CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 08 maggio 2019, n. 12153
Tributi – Tasse di concessione governativa sulla telefonia mobile in abbonamento – Diritto al rimborso – Esclusione
Rilevato che
Il Comune di Cittadella propone ricorso per cassazione, affidato a nove motivi, avverso la sentenza della Commissione Tributaria regionale del Veneto in epigrafe indicata, con la quale – in controversia concernente l’impugnazione del silenzio-rifiuto opposto dall’Amministrazione finanziaria ad istanza del contribuente di rimborso delle tasse di concessione governativa sulla telefonia mobile in abbonamento versate negli anni 2006, 2007, 2008 e 2009, deducendo il contribuente la illegittimità della tassa, a seguito di intervenuta abrogazione dell’art. 318 del d.P.R. n. 156/1973 ad opera del d.lgs. n. 259/2003 – è stata riformata la sentenza di primo grado, con conseguente accoglimento dell’appello dell’Ufficio e rigetto dell’istanza di rimborso.
In particolare, i giudici di appello, ritenendo manifestamente infondata la questione di costituzionalità del tributo sollevata dal contribuente, dopo avere richiamato i principi enunciati dalla sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 9560 del 25 febbraio 2014 e la norma di interpretazione autentica dettata dall’art. 2, comma 4, del d.l. 28 gennaio 2014, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 marzo 2014, n. 50, hanno sostenuto sussistente, anche a carico dei Comuni, l’obbligo di versamento della tassa di concessione governativa sulla telefonia mobile in abbonamento ed infondata l’istanza di rimborso.
L’Agenzia delle Entrate resiste mediante controricorso.
Considerato che
1. Con il primo motivo di ricorso, il Comune ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1 del d.P.R. 641/1972, della Tariffa 21 allegata al d.P.R. n. 641/1972, dell’art. 2, comma 4, del d.l. 4/14 convertito in I. 50/2014, dell’art. 160 del d.lgs. n. 259/2003, nonché violazioni di direttive comunitarie.
Sostiene che la sentenza impugnata appare illegittima poiché fondata su una normativa nazionale contraria alle direttive comunitarie di settore nn. 5/99, 20/02 e 22/02, in quanto la normativa nazionale (d.l. n. 4/14, art. 160 d.lgs. 259/2003 e art. 21 Tariffa allegata al d.P.R. n. 641/1972) ha previsto che per <<stazioni radioelettriche>> devono intendersi anche le <<apparecchiature terminali di telecomunicazione>> (ossia i telefoni cellulari), determinando di fatto una equiparazione dei due apparati, al fine di legittimare il pagamento della tassa di concessione governativa, con la conseguenza che per l’utilizzo e la messa in servizio dei cellulari deve essere conseguito il provvedimento amministrativo, denominato autorizzazione generale, senza però tenere conto che le rispettive direttive comunitarie non sono ugualmente <<armonizzabili>>; infatti, le direttive nn. 5/99 e 20/02 prevedono la libera circolazione e la libera messa in servizio degli apparecchi terminali di telefonia mobile, mentre la normativa nazionale sottopone il telefono cellulare a preventiva autorizzazione e licenza, e la direttiva 22/2002 definisce il contenuto dell’atto stipulato tra il gestore del servizio e l’utente finale come <<contratto>> privatistico, anziché come <<abbonamento>>, a differenza della normativa nazionale che prevede, invece, l’obbligo di autorizzazione generale a carico solamente dei soggetti che hanno stipulato un contratto denominato <<abbonamento>>.
Evidenziando che la Corte UE non si è mai espressa sulla legittimità comunitaria della recente normativa di interpretazione autentica ex d.l. 4/2014, convertita in I. n. 50/2014, il ricorrente formula istanza di sospensione ex art. 267 TFUE al fine di sottoporre alla Corte di Giustizia delle Comunità europee una domanda di pronuncia pregiudiziale in merito al contrasto tra la normativa comunitaria e la normativa nazionale.
