardante il 2006 non era stato preceduto da un’istruttoria svolta nel contraddittorio con il contribuente, posto che l’invito formulato nel marzo 2012 riguardava esclusivamente gli anni di imposta dal 2007 al 2012, fermo restando, in proposito, il rilievo di cui al primo motivo.
6. Con il sesto motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 38 e dell’art. 41, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere la C.T.R. considerato infondata la doglianza afferente la mancata detrazione, dal computo del reddito presuntivo, dei redditi dichiarati attraverso propri modelli Cud. Nei riepiloghi degli accertamenti impugnati era stato, infatti, detratto il solo reddito dichiarato dal Sians nella misura di euro 50,00, ma non quello risultante dal proprio Cud.
7. Con il settimo motivo, come detto erroneamente indicato come sesto, infine, la contribuente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 43 e 38, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., e l’omessa pronuncia su fatto decisivo oggetto di contraddittorio tra le parti, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., per avere la C.T.R. ignorato il fatto che, con riguardo all’anno 2006, aveva adempiuto all’obbligo fiscale, in quanto dotata del modello Cud, il cui invio non era più obbligatorio fin dal 2000, sicché non soltanto non era stata applicata la norma in merito, ma vi era stata un’omessa pronuncia sul punto.
8. Il primo motivo è inammissibile.
Come detto, a sostegno della censura di nullità della sentenza, la contribuente deduce che la C.T.R. avrebbe sostanzialmente accolto le doglianze dell’Agenzia delle Entrate soltanto con riguardo all’anno 2007 e confermato di fatto l’annullamento, deciso dai giudici di primo grado, dell’avviso riguardante l’anno di imposta 2006, senza motivare sul proprio convincimento, benché le doglianze avanzate in primo grado fossero fondate sulle medesime argomentazioni per entrambi gli accertamenti.
Dall’analisi della sentenza, risulta invero che la C.T.R., pur dando conto, sia pure succintamente, delle ragioni che l’hanno indotta a respingere tutti i rilievi difensivi addotti dalla contribuente (dalla questione dei redditi dichiarati con CUD, alla considerazione per intero dei redditi acquisiti nell’anno 2006 e alle regalie in denaro ricevute da amici e parenti), e ad accogliere la sola giustificazione riguardante la ricezione dell’importo di euro 50.000,00, che il suocero aveva erogato al coniuge con assegno del 23 aprile 2009, reputando «arbitrariamente limitative e non conformi a logica e, come tali, da disattendere» le argomentazioni svolte sul punto dall’Ufficio, non dispone in modo consequenziale nel dispositivo.
La medesima somma di euro 50.000,00 è stata, infatti, utilizzata in dispositivo al solo fine di rideterminare l’importo degli incrementi patrimoniali/investimenti effettuati dalla contribuente negli anni 2007/2011, afferenti al solo 2007, e non anche di quelli effettuati negli anni 2006/2010, attinenti al 2006, come risulta dai rispettivi avvisi di accertamento, benché fosse stata calcolata dall’Ufficio ai medesimi fini anche con riguardo a quest’ultima annualità.
Orbene, a fronte di una discrasia tra dispositivo e motivazione è necessario verificare se questa sia superabile in via interpretativa o se la sentenza possa essere corretta secondo il procedimento dell’errore materiale o sia invece nulla, come vorrebbe la ricorrente, e, in quest’ultimo caso, se sussista l’interessa della stessa a farla valere.
Quanto al primo punto, questa Corte ha già avuto modo di affermare che, nell’ordinario giudizio di cognizione, l’esatto contenuto della sentenza va individuato non alla stregua del solo dispositivo, bensì integrando questo con la motivazione, nella parte in cui la medesima riveli l’effettiva volontà del giudice, con la conseguenza che deve essere ritenuta prevalente la parte del provvedimento maggiormente attendibile e capace di fornire una giustificazione del dictum giudiziale (cfr. Cass, sez. 6-1, 18/10/2017, n. 24600; Cass., sez. 1, 10/09/2015, n. 17910; Cass., sez. 2, 11/07/2007, n. 15585), da interpretarsi secondo l’unica statuizione in esso contenuta (Cass., sez. 6 – 3, 17/07/2015, n. 15088).
