CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 08 marzo 2022, n. 7440
Tributi – Accertamento – Intermediazione di manodopera – Utilizzo di manodopera extracomunitaria mediante contratti di appalto simulati – IRAP – Detrazione dei costi dei lavoratori – Esclusione – Obbligo dell’interponente di pagamento delle ritenute – Esclusione
Premesso che
L’Agenzia delle Entrate notificò alla T. s.n.c., nonché ai suoi soci, gli avvisi di accertamento, relativi agli anni d’imposta 2004, 2005 e 2006, contestando maggiori imponibili ai fini Iva, Irap e imposte dirette. L’accertamento era fondato sulla rilevata violazione del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 e del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, per l’illecito utilizzo di manodopera extracomunitaria, mediante simulati contratti di appalto. Erano pertanto anche elevati atti di contestazione e irrogate sanzioni per ritenute alla fonte non operate e non versate sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori. Con ulteriori avvisi di accertamento furono contestate le stesse violazioni e rideterminati i tributi relativi agli anni d’imposta 2007 e 2008. Rideterminandosi il reddito della società, furono recuperati a tassazione anche i maggiori redditi di partecipazione dei soci.
Tutti gli atti impositivi relativi alle annualità 2004/2006 furono impugnati dalla società e dai soci e, successivamente alla dichiarazione di fallimento della prima, i relativi giudizi furono interrotti e riassunti dalla curatela fallimentare e dai soci. Gli atti relativi alle successive annualità furono impugnati dalla curatela e dai soci. Riuniti tutti i ricorsi, nelle more avendo provveduto l’Agenzia delle entrate ad annullare in autotutela i rilievi riferiti all’Iva, la Commissione tributaria provinciale di Udine con sentenza n. 33/01/2013 dichiarò cessata la materia del contendere relativamente al suddetto tributo e, accogliendo le ragioni dei contribuenti sul resto del contenzioso, annullò tutti gli atti impositivi.
La pronuncia fu appellata dall’Ufficio limitatamente alle contestazioni riguardanti l’omessa effettuazione delle ritenute da parte della società, sostituto d’imposta quale interponente e fruitore effettivo delle prestazioni lavorative della manodopera, e la deducibilità ai fini Irap dei suddetti oneri. La Commissione tributaria regionale del Friuli – Venezia Giulia, con sentenza n. 319/08/2014, ha rigettato l’appello. Il giudice regionale ha riconosciuto che, alla luce dell’art. 27, comma 1, del d.lgs. 276 del 2003, al lavoratore spetta la facoltà di richiedere, mediante ricorso ex art. 414 cod. proc. civ., la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’appaltante (o interponente), quale effettivo utilizzatore della prestazione medesima. Pertanto, in carenza della instaurazione del suddetto rapporto di lavoro, l’Agenzia delle entrate non può pretendere che tale società adempia agli obblighi del datore di lavoro, e dunque operi le ritenute sulla retribuzione corrisposta al lavoratore, provvedendo al loro versamento all’erario quale sostituto d’imposta. Per le medesime ragioni ai fini Irap ha escluso la indeducibilita del costo della manodopera.
L’Agenzia delle Entrate ha censurato la sentenza con due motivi, invocandone la cassazione. Gli intimati non hanno svolto difese.
Nell’adunanza camerale dell’ll novembre 2021 la causa è stata trattata e decisa.
Considerato che
Con il primo motivo l’Amministrazione finanziaria ha denunciato la violazione e falsa applicazione dell ‘art. 23 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nonché degli artt. 21 e 27 del d.lgs. n. 276 del 2003, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., per avere escluso in capo alla società gli obblighi del sostituto d’imposta, quale datore di lavoro della manodopera assunta con lo schermo del contratto d’appalto.