2. Con il secondo motivo, si deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 1 del d.P.R. n. 641/1972, della Tariffa 21 allegata al d.P.R. n. 641/1972 e dell’art. 2, comma 2, lett. b) del d.lgs. n. 259/2003, in combinato disposto all’art. 97 Cost., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.- campo di applicazione – il telefono cellulare è disciplinato dal d.lgs. n. 269/2001”.
Il Comune ricorrente sostiene che la sentenza impugnata viola il principio di legalità, attesa l’abrogazione della fonte normativa che prevedeva il pagamento del tributo, ossia dell’art. 318 del vecchio codice delle Poste e telecomunicazioni, e la mancanza di disciplina specifica per i telefoni cellulari nel nuovo codice delle Telecomunicazioni, sottolineando che il d.lvo n. 259/2003 ed il d.lgs. n. 269/2001 hanno introdotto una netta separazione tra la disciplina delle stazioni radioelettriche e dei telefoni cellulari ed hanno implicitamente abrogato la disposizione di cui all’art. 3 del d. m. 33/1990; la separazione tra le due discipline, ad avviso del Comune, è espressamente prevista dall’art. 2, comma 2, lett. b) del d.lgs. n. 259/2003, il quale prevede che le disposizioni del codice delle comunicazioni non si applicano alle <<apparecchiature contemplate dal d.lgs. 9 maggio 2001 n. 269 che attua la direttiva 1999/5/CE….>> (ossia ai telefoni cellulari), con la conseguenza che il primo comma dell’art. 160 del nuovo Codice delle comunicazioni elettroniche, nel quale, anche secondo la sentenza delle Sezioni Unite n. 9560/2014, è stato trasfuso il contenuto dispositivo del primo comma dell’art. 318 del d.P.R. n. 156/1973, rappresenta la fonte giuridica della licenza d’esercizio per le solo stazioni radioelettriche.
Rileva, pertanto, che sebbene l’art. 318 citato (richiamato dalla voce 21 della tariffa allegata al d.P.R. n. 641/1972) sia stato riprodotto nell’art. 160 del d.lvo n. 259/2003, quest’ultimo non disciplina più i telefoni cellulari, ma solo le stazioni radioelettriche; allo stesso modo la disposizione dell’art. 3, comma 2, del d.m. 33/1990, richiamata dalla voce 21 della tariffa, è stata abrogata da una disposizione di rango superiore, successiva nel tempo e con essa incompatibile, ossia dal d.lvo n. 269/2001 con il quale è stata recepita la direttiva 1999/5/CE.
Assume, pertanto, che il nuovo art. 160, comma 1, riproduttivo dell’art. 318 e riferibile alle sole stazioni radioelettriche, e l’abrogazione implicita dell’art. 3, comma 2, del d.m. n. 33/1990 avrebbero fatto venir meno il necessario riferimento alla licenza di esercizio e, conseguentemente, all’atto amministrativo (documento sostitutivo) quale presupposto impositivo, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 1 del d.P.R. n. 641/1972, della TCG per la telefonia mobile.
Il ricorrente chiede, pertanto, qualora non fosse accolta l’istanza formulata ai sensi dell’art. 267 TFUE, la rimessione della causa alle Sezioni Unite, non ritenendo condivisibile la decisione delle Sezioni Unite, alla quale fa espresso riferimento la sentenza d’appello impugnata.
3. Con il terzo motivo, si denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 1 del d.P.R. n. 641/1972, dell’art. 21 della Tariffa allegata al d.P.R. n. 641/1972, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.- abrogazione espressa dell’art. 318 del d.P.R. n. 156/1973 – abrogazione implicita dell’art. 3 del d.l. n. 151/1991 e dell’art. 3 d.m. n. 33/1990”.
Il Comune ricorrente ribadisce che l’unico presupposto normativo della tassa in esame era l’art. 318 del d.P.R. n. 156/1973 che è stato espressamente abrogato dall’art. 218, comma 1, lett. s), del d.lgs. n. 259 del 2003, e che l’art. 21 della tariffa allegata al d.P.R. 641/1972 è inapplicabile dal 2003.