Nella specie, appare chiaro e inequivocabile quale sia stato l’intendimento dei giudici d’appello e cioè quello di considerare giustificata la somma di 50.000,00 euro acquisita dalla contribuente e tale dunque da imporne la decurtazione dall’importo totale degli incrementi patrimoniali/investimenti accertati, sicché l’omessa sua considerazione nel dispositivo risulta un mero errore materiale, emendabile in quanto tale con il relativo procedimento, restando affetta da inammissibilità, invece, l’impugnazione diretta a far valere il contrasto (vedi sul punto Cass., sez. L., 22/08/2019, n. 21618).
Va detto altresì che, anche a voler del tutto oblitera il contenuto della motivazione e reputare prevalente il precetto contenuto nel dispositivo, il motivo sarebbe comunque inammissibile in quanto difetterebbe l’interesse della ricorrente a far valere la nullità.
Il giudizio di appello ha preso avvio, infatti, dall’impugnazione proposta dall’Agenzia delle Entrate avverso una sentenza che aveva annullato entrambi gli avvisi di accertamento, sicché l’assenza di indicazioni in dispositivo dell’avviso concernente l’anno 2006, già annullato in primo grado, non ne comporterebbe la reviviscenza, in assenza di precise statuizioni in ordine alla caducazione della pronuncia impugnata in parte qua, come accaduto nella specie.
E se così è, appare evidente come la ricorrente non abbia alcun interesse ad impugnare una parte della decisione che non l’ha vista soccombente e che sarebbe anzi per sé vantaggiosa in quanto consentirebbe il passaggio in giudicato della pronuncia sulla base del solo dispositivo, sussistendo l’interesse ad impugnare soltanto in capo alla parte che abbia visto sostanzialmente rigettata la sua domanda e che possa lamentare il vizio logico della sentenza costituito dalla mancanza di una motivazione idonea a sorreggerla (in tal senso, Cass., sez. 6-2, 27/06/2012, n. 10747).
9. Il secondo e il terzo motivo, da trattare congiuntamente in ragione della stretta connessione, sono inammissibili.
Con specifico riferimento al dedotto vizio di violazione di legge (art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ.), appare utile ricordare (si veda da ultimo Cass. Sez. 5, 25/09/2019, n. 23851) che esso «consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione» (e nei limiti in cui essa è consentita dalla «novellazione» del testo del n. 5 del medesimo art. 360 cod. proc. civ.); «il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi» essendo, peraltro, «segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa» (Cass. 16/02/2017, n. 4125; Cass. 13/10/2017, n. 24155). Il vizio di cui al n. 3 del primo comma dell’art. 360 cod. proc. civ., inoltre, «comprende anche la falsa applicazione della norma, ossia il vizio di sussunzione del fatto», il quale, oltre a consistere «nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla, può pure sostanziarsi nel trarre dalla norma in relazione alla fattispecie concreta conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione», ferma restando la necessità che si parta dalla ricostruzione della fattispecie concreta così come effettuata dai giudici di merito, poiché altrimenti si trasmoderebbe nella revisione dell’accertamento di fatto di competenza di detti giudici (cit. Cass. Sez. 5, 25/09/2019, n. 23851, che richiama Cass. n. 4125 del 2017).
9.1 Orbene, la contribuente lamentando, come detto, la mancata valutazione delle giustificazioni da essa addotte, ciò che avrebbe comportato sostanzialmente il ribaltamento dell’onere della prova in capo all’Ufficio, e l’omessa ripartizione tra i vari componenti del nucleo familiare delle voci di spesa considerate (quanto alle autovetture e all’appartamento in locazione), che erano state interamente addossate a lei, non ha in realtà rappresentato un’erronea ricognizione della fattispecie normativa astratta e della sua interpretazione, né un vizio di sussunzione del fatto nell’ambito di una fattispecie astratta inidonea a regolarlo, ma ha lamentato l’erronea ricostruzione della fattispecie concreta operata dalla C.T.R. sulla base delle risultanze probatorie, la quale può essere censurata soltanto sotto l’aspetto del vizio di motivazione e nei limiti di cui al testo novellato di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.. Il che comporta che le critiche proposte dalla contribuente rilevino sul piano, inammissibile in questa sede, del mero giudizio di fatto.
10. Il quarto motivo è infondato.
Va innanzitutto osservato che, al fine di individuare quale sia la norma applicabile al caso di specie, deve farsi riferimento all’art. 22, comma 1, d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, a mente della quale le modifiche apportate all’art. 38, d.P.R. n. 600 del 1973 producono effetti «per gli accertamenti relativi ai redditi per i quali il termine di dichiarazione non è ancora scaduto alla data di entrata in vigore del presente decreto», ossia per l’accertamento del reddito relativo a periodi d’imposta successivi al 2009 (in termini Cass., sez. 6-5, 06/10/2014, n. 21041).
