CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 08 novembre 2022, n. 32820
Lavoro – Contratti di apprendistato specializzante – Nullità – Rapporto di lavoro subordinato – Sussistenza – Differenze retributive
Fatti di causa
1. Con sentenza depositata il 15.12.2016, il Tribunale di Firenze accoglieva le domande che G.G. aveva proposto contro S.A., dichiarando la nullità dei contratti di apprendistato specializzante intercorsi tra le parti e la sussistenza fra le medesime di un rapporto di lavoro subordinato dal 14.2.2008 all’1.2.2012, e condannando la S. al pagamento, in favore dell’attrice, della somma di € 16.462,04, a titolo di differenze retributive, oltre alle spese di lite e di C.T.U.
2. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Firenze respingeva l’appello che la S. aveva interposto contro la pronuncia di prime cure, condannandola al pagamento delle ulteriori spese processuali e dichiarando nei suoi confronti sussistenti i presupposti di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. n. 115/2002.
3. Avverso tale decisione S.A. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
4. Ha resistito l’intimata con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo articolato motivo, la ricorrente denuncia “Violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. (in relazione all’art. 360 co. 1 n. 4 c.p.c.), nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727, 2729 c.c. (in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c.) ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (in relazione all’art. 360 co. 1 n. 5 c.p.c.)”.
2. Col secondo motivo, deduce “Violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. (in relazione all’art. 360 co. 1 n. 4 c.p.c.)”.
3. Osserva la Corte che inammissibile è la parte del primo motivo (pagg. 6-9 del ricorso), nella quale si asserisce che: “Con una scarna motivazione il Collegio è andato oltre i motivi di appello e, in particolare, oltre la domanda di controparte che, in primo grado, chiedeva che fosse accertato che la Sig.ra G. aveva prestato lavoro a favore della Sig.ra S. dal 14.02.08 al 01.02.12 senza richiedere, però, l’accertamento dell’esistenza di un unico centro di interessi all’interno dell’immobile sito in S. riconducibile esclusivamente all’odierna ricorrente”. A detta dell’impugnante, “il Collegio concludeva per l’unicità del rapporto di lavoro alle dipendenze della Sig.ra S., compiendo, evidentemente, un accertamento ulteriore, ovvero rilevando come le diverse attività svolte nell’immobile di via dell’A. n. 38/b, nonostante formalmente fossero riconducibile a distinte persone fisiche/giuridiche in realtà, facessero capo, tutte, alla Sig.ra S. oggi ricorrente. 18.
Accertamento, però, non richiesto dalla Sig.ra G. (proprio per tale ragione in sede di appello la Sig.ra S. poneva attenzione sulla documentazione in atti e sulla sua errata valutazione). 19. Ebbene, il Collegio, così pronunciando, andava oltre i limiti della domanda violando il divieto di ultrapetizione di cui all’art. 112 c.p.c.”.
4. Orbene risulta di palmare evidenza ex actis che la deduzione da parte dell’istante dell’unicità di un continuativo e comune rapporto di lavoro subordinato, nel periodo dal 14.2.2008 all’1.2.2012, che vedeva la stessa quale dipendente e la persona fisica di S.A., quale datrice di lavoro, in quanto titolare dello S.d.A.S. a lei facente capo, fosse il primordiale thema decidendum et pro bandum del giudizio, in base all’impostazione originaria delle domande attoree.
La G., invero, aveva richiesto con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado anzitutto di: “-accertare e dichiarare la illegittimità e/o nullità del contratto speciale di apprendistato intercorso tra la sig.ra G. G. e lo S.A.d.A.S. dal 14/2/2008 al 13/2/2009 e del successivo contratto di apprendistato dal 13/11/2009 al 12/11/2010 con consequenziale riconoscimento della natura ordinaria ed a tempo indeterminato del rapporto predetto dal 14/2/2008 all’1/2/2012”, e, quindi, nota questa Corte, senza soluzioni di continuo; nonché: “accertare e dichiarare che la sig.ra G. ha prestato la propria prestazione lavorativa a favore dello S.A.d.A. S. dal 14/2/2008 all’1/2/2012”, e perciò con, e alle dipendenze solo, di quest’ultima persona fisica e non di altri ipotetici soggetti.
