CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 08 luglio 2022, n. 21771
Licenziamento per giusta causa – Fatture transitorie pro-forma a favore di clienti privilegiati – Assenza di preventiva autorizzazione della direzione
Rilevato che
1. La Corte d’appello di Milano, per quanto ancora rileva, ha respinto il reclamo proposto da C.P., confermando la sentenza di primo grado con cui era stata rigettata l’impugnativa del licenziamento per giusta causa intimato il 12.1.2017 dalla società A.G.M. s.p.a., alle cui dipendenze il predetto lavorava come direttore del punto vendita di San Martino Siccomario.
2. Al P. era stato contestato di avere “abusivamente e clandestinamente introdotto nel punto vendita di cui (aveva) la responsabilità la prassi delle c.d. fatture transitorie pro-forma a favore di clienti privilegiati in forza delle quali, in assenza di ordinativo e di raccolta di accettazione, ha consegnato della merce senza emettere alcun documento fiscalmente valido, concedendo sistematicamente una anomala dilazione nel pagamento anche di diversi mesi, in assenza di preventiva autorizzazione della direzione, coinvolgendo suoi subordinati gerarchici nell’emissioni di note pro-forma che finiscono per costituire una contabilità parallela a quell’ufficiale occultata alla direzione generale”.
3. La Corte territoriale ha escluso che si fossero verificate anomalie nel procedimento disciplinare. Ha osservato che nell’incontro preliminare del 28.12.2016, inteso ad avviare una prima interlocuzione col dipendente, questi aveva fornito alcuni embrionali resoconti e risposte, ma dopo il ricevimento della contestazione disciplinare del 28.12.2016 aveva potuto esercitare le sue prerogative di difesa, fornendo alla datrice di lavoro le spiegazioni sui contenuti e sul movente del proprio operato. Con tali giustificazioni, il P. “valorizzando la portata di quelle che a lui dovevano sembrare delle esimenti, aveva finito per confermare la tesi sui fatti e le circostanze che l’Azienda gli aveva additato”.
4. La sentenza impugnata ha ritenuto provata la sussistenza degli addebiti, oltre che per gli aspetti confessori ricavabili dalla difesa del lavoratore, sulla base delle deposizioni testimoniali, che avevano consentito di ricostruire la condotta del medesimo e i risultati da essa derivati o derivabili, sia in termini di ricadute sugli incassi mancati o ritardati, sia in ragione della pericolosa costante deviazione dal sistema di regole poste dall’ordinamento per gli aspetti fiscali e tributari dell’attività commerciale. Ha accertato come non esistesse in nessun punto commerciale una pratica avente una latitudine simile a quella posta in essere dal P..
5. Ha qualificato la condotta del lavoratore come grave violazione degli obblighi di cui all’art. 220, commi 1 e 2 del c.c.n.l. applicato, idonea a legittimare il licenziamento per giusta causa.
6. Avverso tale sentenza C.P. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi. La società A.G.M. s.p.a. ha resistito con controricorso.
7. È stata depositata memoria nell’interesse del ricorrente
Considerato che
8. Con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., violazione e falsa interpretazione dell’art. 2735 cod. civ.
9. Si osserva che il procedimento disciplinare era insanabilmente viziato “a monte” dal comportamento dei rappresentanti aziendali non conforme agli obblighi di correttezza e buona fede. Costoro, infatti, prima di incardinare il procedimento disciplinare avevano indotto il dipendente a sottoscrivere il 28 dicembre 2016 una dichiarazione contenente ammissioni di colpa rispetto ai comportamenti poi contestati e i giudici di merito avevano erroneamente attribuito a tale dichiarazione un valore confessorio. Essa, invece, era priva dei requisiti richiesti dall’art. 2735 cod. civ. come elementi costitutivi della confessione (elemento soggettivo: consapevolezza e volontà di ammettere un fatto a sé sfavorevole e favorevole all’altra parte; elemento oggettivo: dalla ammissione del fatto oggetto di confessione deve derivare un concreto pregiudizio all’interesse del dichiarante e un corrispondente vantaggio per il destinatario della dichiarazione), in quanto il P. non era stato informato dell’avvio di indagini disciplinari a suo carico, riteneva che dalle sue dichiarazioni non sarebbe derivata alcuna conseguenza per lui pregiudizievole ed aveva il fondato timore di essere licenziato.