L’ufficio, sulla premessa che il contratto di appalto mascherava una irregolare somministrazione di manodopera, come tale nulla, si duole del mancato riconoscimento a carico dell’interponente degli obblighi del sostituto d’imposta, previsti dall’art. 23 del d.P.R. n. 600 del 1973. Sostiene in sintesi che la disciplina applicabile nel vigore dell’art. 1 della l. 23 ottobre 1960, n. 1369, non sarebbe mutata con l’introduzione del d.lgs. n. 276 del 2003, ed in particolare la fattispecie della somministrazione irregolare delle prestazioni di lavoro, prevista dall’art. 27 della nuova disciplina non avrebbe modificato le regole interpretative già adottate dalla giurisprudenza nella vigenza della vecchia disciplina e relativa alla vietata intermediazione di manodopera. Del tutto errata sarebbe stata dunque la decisione del giudice regionale, laddove, pur non disconoscendo la sussistenza di un contratto irregolare di somministrazione di manodopera, avrebbe tuttavia affermato che gli obblighi del sostituto d’imposta (compreso il versamento delle ritenute a titolo d’imposta operate sui compensi corrisposti ai prestatori di lavoro), gravanti sull’interponente quale effettivo utilizzatore della manodopera, sarebbero subordinati alla costituzione del rapporto di lavoro con l’interponente medesimo, al cui riconoscimento giurisdizionale sarebbe tuttavia legittimato il solo lavoratore.
Il motivo è infondato.
Va rammentato che nella vigenza della disciplina introdotta con l’art. 1, ult. co., della I. 23 ottobre 1960, n. 1369, in tema di divieto d’intermediazione di manodopera, i lavoratori occupati erano considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’imprenditore appaltante o interponente, effettivo utilizzatore delle prestazioni. Su di esso pertanto si ritenevano incombenti gli obblighi di trattamento economico e normativo scaturenti dal rapporto di lavoro, nonché gli obblighi in materia di assicurazioni sociali e fiscale. Ne conseguiva che a suo carico gravavano anche gli obblighi del sostituto d’imposta, di cui all’art. 23 del d.p.r. n. 600 del 1973 per le ritenute d’acconto sulle retribuzioni (cfr. Cass., 31 maggio 2013, n, 13748). Il fondamento di queste conclusioni era costituito dalla considerazione che la nullità del contratto fra committente ed appaltatore (o intermediario) e la previsione normativa -secondo cui i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’imprenditore che ne abbia utilizzato effettivamente le prestazioni- implicava che solo sull’appaltante (o interponente) si riversasse ogni conseguenza del rapporto di lavoro, escludendosi la configurabilità di una concorrente responsabilità dell’appaltatore (o interposto) in virtù dell’apparenza del diritto e della titolarità del rapporto di lavoro, stante la rilevanza sociale degli interessi ad esso sottesi. È in quest’ottica che la giurisprudenza, tra le altre conseguenze, non ha mai ritenuto configurabile alcuna violazione del principio di doppia imposizione, poiché comunque l’effettivo datore di lavoro era tenuto all’adempimento degli obblighi propri del sostituto d’imposta (Cass., 15 febbraio 2013, n. 3795; 31 maggio 2013, n. 13748; 17 aprile 2014, n. 22020).
Il quadro però è mutato con la riforma introdotta con il d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, disciplina applicabile al caso di specie perché in vigore al momento del compimento dei fatti accertati.
Un primo orientamento assunto da questa Corte aveva affermato che pur dopo l’introduzione della nuova disciplina il contratto di somministrazione di manodopera irregolare, schermato da quello di appalto di servizi, incorre in nullità, che conforma anche la sorte del contratto tra lavoratore e somministratore, a nulla rilevando che lo stesso lavoratore, mediante ricorso giudiziale ex art. 414 cod. proc. civ., abbia agito per la costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore effettivo della prestazione, sul quale soltanto gravano pertanto gli obblighi in materia di trattamento economico e normativo, nonché fiscale, scaturenti dal detto rapporto (Cass., 28 luglio 2017, n. 18808). Si era evidenziato che il d.lgs. n. 276 del 2003 non aveva eliminato la figura della somministrazione irregolare di manodopera, già vietata dall’art. 1 della l. n. 1369 del 1960, in armonia con la permanenza di principi di rango costituzionale volti a collegare al rapporto di lavoro subordinato e soltanto ad esso una serie di posizioni di vantaggio (Cass., Sez. U, 26 ottobre 2006, n. 22910, riferibile alla novella del 2003). D’altronde il Legislatore non avrebbe potuto fare scelte diverse, considerato che nella legge delega n. 30 del 2003 era prevista la «…6) conferma del regime sanzionatorio civilistico e penalistico previsto per i casi di violazione della disciplina della mediazione privata nei rapporti di lavoro, prevedendo altresì specifiche sanzioni penali per le ipotesi di esercizio abusivo di intermediazione privata nonché un regime sanzionatorio più incisivo nel caso di sfruttamento del lavoro minorile».