5. Ebbene, risulta che i giudici di merito (sia di primo grado che di secondo grado) si siano rigorosamente attenuti a tali prospettazioni e richieste, avendo anche la Corte distrettuale ribadito che: “… si può ritenere dimostrato che la G. abbia lavorato, durante tutto il periodo dedotto, senza soluzione di continuità facendo sempre riferimento alla sig.ra S. odierna appellante” (così a pag. 4 dell’impugnata sentenza).
6. E’ piuttosto l’attuale ricorrente che, in base ad una propria ricostruzione dei fatti di causa (cfr. in particolare pagg. 7-8 del ricorso), vorrebbe tentare di spostare ora il dibattito processuale sul punto “dell’esistenza di un unico centro di interessi all’interno dell’immobile sito in S. riconducibile esclusivamente all’odierna ricorrente”, introducendo così, solo in questa sede di legittimità, e quindi inammissibilmente, una questione (in fatto e in diritto) del tutto nuova e mai discussa nel processo.
7. Senz’altro inammissibile, poi, per difetto della specificità richiesta dall’art. 366, comma primo, n. 4), c.p.c., è il secondo profilo in cui si articola la prima censura (cfr. pagg. 9-13 del ricorso), laddove si asserisce che la Corte fiorentina avrebbe “indubbiamente violato, anche il principio dell’onere della prova”, in quanto “affinché sussista un rapporto di lavoro subordinato deve essere fornita rigorosa prova, a carico del lavoratore, dei cosiddetti indici di subordinazione tra i quali, il più importante, è l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro”; una prova che, a detta della ricorrente, “nel caso de quo, come specificamente censurato in sede di appello, non veniva fornita dalla lavoratrice”.
8. Invero, in parte qua il primo motivo non si confronta minimamente con la motivazione dell’impugnata sentenza e non è comunque assolutamente pertinente rispetto a quanto considerato dalla Corte territoriale.
In realtà la Corte di merito, nell’esaminare le censure all’epoca proposte dalla S. quale appellante, aveva premesso che: “Le questioni controverse oggi all’esame di questa Corte d’Appello riguardano, in sostanza, la sussistenza di un unico rapporto di lavoro imputabile all’odierna appellante, e la connessa questione della validità dei contratti di apprendistato. Non sono state oggetto di appello le altre questioni controverse in primo grado, come quelle relative all’orario di lavoro” (cfr. pagg. 2-3 della sua decisione).
E per quanto già osservato la chiara causa petendi delle domande dell’attrice ab origine comprendeva senz’altro il superamento del dato che per determinati periodi lavorativi le buste paga fossero state redatte con l’indicazione di soggetti diversi dalla S. quale persona fisica e nella veste di apparenti datori di lavoro.
La Corte distrettuale, perciò, aveva in tali termini individuato ciò che era ancora controverso tra le parti in grado d’appello, dopo aver dato conto di quali fossero i motivi di gravame formulati dall’allora appellante S. (cfr. sempre pag. 2 della pronuncia oggetto di ricorso); né l’attuale ricorrente qui lamenta un vizio di omessa pronuncia nella stessa sentenza per non essersi espressa su qualcuno dei suoi motivi d’appello o su parte di qualcuno di essi.
Nota, del resto, questo Collegio che nel caso che ci occupa il tema della dimostrazione della subordinazione, come tale, era ab origine recessivo in giudizio nella misura in cui buona parte del complessivo periodo dedotto in causa dall’attrice era già coperta dai contratti di apprendistato o comunque direttamente intercorsi anche formalmente tra lei e la S. e perciò certamente di natura subordinata; e, siccome non era controversa la medesima natura per i rapporti apparentemente intercorsi con soggetti differenti dalla S., restavano in ipotesi al di fuori di tale inquadramento solo i brevi intervalli talvolta intercorsi tra un rapporto documentato e l’altro. Ma, come si è già visto, la Corte distrettuale ha confermato quanto sostenuto dall’attrice e già dal primo Giudice, e, cioè, “che la G. abbia lavorato, durante tutto il periodo dedotto, senza soluzione di continuità facendo sempre riferimento alla sig.ra S. odierna appellante”. In tal senso, lo stesso giudice di secondo grado ha confermato che l’istante avesse assolto a tale onere probatorio su di lei incombente.
9. Inammissibile, infine, è il primo motivo laddove fa riferimento anche al mezzo di cui all’art. 360, comma primo, n. 5), c.p.c., visto che neppure nello sviluppo della censura è specificato quale sarebbe il fatto decisivo per il giudizio di cui la Corte d’appello avrebbe omesso l’esame e, men che meno, quando e come sarebbe stato oggetto di discussione tra le parti.