4. Con il quarto motivo, il Comune ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1 del d.P.R. n. 641/1972, dell’art. 21 della Tariffa allegata al d.P.R. n. 641/1972 in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.- illegittimità della sentenza impugnata perché si fonda su di una normativa abrogata: l’art. 21 tariffa allegata al d.P.R. n. 641/1972 implicitamente abrogato ex art. 15 disp. prel. cod. civ.
Rileva che il nuovo Codice delle Telecomunicazioni (d.lgs. n. 259/2003) detta una disciplina incompatibile con l’art. 21 della Tariffa allegata al d.P.R. n. 641/1972, poiché liberalizza la fornitura di reti e servizi di comunicazione elettronica, sottaendola alla proprietà esclusiva dello Stato, e che l’attività di fornitura di servizi di telecomunicazione, per effetto dell’innovazione apportata dal Codice delle Telecomunicazioni, non è assoggettata ad alcun provvedimento amministrativo di autorizzazione.
5. Con il quinto motivo, il Comune ricorrente censura la sentenza per “violazione e falsa applicazione dell’art. 1 del d.P.R. n. 641/1972, dell’art. 21 tariffa allegata al d.P.R. n. 641/1972, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., illegittimità della sentenza impugnata perché fondata su una tassa priva di presupposto di fatto. Il contratto di abbonamento telefonico non è un documento sostitutivo della licenza di esercizio”.
Deduce che la sentenza impugnata va cassata poiché la tassa di concessione governativa sulla telefonia mobile in abbonamento è priva del presupposto impositivo, che è ricondotto (art. 1 d.P.R. n. 641/1972) all’esistenza di un provvedimento amministrativo, ossia la licenza di esercizio ovvero il suo documento sostitutivo; detta licenza, disciplinata dal combinato disposto dell’art. 318, comma 1, e dall’art. 3 del d.m. 33/1990, la cui applicazione era stata estesa anche alle apparecchiature cellulari, collegava la richiesta di una tassa ad una attività amministrativa di controllo tecnico preventivo da parte del Ministero che, a norma dell’art. 3 del d.m. n. 33/1990, era riferita alla verifica tecnica dell’apparecchiatura terminale ed alla sua omologazione. Il sistema delineato dal d.lvo n. 269/2001 non prevede più un controllo preventivo da parte dello Stato per l’immissione nel mercato dei telefoni cellulari ed è previsto il libero uso degli apparecchi cellulari inteso come <<la facoltà di utilizzo di dispositivi o di apparecchiature terminali di comunicazione elettronica senza necessità di autorizzazione generale>>.
Evidenzia, quindi, che non vi è alcuna identità tra il potere autorizzatorio (rilascio della licenza di esercizio) di cui all’art. 160 per le stazioni radioelettriche ed i poteri di mero controllo postumi attribuiti allo Stato dalla direttiva comunitaria 1999/5/CE e che la disciplina dettata dal d.lgs. n. 269/2001 e dalla direttiva 1999/5/CE si pongono in rapporto di specialità con quella di cui al d.lvo n. 259/2003; l’art. 160 trova applicazione solo per le stazioni radioelettriche escluse dall’ambito di applicazione del d.lvo n. 269/2001 e per le quali è ancora prevista la licenza di esercizio e l’attività amministrativa da parte dell’Amministrazione pubblica, mentre i telefoni cellulari sono esclusi dall’ambito di applicazione dell’art. 160 del codice.
6. Con il sesto motivo, deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 1 del d.P.R. n. 641/1972 e dell’art. 21 della tariffa allegata in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.- illegittimità della sentenza impugnata perché fondata su una tassa priva di presupposto- violazione dei principi generali dell’ordinamento”.