E poiché l’oggetto della odierna contesa riguarda gli anni di imposta 2006 e 2007, trova applicazione l’art. 38 del d.P.R. n. 600 del 1973 nella formulazione antecedente alla novella del 2010.
Quest’ultima disposizione consente, in particolare, all’Amministrazione finanziaria di accertare un reddito maggiore di quello dichiarato dal contribuente sulla base della «spesa per incrementi patrimoniali» da questi sostenuta, come accaduto nel caso di specie, la quale si presume affrontata nell’anno in cui è stata effettuata e nei quattro anni precedenti. In tal caso, il contribuente, ai sensi del successivo sesto comma, è ammesso a fornire la prova contraria, dimostrando non soltanto che il maggior reddito determinato o determinabile è costituito «in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta», ma anche «l’entità» e «la durata» del possesso, i quali devono risultare «da idonea documentazione». Come chiarito da questa Corte, il contribuente, che pure non dimostri l’utilizzo di ulteriori redditi per sostenere le spese contestate, è comunque tenuto a produrre documenti dai quali emergano elementi sintomatici del fatto che ciò sia accaduto o sia potuto accadere (in tal senso, Cass. Sez. 6-5, 13/11/2018, n. 29067, Cass. Sez. 5, 20/1/2017, n. 1510) o che ne denotino l’utilizzo per effettuare le spese contestate e non altre, dovendosi in questo senso intendere il riferimento alla prova, di cui il contribuente è onerato, dell’entità di tali eventuali ulteriori redditi e della «durata» del relativo possesso (vedi da ultimo Cass. Sez. 6-5, 23/3/2018, n. 7389, ma anche Cass. Sez. 5, 26/11/2014, n. 25104, Cass. Sez. 6-5, 16/7/2015, n. 14885), restando altrimenti irrilevante, ai fini voluti, «il loro semplice “transito” nella disponibilità» dello stesso (in questi termini, Cass. Sez. 5, 26/11/2014, n. 25104 cit.). Ad avviso di questa Corte, infatti, la norma in esame persegue la finalità di ancorare a fatti oggettivi (da un punto di vista quantitativo e temporale) la disponibilità di detti redditi e la conseguente riferibilità ad essi della maggior capacità contributiva, accertata con metodo sintetico, in capo al contribuente, escludendo l’utilizzo degli stessi per finalità non considerate ai fini dell’accertamento sintetico (ad esempio, per un ulteriore investimento finanziario), perché, in tal caso, non sarebbero utili a giustificare le spese e/o il tenore di vita accertato, che andrebbero perciò ascritti a redditi non dichiarati (vedi Cass. Sez. 5, 18/04/2014, n. 8995, non massimata).
Più di recente, al fine di meglio delimitare l’ambito della prova contraria gravante sul contribuente, si è, al riguardo, chiarito (Cass. Sez. 5, 27/05/2020, n. 9905) che ad esempio, la prova documentale richiesta dalla norma in grado di superare la presunzione di maggiore reddito ben può essere fornita con l’esibizione degli estratti dei conti correnti bancari facenti capo alla parte contribuente, idonei a dimostrare, mediante l’indicazione dell’entità dei redditi e delle date dei movimenti, anche la «durata» del possesso dei redditi e, quindi, non il loro semplice «transito» nella disponibilità del contribuente (Cass. sez. 6 – 5, ordinanza n. 12026 del 16/05/2018). Quanto alla disponibilità di immobili, va osservato che, ai sensi dell’art. 38 citato, essa costituisce una presunzione di «capacità contributiva» ai sensi dell’art. 2728 cod. civ., per cui il giudice tributario, una volta accertata l’esistenza degli specifici «elementi indicatori di capacità contributiva» esposti dall’ufficio, deve valutare la prova offerta dal contribuente. L’effettiva capacità contributiva, nell’ipotesi di disponibilità di immobili, va individuata non in base alla mera proprietà e provenienza degli immobili, ma valutando le spese per il loro mantenimento (Cass. n. 10603 del 19/7/2002; Cass. n. 7408 del 31/3/2011); lo stesso principio vale per la manutenzione dei veicoli (Cass. n. 1294 del 22/1/2007).