Si affermava dunque che se i lavoratori intermediati sono considerati per legge dipendenti dell’imprenditore appaltante o interponente, a costui devono incombere tutti gli obblighi, compreso quello di provvedere alle ritenute d’acconto, dirette ad agevolare non solo la riscossione ma anche l’accertamento degli obblighi del percettore del reddito. Il sistema della ritenuta d’acconto, si affermava, non può che conformarsi al concreto atteggiarsi del rapporto di lavoro generatore dell’obbligo tributario e se non può esservi che un solo datore di lavoro, l’interponente, non può che esservi un solo sostituto d’imposta quale datore di lavoro (22020/2014 cit.). Diversamente opinando sarebbero rimasti fuori dal sistema proprio i casi d’intermediazione e d’interposizione vietate. D’altronde il sostituto d’imposta è debitore verso il Fisco, poiché è un obbligato con specifiche responsabilità e diritti, con riferimento alla ritenuta d’acconto, come peraltro evinci bile dagli artt. 64 del d.P.R. n. 600 cit. nonché dall’art. 35 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602.
Successivamente tuttavia la stessa giurisprudenza di legittimità ha opportunamente avvertito che nell’ipotesi di violazione del divieto d’intermediazione di manodopera occorre distinguere il regime antecedente all’abrogazione della l. n. 1369 del 1960, nel quale tra l’altro doveva escludersi l’interesse ad agire dell’Agenzia della Entrate a richiedere il pagamento delle ritenute d’acconto al datore di lavoro interponente, ove quello interposto avesse già provveduto al versamento, da quello successivo all’entrata in vigore del d.lgs. n. 276 del 2003, in forza del quale l’obbligo di ritenuta sui redditi di lavoro dipendente postula, da un lato, l’instaurazione del rapporto di lavoro su domanda del lavoratore, e dall’altro i mancati pagamenti del somministratore, con la conseguenza che l’omessa costituzione del rapporto di lavoro su iniziativa dei lavoratori, nei casi prescritti dall’art. 27 del detto decreto, impedisce comunque l’insorgenza in capo all’interponente dell’obbligo di operare le ritenute (Cass., 7 dicembre 2018, n. 31720; 19 aprile 2019, n. 11053; 10 dicembre 2019, n. 32185; 9 giugno 2020, n. 10966). Tanto è stato motivato sull’assunto che la configurabilità dell’obbligo di ritenuta, in rapporto alla posizione di sostituto d’imposta, implica l’instaurazione del rapporto di lavoro. Si è pertanto avvertito che «Poiché, tuttavia, nelle ipotesi di appalto non genuino, perché sia costituito il rapporto di lavoro alle dipendenze dell’interponente occorre l’iniziativa giudiziale del lavoratore, in base all’art. 29 del d.lgs. n. 276/03, che richiama sul punto il 2° comma del precedente art. 27, in mancanza di tale iniziativa nessun rapporto di lavoro s’instaura e, quindi, nessuna sostituzione si configura. Per conseguenza, nessun obbligo di ritenuta insorge in testa all’interponente» (cfr. Cass., 31720 del 2018 cit.).
Peraltro, come pure ha evidenziato il medesimo più recente orientamento, ancorché instaurati i rapporti di lavoro per effetto delle iniziative giudiziali, è comunque necessario accertare eventuali pagamenti operati dagli interposti, in base all’art. 27, 2° co., del d.lgs. n. 276/03, richiamato dall’art. 29, a norma del quale «Nelle ipotesi di cui al comma 1 tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata. Tutti gli atti compiuti dal somministratore per la costituzione o la gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti dal soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione». Tale orientamento interpretativo, che si è consolidato nel tempo, è condiviso da questo collegio, che così intende darne continuità. Si tratta peraltro di principi a cui il giudice regionale si è attenuto, così che la motivazione censurata dall’Agenzia è immune critiche.