Il ricorrente rappresenta che con l’entrata in vigore del Codice delle Telecomunicazioni (d.lgs. n. 259/2003) il servizio di gestione di telefonia non è più un servizo reso dallo Stato, per cui manca quella <<controprestazione>> che giustificherebbe la tassa di concessione governativa; infatti, l’assenza di attività amministrativa preventiva da parte dell’Amministrazione pubblica comporta il venir meno di un elemento essenziale delle tasse di concessione governativa ex art. 1 d.P.R. n. 641/1972, ossia il collegamento tra l’insorgenza del tributo e l’adozione dell’atto amministrativo.
7. Con il settimo motivo, si deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 1 del d.P.R. n. 641/1972, della Tariffa 21 allegata al d.P.R. n. 641/1972, dell’art. 2, comma 4, del d.l. 4/2014, convertito in legge 50/2014, dell’art. 160 del d.lgs. n. 259/2003, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ. – irretroattività della normativa”.
Il Comune ricorrente contesta ai giudici di appello di avere ritenuto dovuto il tributo sul presupposto errato che l’art. 160 del d.lgs. n. 259/2003, come interpretato dall’art. 2, comma 4, d.l. n. 4/2014, convertito in I. 50/2014, ne costituisca il presupposto normativo, non considerando che la norma interpretativa non può spiegare effetti retroattivi; sostiene, altresì, che la norma interpretativa amplia l’ambito di applicazione della disposizione di cui all’art. 160 del Codice, ritenendo che il termine <<stazioni radioelettriche>> debba essere riferito anche alle <<apparecchiature terminali per il servizio radiomobile terrestre di comunicazione>>, che sono, invece, mezzi di comunicazione diversi soggetti a diversa disciplina, con la conseguenza che, avendo contenuto innovativo, non ha efficacia retroattiva e si pone in netto contrasto con l’art. 2, lett. b) del Codice delle Telecomunicazioni che dispone che <<Non formano oggetto del Codice le disposizioni in materia di ….apparecchiature contemplate dal d.lgs. 9 maggio 2001, n. 269 che attua la direttiva 1999/5/CE….>>.
8. Le censure dedotte con i sette motivi sopra esposti, che possono essere trattate unitariamente, in quanto strettamente connesse, sono infondate.
8.1. La questione proposta è già stata esaminata dalle Sezioni Unite di questa Corte con sentenza n. 9560 del 2014, con la quale si è affermato che, in tema di radiofonia mobile, l’abrogazione dell’art. 318 del d.P.R. 28 marzo 1973, n. 156, ad opera dell’art. 218 del d.lgs. 1 agosto 2003, n. 259, non ha fatto venire meno l’assoggettabilità dell’uso del <<telefono cellulare>> alla tassa governativa di cui all’art. 21 della tariffa allegata al d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 641, in quanto la relativa previsione è riprodotta nell’art. 160 del d.lgs. n. 259 citato.
Va, infatti, esclusa – come anche desumibile dalla norma interpretativa introdotta con l’art. 2, comma 4, del d.l. 24 gennaio 2014, n. 4, convertito, con modificazioni, in legge 28 marzo 2014, n. 50, che ha inteso la nozione di stazioni radioelettriche come inclusiva del servizio radiomobile terrestre di comunicazione – una differenziazione di regolamentazione tra <<telefoni cellulari>> e <<radio – trasmittenti>>, risultando entrambi soggetti, quanto alle condizioni di accesso, al d.lgs. 259 citato (attuativo, in particolare, della direttiva 2002/20/CE, cosiddetta direttiva autorizzazioni), e, quanto ai requisiti tecnici per la messa in commercio, al d.lgs. 5 settembre 2001, n. 269 (attuativo della direttiva 1999/5/CE), sicché il rinvio, di carattere non recettizio, operato dalla regola tariffaria deve intendersi riferito attualmente all’art. 160 della nuova normativa, tanto più che, ai sensi dell ‘art. 219 del medesimo d.lgs., dalla liberalizzazione del sistema delle comunicazioni non possono derivare <<nuovi o maggiori oneri per lo Stato>> e, dunque, neppure una riduzione degli introiti anteriormente percepiti.