10. Con il secondo motivo di ricorso si addebita alla sentenza d’appello, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., la violazione e falsa interpretazione dell’art. 7, l. 300 del 1970.
11. Si sostiene che i rappresentanti aziendali, nel momento in cui il 28 dicembre 2016 avevano invitato il P. a rendere una dichiarazione scritta sulla asserita irregolarità nella gestione delle fatture, avevano formulato una vera e propria contestazione disciplinare “orale”, in violazione del diritto di difesa del lavoratore e dell’articolo 7 St. Lav., secondo cui la contestazione di addebito deve necessariamente avvenire in forma scritta, in difetto della quale il licenziamento deve essere dichiarato illegittimo.
12. I primi due motivi di ricorso, che si trattano congiuntamente perché logicamente connessi, sono infondati.
13. E’ costante l’affermazione di questa Corte secondo cui, in tema di sanzioni disciplinari, non sono illegittime quelle indagini preliminari che il datore di lavoro eventualmente svolga al fine di acquisire, anche mediante l’audizione del lavoratore, i necessari elementi di giudizio per verificare la configurabilità o meno di un illecito disciplinare a carico di quest’ultimo, sempre che all’esito delle suddette indagini il datore di lavoro proceda alla rituale contestazione dell’addebito, ai sensi dell’art. 7, l. n. 300 del 1970, con possibilità per il lavoratore incolpato di difendersi, anche con l’assistenza di rappresentanti sindacali (v. Cass. n. 7193 del 2001; n. 23 del 1990).
14. Si è ulteriormente precisato che, qualora, in sede di indagini preliminari dirette ad accertare la commissione di un illecito disciplinare, il datore di lavoro riceva la spontanea confessione da parte del lavoratore, non si verifica alcuna violazione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970 in ordine alla preventiva contestazione dell’addebito, atteso che detto atto presuppone la conoscenza dei fatti e l’individuazione del soggetto cui attribuirli e non può, quindi, precedere, ma solo, eventualmente, seguire il compimento e la valutazione degli accertamenti preliminari. Ne consegue che deve escludersi che l’avvio delle indagini preliminari, nel corso delle quali venga convocato il lavoratore, valga ad integrare anche l’inizio del procedimento disciplinare a carico dello stesso (v. Cass. n. 11100 del 2006; n. 772 del 2003).
15. Nessuna violazione di legge può attribuirsi nel caso in esame alla società datoriale atteso che il colloquio preliminare del 28.12.16 è stato seguito dalla rituale contestazione di addebito, a fronte della quale il lavoratore ha esercitato il diritto di difesa; né sono dedotte col motivo di ricorso implicazioni negative o limitazioni al diritto di difesa derivanti dagli esiti del colloquio preliminare, atteso che anche nel ricorso per cassazione il P. dà per ammesse le condotte contestate e ne rivendica la liceità.
16. Con il terzo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 18, commi 4 e 5, l. 300 del 1970.
17. Si sostiene che i fatti addebitati al ricorrente dovevano considerarsi privi di antigiuridicità e quindi insussistenti, ai fini dell’art. 18, comma 4, cit. Il lavoratore, infatti, non aveva posto in essere comportamenti riconducibili all’art. 2119 cod. civ. e agli artt. 220 e 225 del c.c.n.l. di settore ma aveva solo applicato una prassi commerciale ben conosciuta e tollerata dall’azienda e difeso gli interessi economici e commerciali della stessa nei rapporti con i clienti più importanti e fidelizzati, senza conseguire alcun vantaggio personale o arrecare danni alla società. Si rivendica quindi la declaratoria di illegittimità del licenziamento con applicazione dell’art. 18, quarto comma, della legge 300 del 1970 o, in subordine, del quinto comma.
18. Con il quarto motivo si deduce l’insussistenza della giusta causa di licenziamento, ai sensi degli artt. 2106 e 2119 cod. civ. e degli artt. 220 e 225 del c.c.n.l. per i dipendenti del terziario.