Ne discende l’infondatezza del motivo e il suo rigetto.
È invece fondato il secondo motivo, con il quale la ricorrente si duole che con la decisione il giudice regionale abbia violato l’art. 5 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., per aver erroneamente riconosciuto la deducibilità dei costi connessi alla manodopera ai fini Irap.
Sul punto la Commissione regionale si è limitata ad affermare che «analoghe considerazioni [espresse in riferimento alle ritenute d’acconto a titolo d’imposta] valgono in materia di deducibilità del costo della manodopera ai fini IRAP dato che il relativo onere deve considerarsi come effettivamente sostenuto, salva, come già osservato, la possibilità del dipendente a sua esclusiva tutela di richiedere l’eventuale costituzione del rapporto di lavoro anche con il soggetto utilizzatore della prestazione».
L’argomentazione del giudice regionale non fa corretta applicazione dei principi enucleati sul tema, così come con riguardo all’Iva, da questa Corte.
Occorre qui premettere, a chiarimento, che le conclusioni raggiunte in tema di obblighi di versamento della ritenuta d’acconto sui compensi corrisposti al prestatore di lavoro, gravanti sul beneficiario effettivo della prestazione, l’appaltante, a condizione che il lavoratore abbia agito per la costituzione del rapporto giuridico, non vanno necessariamente replicate con riguardo alla deducibilità dei costi formalmente sostenuti dall’appaltante nei confronti dell’appaltatore, quando il contratto mascheri una irregolare somministrazione di manodopera, costituendo un contratto nullo, così che ai fini fiscali non possano riconoscersi i costi della manodopera solo apparentemente fornita dall’appaltatore, ma in realtà beneficiata direttamente dal fruitore effettivo, l’appaltante medesimo. Il discrimine tra le due ipotesi, oltre che nella ontologica distinzione delle fattispecie, sta nella considerazione che nel primo caso, al di là degli obblighi del sostituto d’imposta, il soggetto passivo dell’obbligazione tributaria resta il lavoratore; nella seconda ipotesi invece, trattandosi di applicare o meno la disciplina sulla deducibilità di costi, gli obblighi fiscali sono direttamente riconducibili al fittizio appaltante, che è l’effettivo datore del prestatore di lavoro, il che non è affatto indifferente ai fini delle regole dell’imposta in esame, ossia l’Irap, per la quale ai fini della determinazione dell’imponibile sono indeducibili i costi sostenuti dall’imprenditore per il personale dipendente dell’impresa (ex artt. 5, comma 1, e 5 bis, comma 1, del d.lgs. n. 446 del 1997). È altrettanto evidente come muti al contempo la posizione di interesse dell’Amministrazione tra l’una e l’altra fattispecie, atteso che nel determinare l’imponibile Irap gli interessi fiscali non possono essere
condizionati dalla scelta del lavoratore di attivare ex art. 414 cod. proc. civ. il riconoscimento giurisdizionale del rapporto di lavoro dipendente con l’appaltante.
La premessa chiarisce le diverse conclusioni cui questa Corte è pervenuta in tema di deducibilità -ai fini Iva- dei costi nelle ipotesi di somministrazione irregolare di manodopera, laddove si è affermato che nel caso di contratto d’appalto di servizi, che schermi la somministrazione irregolare di manodopera, e più precisamente con riferimento ai rapporti disciplinati dal d.lgs. n. 276 del 2003, va escluso il diritto alla detrazione dei costi dei lavoratori per invalidità del titolo giuridico dal quale scaturiscono, non essendo configurabile una prestazione dell’appaltatore e dunque un corrispettivo imponibile ai fini IVA (cfr. Cass., 28 luglio 2017, n. 18808; 31720/2018 cit.). Ciò va replicato ai fini Irap.