8.2. Le Sezioni Unite hanno escluso che l’applicabilità di siffatta tassa si ponga in contrasto con le direttive europee in materia – la Direttiva 1999/5/CE, riguardante le apparecchiature radio e le apparecchiature terminali di telecomunicazione e il reciproco riconoscimento della loro conformità (attuata nell’ordinamento giuridico italiano con il d.lgs. 9 maggio 2001, n. 269); la Direttiva 2002/19/CE, riguardante l’accesso alle reti di comunicazione elettronica e le risorse correlate, e l’interconnessione delle medesime (c.d. “direttiva accesso”); la Direttiva 2002/20/CE, riguardante le autorizzazioni per le reti e i servizi di comunicazione elettronica (c.d. “direttiva autorizzazioni”); la Direttiva 2002/21/CE, che istituisce un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica (c.d. “direttiva quadro”); la Direttiva 2002/22/CE, riguardante il servizio universale e i diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica (c.d. “direttiva servizio universale”); la Direttiva 2002/77/CE, riguardante la concorrenza nei mercati delle reti e dei servizi di comunicazione elettronica, (direttive queste tutte attuate nell’ordinamento giuridico italiano con il d.lgs. 1 agosto 2003, n. 259, come poi modificato con d.lgs. 28 maggio 2012, n. 70, che ha dato esecuzione alla Direttiva 2009/140/CE, che ha modificato in parte le precedenti direttive) – atteso che, secondo la Corte di Lussemburgo, il quadro normativo comunitario emergente dalle ricordate direttive non osta ad una norma nazionale che preveda un tributo come la tassa di concessione governativa (Corte giustizia 15 dicembre 2010, in causa C-492/09; Corte giustizia 27 giugno 2013, in causa C-71/12; Corte Giustizia 12 dicembre 2013, in causa C-335/13).
Hanno inoltre affermato che : 1) il riferimento contenuto nel citato art. 21 della tariffa allegata al d.P.R. n. 641 del 1972 all’art. 318 del Codice postale deve intendersi attualmente riferito all’art. 160 del d.lgs. n. 259 del 2003, stante il carattere <<formale>> e non <<recettizio>> del rinvio operato dalla regola tariffaria (par. 8.1.1.); 2) attraverso un continuum normativo – art. 318 del d.P.R. 29 marzo 1973, n. 156, d.m. 3 agosto 1985 (regolamento concernente il servizio radiomobile terrestre pubblico veicolare), d.m. 13 febbraio 1990, n. 33 (Regolamento concernente il servizio radiomobile pubblico terrestre di comunicazione), art. 3, d.l. 13 maggio 1991, n. 151 – la disciplina dei “telefoni cellulari”, con riferimento all’applicabilità della tassa di concessione governativa, emerge come necessitato sviluppo della disciplina delle “stazioni radiolelettriche” (par. 8.3. ); 3) <<una interpretazione delle norme del d.lgs. 259 del 2003 da cui si facesse discendere un’attuale inapplicabilità della tassa di concessione governativa sui telefonini sarebbe incompatibile con la disposizione di cui all’art. 219 del codice delle comunicazioni>>; 4) avuto riguardo alla disciplina comunitaria (Direttive 5/1999 e 21/2002), << tra radio e telefoni non c’è una distinzione in relazione alla fonte regolatrice, bensì solo in relazione all’attività: nel senso che la direttiva n. 5/99 ed il decreto n. 269 del 2001 si occupano delle specifiche tecniche sia della radio che dei telefoni; mentre la direttiva n. 21/02 ed il decreto n. 259 del 2003 si occupano delle reti e delle relative autorizzazioni di esercizio sia per le radio, sia per i telefonia.