19. Si allega che il P. non era tenuto alla emissione immediata della fattura e al rilascio della bolla di consegna, ma all’emissione della fattura entro 24 ore dal ritiro; che non aveva mai ricevuto alcuna direttiva sulla gestione della clientela più fidelizzata; che non vi erano stati mai casi di insoluti; che i clienti ai quali era concesso di ritirare la merce e pagare a distanza di pochi giorni erano tutti solvibili; che tutti i direttori di punto vendita utilizzavano questo strumento contabile per agevolare alcuni clienti con alto fatturato; che il ritiro della merce veniva in ogni caso inserito nel sistema informatico di contabilità aziendale attraverso una c.d. pre-fattura e i responsabili aziendali potevano in qualsiasi momento avere accesso ai dati della contabilità del punto vendita.
20. Con il quinto motivo di ricorso si censura la sentenza per difetto di proporzionalità del licenziamento, ai sensi degli artt. 2106 e 2119 cod. civ. e degli artt. 220 e 225 del c.c.n.l. per i dipendenti del terziario. In subordine si chiede la conversione in licenziamento per giustificato motivo soggettivo.
21. Si contesta la valutazione di proporzionalità della sanzione espulsiva sulla base dei seguenti rilievi: il ricorrente ha posto in essere, senza dolo o colpa, condotte che costituivano una prassi aziendale nota e avallata dai vertici della società; ha formulato il 28 dicembre 2016 le sue scuse per il comportamento tenuto; non aveva precedenti disciplinari; non ha arrecato alcun danno all’azienda e, anzi, ha agito nell’interesse dell’azienda allo scopo di trattenere i clienti più prestigiosi e fidelizzati; non ha conseguito alcun vantaggio personale. I fatti contestati non integrano quindi una giusta causa di recesso e non rientrano nelle fattispecie tipizzate dagli artt. 220 (che sanziona la violazione dell’obbligo di conservare diligentemente le merci e i materiali e di cooperare alla prosperità dell’impresa) e dell’art. 225 c.c.n.l.
22. I motivi dal terzo al quinto, da trattare unitariamente perché tutti relativi alla integrazione della giusta causa di recesso, sono parimenti infondati.
23. Tali motivi deducono plurimi vizi di violazione di legge sul presupposto di una ricostruzione in fatto diversa da quella accertata dai giudici di merito.
24. Il lavoratore rivendica l’irrilevanza disciplinare della sua condotta e, comunque, la mancata proporzionalità della sanzione espulsiva, sul rilievo della esistenza di una prassi nota e tollerata dalla società sulla consegna di merce senza emissione dei documenti contabili e fiscali, circostanza che invece i giudici di appello, in conformità alla pronuncia di primo grado, hanno escluso (sentenza, pag. 6: “[…] non esisteva in nessun punto commerciale una pratica avente una latitudine simile a quella narrata dal P.”).
25. Il ricorrente contesta, inoltre, la valutazione data dalla Corte d’appello ai singoli aspetti della condotta, sia evidenziando elementi privi di rilevanza ai fini del decidere, come la mancanza di direttive sui clienti fidelizzati, sia facendo leva sulla mancanza di insoluti e sulla finalità della condotta contestata di agevolare l’azienda, senza confrontarsi con la ratio decidendi della decisione impugnata che, conformemente al tribunale, ha valorizzato e giudicato dirimenti le implicazioni negative derivanti dalla violazione, nella gestione delle vendite dell’esercizio commerciale, degli obblighi di natura fiscale e contabile.
26. Le critiche mosse con i motivi in esame si limitano, in sostanza, a contrappone alla sentenza d’appello una diversa ricostruzione in fatto ed una diversa valutazione di gravità della condotta e quindi di proporzionalità della sanzione espulsiva, secondo uno schema che si colloca decisamente all’esterno del perimetro del vizio di violazione di legge.
27. Come ripetutamente affermato da questa Corte, in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità nei limiti indicati dalle S.U. con le sentenze nn. 8053 e 8054 del 2014.
Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (v. Cass. n. 195 del 2016; n. 26110 del 2015; n. 8315 del 2013; n. 7394 del 2010). È dunque inammissibile una censura che fondi il presunto errore interpretativo di diritto su una ricostruzione fattuale diversa da quella posta a fondamento della decisione, alla stregua di una alternativa interpretazione delle risultanze di causa.
28. Per le ragioni esposte il ricorso deve essere respinto.
29. Le spese di lite seguono il criterio di soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
30. Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui all’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della L. 24 dicembre 2012 n. 228.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 4.000,00 per compensi professionali, in euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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