10.1 Nella specie, risulta dagli avvisi di accertamento riprodotti integralmente nel controricorso che le spese per incrementi patrimoniali attribuite alla contribuente hanno riguardato, quanto al 2006, il possesso di due auto, una dal gennaio 2005 al dicembre 2008 e l’altra dal gennaio 2000, due immobili con periodo di possesso di 12 mesi, l’immobile in locazione e l’acquisto di un auto nel febbraio 2010 e di un appartamento nel settembre 2009, e, quanto al 2007, i medesimi beni del 2006 e l’acquisto di un’autovettura nel maggio 2011.
Dette spese, proprio in ragione della data in cui sono state sostenute, possono reputarsi rientrare integralmente nella presunzione che le considera affrontate nell’anno in cui sono state effettuate e nei quattro precedenti (tra cui rientrano senz’altro il 2006 e il 2007), a nulla rilevando il preteso sbarramento del 2009, il quale opera, secondo la novella del 2010, limitatamente all’accertamento del reddito relativo a periodi d’imposta successivi al 2009, come si è visto.
11. Il quinto motivo è infondato.
Questa Corte ha già avuto modo di affermare che, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste, a carico dell’Amministrazione finanziaria, soltanto per i tributi “armonizzati”, ma non anche per quelli “non armonizzati”, salvo che non sia specificamente sancito dalla legge, non essendo rinvenibile, nella legislazione nazionale, una prescrizione generale, analoga a quella comunitaria (Cass., sez. u., 09/12/2015, n. 24823; Cass., sez. 5, 28/12/2018, n. 33572). In caso di accertamento sintetico, in particolare, tale obbligo è espressamente previsto dall’art. 38, comma 7, del d.P.R. n. 600 del 1973, nella formulazione introdotta dall’art. 22, comma 1, del d.l. n. 78 del 2010, conv. dalla legge n. 122 del 2010, la quale è però applicabile soltanto dal periodo d’imposta 2009, sicché gli accertamenti relativi alle precedenti annualità sono legittimi anche senza l’instaurazione del contraddittorio endoprocedimentale (in tal senso, Cass., sez. 6-5, 31/05/2016, n. 11283).
Pertanto, vedendosi, nel caso in esame, su anni di imposta antecedenti al 2009, il motivo di doglianza deve ritenersi infondato.
12. Il sesto e il settimo motivo sono inammissibili. Il giudizio di cassazione è, infatti, un giudizio a critica vincolata, nel quale le censure alla pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, non essendo la Corte di cassazione giudice del fatto in senso sostanziale ed esercitando un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa, sicché la parte non può limitarsi a censurare la valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto compiuti (Cass., sez. 5, 28/11/2014, n. 25332; Cass., sez. 1, 06/03/2019, n. 6519), né il controllo di logicità del giudizio del giudice di merito equivale alla revisione del ragionamento decisorio, in quanto questo si tradurrebbe, pur a fronte di un possibile diverso inquadramento degli elementi probatori valutati, in una nuova formulazione del giudizio di fatto (Cass., sez. 1, 05/08/2016, n. 16526).
Invero, la contribuente, lamentando che dal reddito presuntivo non fossero stati detratti i redditi dichiarati attraverso i propri mod. Cud, non soltanto non ha effettivamente rilevato il richiamato vizio di violazione o falsa applicazione di legge, riconducibile al n. 3 dell’art. 360, primo comma, cod. proc. civ., ma ha sostanzialmente criticato l’erronea ricostruzione della fattispecie concreta operata dalla C.T.R. sulla base delle risultanze probatorie, dall’esame delle quali è giunta al convincimento che, per contro, l’Ufficio avesse «tenuto conto sia del reddito dichiarato dal coniuge, che del reddito da lavoro dipendente percepito dalla contribuente», sostanzialmente sollecitando un riesame nel merito della questione.
Quanto alla doglianza circa l’omessa valutazione, da parte della C.T.R., dell’adempimento dei doveri fiscali per l’anno 2006, stante la presenza dei Cud, deve osservarsi come, alla luce dei motivi espressi con riguardo alla prima censura, non sia ravvisabile l’interesse della ricorrente alla proposizione di tale questione.
Ne deriva perciò l’inammissibilità dei due motivi.
13. In conclusione, deve dichiararsi l’inammissibilità del primo, secondo, terzo, sesto e settimo motivo e l’infondatezza del quarto e del quinto con conseguente rigetto del ricorso,
14. Le spese di causa, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza e devono essere poste a carico della ricorrente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore dell’Agenzia delle Entrate, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.100,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, legge n. 228 del 2012, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art. 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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