Hanno, quindi, rilevato come <<Nel difficile quadro di contrastanti posizioni esegetiche che si è determinato in ordine alla questione qui in esame, il legislatore ha ritenuto opportuno intervenire per un definitivo e rassicurante chiarimento con l’art. 2, comma 4, del d.l. 24 gennaio 2014, n. 4, convertito con modificazioni dalla legge 28 marzo 2014, n. 50. La richiamata disposizione stabilisce: <<Per gli effetti dell’articolo 21 della Tariffa annessa al decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 641, le disposizioni dell’articolo 160 del Codice delle comunicazioni elettroniche di cui al decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259, richiamate nel predetto articolo 21, si interpretano nel senso che per stazioni radiolelettriche si intendono anche le apparecchiature terminali per il servizio terrestre di comunicazione>>. Si tratta, come ha affermato il relatore al disegno di legge di conversione in sede di discussione alla Camera dei deputati, di una norma interpretativa, che <<prevede espressamente l’applicabilità della tassa di concessione governativa (articolo 21 della tariffa annessa al decreto del Presidente della Repubblica n. 641 del 1972 sulle concessioni governative) ai contratti di abbonamento per la telefonia cellulare>>.
Questa Corte ha, pure, affermato che la tassa in questione è dovuta da parte degli enti locali, in quanto non può ad essi estendersi l’esenzione prevista dall’art. 13-bis, comma 1, del d.P.R. n. 641 del 1972, a favore dell’Amministrazione dello Stato, atteso che <<In tema di tassa sulle concessioni governative, le esenzioni previste dall’art. 13-bis, comma 1, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 641, in favore delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale (Onlus) e delle società ed associazioni sportive dilettantistiche non si applicano agli enti pubblici, territoriali e non territoriali, atteso l’espresso disposto dell’art. 1, comma 10, del d.lgs. 4 dicembre 1997, n. 460, e l’insuscettibilità di applicazione analogica delle norme di esenzione ed agevolazione fiscale>> (Cass. n. 8825 del 1/6/2012).
8.3. L’assenza di contrasto tra la normativa nazionale e le direttive comunitarie trova ulteriore conforto nella sentenza della Corte di Giustizia UE del 17 settembre 2015, in causa C-416/14, che ha ritenuto che la disciplina UE va interpretata nel senso che non osta a una normativa nazionale relativa all’applicazione di una tassa, quale la tassa di concessione governativa, in forza della quale l’impiego di apparecchiature terminali per il servizio radiomobile terrestre, nel contesto di un contratto di abbonamento, è assoggettato a un’autorizzazione generale o a una licenza nonché al pagamento di detta tassa, in quanto il contratto di abbonamento sostituisce di per sé la licenza o l’autorizzazione generale e, pertanto, non occorre alcun intervento dell’amministrazione al riguardo.
In particolare, con riferimento alla Direttiva 1999/5/CE, riguardante le apparecchiature radio e le apparecchiature terminali di telecomunicazioni (volta a garantire la libera circolazione segnatamente delle apparecchiature terminali di telecomunicazione conformi a determinati requisiti essenziali definiti dalla direttiva medesima), ed al suo art. 8 (secondo il quale gli Stati membri non vietano, limitano o impediscono l’immissione sul mercato e la messa in servizio sul loro territorio di apparecchi recanti la marcatura CE), la Corte UE ha chiarito, sulla base di quanto emerso dagli atti e dalle stesse osservazioni delle parti ricorrenti (e salva diversa verifica ad opera del giudice nazionale), che la normativa nazionale, che prevede l’applicazione della tassa sulle concessioni governative, non si pone in contrasto con il principio comunitario della libera circolazione delle apparecchiature terminali per il servizio radiomobile terrestre, <<non essendo richiesto alcun intervento, attività o controllo da parte dell’amministrazione>>, valendo il contratto di abbonamento <<di per se stesso>> quale documento sostitutivo dell’autorizzazione generale e/o della licenza stazione radio ed incidendo la stessa tassa <<non sulle apparecchiature terminali per servizio radiomobile terrestre>>, bensì sui contratti di abbonamento sottoscritti per l’uso di tali apparecchiature, senza alcuna interferenza con la vendita di dette apparecchiature terminali.