Sulla insussistenza di efficacia condizionante dell’azione promossa dal lavoratore ex art. 414 cod. proc. civ. si è in particolare avvertito che con il ricorso il prestatore di lavoro mira ad ottenere la conversione del contratto di lavoro con chi si è giovato delle sue prestazioni. Sennonché tale conversione postula la nullità dei contratti che ne sono oggetto, e dunque anche quello tra interponente e interposto, con la conseguenza che i costi apparentemente sostenuti quale corrispettivo di una prestazione di servizio resa fittiziamente non possono rilevare ai fini Iva. Ebbene, tale nullità può essere fatta valere da chi ne abbia interesse, compresa dunque l’Amministrazione finanziaria. Si è infatti chiarito che «d’altronde l’azione di accertamento del fisco, terzo rispetto ai rapporti scaturenti dall’appalto stipulato in violazione di quanto previsto dall’art. 29, 10 co., del d.lgs. n. 276/03, non può dipendere dalla scelta, individuale e imponderabile, del lavoratore di promuovere, o no, l’azione per la costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze del datore di lavoro interponente, almeno nei casi in cui l’instaurazione del rapporto e dei correlativi obblighi non si atteggi a presupposto impositivo». Da ciò discende che non sia configurabile (per nullità) una prestazione dell’appaltatore che abbia rilevanza ai fini iva.
Alle medesime conclusioni deve pervenirsi anche con riguardo alla deducibilità dei costi ai fini Irap. Anche per tale imposta non può assumere rilievo l’azione giudiziale proponibile dal lavoratore per la costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore effettivo, in quanto la conversione del rapporto, di per sé, implica la nullità dei contratti che ne sono oggetto. Non va riconosciuta pertanto, ai fini Irap, la deducibilità di costi sostenuti solo formalmente da un soggetto appaltante di prestazioni di servizi, che in realtà è il datore di lavoro effettivo.
Tutto ciò ovviamente implica che sia stata dimostrata la non genuinità dell’appalto. Infatti solo qualora l’appalto non sia genuino i componenti in questione non sarebbero deducibili. Quello che deve rilevare, a prescindere dall’iniziativa dei lavoratori volta alla conversione dei rapporti, è la «mancanza di certezza, derivante dalla nullità del titolo giuridico da cui scaturisce la relativa obbligazione patrimoniale….Certezza, predicabile anche in tema di irap, giusta il richiamo dell’art. 5 del d.lgs. n. 446/97 all’art. 2425 c.c. e, per conseguenza, ai requisiti di correttezza e veridicità del bilancio che attengono al risultato economico» (cfr. ancora 31720 del 2018).
Nel caso di specie il giudice regionale, richiamando in materia di Irap i principi correttamente applicati agli obblighi di trattenuta e versamento delle ritenute d’acconto, proprie del sostituto d’imposta, ha fatto erronea applicazione della disciplina invocata dall’Agenzia delle entrate in tema di deducibilità dei costi sostenuti (solo formalmente) quale corrispettivo della prestazione di servizi offerta dall’appaltatore-interposto.
Il secondo motivo trova dunque accoglimento e la pronuncia sul punto va cassata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Friuli – Venezia Giulia, che in diversa composizione, oltre che liquidare le spese del giudizio di legittimità, dovrà riesaminare la controversia nei limiti delle ragioni del motivo accolto, tenendo conto del seguente principio di diritto: «In tema di divieto d’intermediazione di manodopera, in caso di somministrazione irregolare, schermata da un contratto di appalto di servizi, va escluso il diritto alla detrazione dei costi dei lavoratori per invalidità del titolo giuridico dal quale scaturiscono, per non essere configurabile prestazione dell’appaltatore imponibile ai fini Irap, né può assumere rilevanza l’azione giudiziale del lavoratore per la costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore effettivo, in quanto la conversione del rapporto, di per se, implica la nullità dei contratti che ne sono oggetto».
P.Q.M.
Accoglie il secondo motivo, rigetta il primo, cassa la decisione nei limiti di quanto accolto e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Friuli – Venezia Giulia, cui demanda, in diversa composizione, anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
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