In tale contesto, è stato poi aggiunto, nella medesima pronuncia della Corte UE, che l’articolo 20 della direttiva 2002/22/CE (c.d. Direttiva Reti, disciplinante la fornitura di reti e di servizi di comunicazione elettronica agli utenti finali), come modificata dalla direttiva 2009/136/CE, (e l’articolo 8 della direttiva 1999/5/CEE di cui sopra) e le altre Direttive Reti (Direttive nn. 2002/21, 2002/19 e 2002/22) vanno interpretati nel senso che non ostano, ai fini dell’applicazione di una tassa quale la tassa di concessione governativa, all’equiparazione a un’autorizzazione generale o a una licenza di stazione radioelettrica di un contratto di abbonamento a un servizio di telefonia mobile, che deve peraltro precisare il tipo di apparato terminale di cui si tratta e l’omologazione di cui è stato oggetto.
Ad avviso della Corte UE, invero, la disposizione in esame non ricade nell’ambito applicativo delle Direttive stesse, essendo la tassa in oggetto collegata all’uso privato dei servizi di telefonia mobile e non essendone <<il fatto generatore>> collegato ad una <<procedura di autorizzazione generale che consenta di accedere al mercato dei servizi di comunicazioni elettroniche» (in sostanza il contratto di abbonamento, equiparato ad <<una autorizzazione generale», <<non ha lo scopo di autorizzare la fornitura di servizi di reti>>, essendo inteso runicamente come fatto generatore della TCG»).
Inoltre, secondo la Corte, il quadro comunitario, unitamente all’articolo 20 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, va interpretato nel senso che non osta ad un trattamento differenziato degli utenti di apparecchiature terminali per il servizio radiomobile terrestre, a seconda che essi sottoscrivano un contratto di abbonamento a servizi di telefonia mobile o acquistino tali servizi in forma di carte prepagate eventualmente ricaricabili, in base al quale solo i primi sono assoggettati a una normativa nazionale come quella che istituisce la tassa di concessione governativa.
Ciò in quanto, da un lato, <<le direttive reti e la direttiva 1999/5 non disciplinano l’applicazione di una tassa, quale quella in esame, e le disposizioni della Carta “si applicano agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione” e, dall’altro lato, come già sopra esposto, non vi è trattamento differenziato non essendo richiesto alcun intervento effettivo di “autorizzazione dell’amministrazione”, “visto che il contratto di abbonamento sostituisce di per sé l’autorizzazione>>.
La Corte di Giustizia ha, dunque, ulteriormente ribadito l’esclusione di ogni incompatibilità tra diritto comunitario e diritto nazionale, circa la legittima prevedibilità di una tassa di concessione governativa applicabile ai c.d. «telefoni cellulari», sicché non si ravvisano argomentazioni idonee a superare le motivazioni espresse della sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 9560 del 2014 sull’interpretazione della normativa nazionale.
A seguito dell’Intervento della Corte di Giustizia, non può pertanto più essere messa in discussione la compatibilità della tassa di concessione governativa con l’ordinamento UE, per cui deve escludersi la sussistenza dei presupposti per una nuova rimessione del ricorso alla Corte di Giustizia UE.
8.4. Le argomentazioni difensive sviluppate dal Comune ricorrente volte a sollecitare una rimeditazione dei principi enunciati dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 9560 del 2014 non sono condivisibili, proprio alla luce dell’intervento legislativo dell’art. 2, comma 4, del d.l. n. 4/2014, cui va riconosciuta, come già precisato dalle Sezioni Unite, natura interpretativa e conseguente retroattività.
Infatti, <<il legislatore può adottare norme di interpretazione autentica non soltanto in presenza di incertezze sull’applicazione di una disposizione o di contrasti giurisprudenziali, ma anche quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, con ciò ^ vincolando un significato ascrivibile alla norma anteriore» (Corte Cost. n. 209 del 2010, punto 5.1 della motivazione) e, nella specie, il decreto legge n. 4/2014 è intervenuto in presenza di un contrasto interpretativo; tale considerazione è di per sé sufficiente a ritenere infondato l’assunto di parte ricorrente secondo cui la disposizione di cui all’art. 2, comma 4, d.l. 4/2014 avrebbe portata innovativa e non interpretativa.
9. Con l’ottavo motivo, il ricorrente denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 1 del d.P.R. n. 641/1972 e dell’art. 21 della tariffa allegata, dell’art. 114 della Cost., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ. – illegittimità della sentenza impugnata per difetto di legittimazione passiva dei Comuni rispetto alla tassa de qua”.
Il Comune ricorrente, deducendo che i giudici di secondo grado hanno erroneamente ritenuto non applicabili i principi costituzionali di equiordinazione (art. 114 Cost.) e di sussidiarietà verticale (art. 118 Cost.), sottolinea che le Pubbliche Amministrazioni svolgono un ruolo centrale nell’attuazione dei principi e della disciplina del codice delle comunicazioni elettroniche che giustifica, al pari dello Stato, l’esonero del pagamento della Tassa di concessione governativa sulla telefonia mobile.
9.1. La censura è infondata.
9.2. Come già chiarito da questa Corte (Cass. n. 17386 del 30 luglio 2014), <<quanto alla pretesa violazione dell’art. 114 Cost., è sufficiente rilevare che lo Stato è esente dalla tassa sulle concessioni governative, a differenza dai Comuni, non perché a questi ultimi sovraordinato, ma perché, essendo il percettore delle entrate derivanti dalla tassa, il suo assoggettamento alla tassa darebbe luogo ad una mera partita di giro, priva di significato finanziario. Quanto alla pretesa violazione dell’art. 118 Cost. e del principio di sussidiarietà verticale ivi sancito, è sufficiente rilevare che il fatto che i Comuni debbano versare – al pari di tutti gli altri utenti dei servizi di telefonia mobile che non beneficino di specifiche norme di esenzione – la tassa di concessione governativa sugli abbonamenti stipulati per la fruizione di detti servizi è palesemente ininfluente ai fini della loro possibilità di svolgere, nell’esercizio dei loro poteri di pianificazione territoriale, le funzioni amministrative di loro competeza in materia di installazione di infrastrutture di reti di telefonia mobile>>.
10. Con il nono motivo di ricorso, infine, il Comune ricorrente solleva questione di illegittimità costituzionale dell’art. 21 della tariffa allegata, sia singolarmente considerato, sia in combinato disposto con l’art. 160 del codice delle comunicazioni, ove si consideri ancora vigente la tassa di concessione governativa per i contratti di abbonamento, nonché presunta illegittimità costituzionale per violazione dell’art. 3 Cost.
10.1. Il motivo è infondato.
Questa Corte, con sentenza n. 25522 del 2/12/2014, ha ritenuto manifestamente infondati tali rilievi, osservando, con motivazione a cui questo Collegio intende aderire, che <<la fruizione di servizi di telefonia mobile in base ad un rapporto contrattuale di abbonamento col gestore presenta caratteristiche giuridiche e fattuali non sovrapponibili all’acquisto di un certo tempo di conservazione telefonica mediante la ricarica di una carta prepagata>>, considerato che <<l’utente nel primo caso gode del servizio continuativamente e si obbliga al pagamento di un canone periodico, mentre nel secondo caso acquista un pacchetto di minuti di conversazione telefonica >>, cosicché <<la differenza obbiettiva tra le due situazioni esclude l’irragionevolezza della diversità del relativo trattamento tributario, con riferimento al parametro di cui all’art. 3 Cost. >>.
In conclusione, la sentenza impugnata, essendosi uniformata ai principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite, si sottrae alle censure che le sono state rivolte.
11. Il ricorso va, quindi, rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità seguono i criteri della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso articolo 13.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma l-guaterdel d.P.R. n. 115 del 2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso articolo 13.
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