10. Inammissibile è ancora il secondo motivo, a mezzo del quale in sintesi si addebita alla Corte territoriale di essersi avvalsa di testimonianze de relato ex parte actoris e “per sentito dire”.
11. Premette a riguardo il Collegio che, per consolidato indirizzo di questa Corte, in tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 116 c.p.c. (norma che sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale), ricorre solo quando il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta a diverso regime (così, ex plurimis, Cass. civ., 31.8.2020, n. 18092).
Inoltre, le Sezioni Unite di questa Corte, di recente, hanno precisato che, in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5), c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (in tal senso Cass. civ., sez. un., 30.9.2020, n. 20867).
12. Nella specie, la ricorrente, lamentando esclusivamente la violazione dell’art. 116 c.p.c., assume che la Corte d’appello avrebbe male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova testimoniale, non avendo considerato nulle le testimonianze assunte, perché, a suo dire, da configurare come de relato actoris.
Ma l’inammissibilità del secondo motivo discende dal piano rilievo che la ricorrente tanto deduce attribuendo appunto alle testimonianze stesse tale configurazione, quando dalla sentenza impugnata questa configurazione non risulta assolutamente.
Più in particolare, i testimoni de relato actoris sono quelli che depongono su fatti e circostanze di cui sono stati informati dal soggetto che ha proposto il giudizio (cfr., ad es., Cass. civ., sez. I, 15.1.2015, n. 569).
Dal testo della decisione d’appello, però, non solo non emerge affatto che la Corte territoriale abbia espressamente qualificato le deposizioni di cui si è avvalsa come rese dai testi su circostanze apprese dall’attrice, ma neppure è dato arguire che dette deposizioni, in base al loro contenuto, possano essere così qualificate in relazione alle circostanze da loro riportate e considerate dal giudice d’appello.
13. Più in dettaglio, la Corte di merito si è riferita a tre testimonianze: quella della teste K.B., indicata dalla stessa S.; quella di G.A., padre dell’attrice; e quella di P.I., amica della stessa.
Orbene, circa la testimonianza della B., l’impugnante attualmente sostiene che la circostanza da quella teste riferita, e cioè “che nel 2009 e anche nel 2012 la responsabile del sindacato AMPI era la Sig.ra S. oggi appellante e quindi non la sua omonima nata nel 1968”, era “non contestata e precisata dalla stessa appellante nell’atto introduttivo allorquando dettagliatamente, indicava le attività svolte all’interno dell’immobile sito in S. e la persona fisica a cui, ogni attività, era riconducibile” e che “Nessun rilievo, quindi, aveva la dichiarazione della teste ai fini della decisione per cui è causa”.
Osserva il Collegio che, nell’ambito della motivazione resa dalla Corte distrettuale, il richiamato passo delle dichiarazioni della B., teste indicata dalla medesima S., all’evidenza rivestiva rilievo al fine precipuo di verificare chi fosse l’effettiva datrice di lavoro dell’istante, visto che, di là dalle precisazioni ora sostenute dall’attuale ricorrente per cassazione, la Corte distrettuale aveva dato conto che in primo grado la stessa aveva sostenuto che: “la G. aveva lavorato alle sue dipendenze solo dal febbraio 2008 all’aprile 2009, dal novembre 2009 a giugno 2010 ed infine da febbraio 2011 a febbraio 2012. Negli altri periodi ella aveva lavorato per Patronato INAPI e poi per il Patronato FENALCA i quali erano gestiti da una omonima della odierna appellante(nata nel 1952), ossia A.S. nata nel 1968” (cfr. pag. 2 dell’impugnata sentenza).
Comunque non si è in presenza della considerazione di una testimonianza de relato, per tale ritenuta da parte della Corte d’appello, o così qualificabile.
14. Quanto, poi, alla deposizione del padre dell’attrice, G.A., la Corte aveva scritto che lo stesso <ha confermato che sua figlia aveva lavorato per tutto il periodo in questione anche se formalmente “è stata costretta a licenziarsi per poi essere riassunta” e che “prendeva ordini dalla sig.ra qui presente” (ossia la parte appellante), “ho sempre visto la signora qui presente, non ho ma visto l’omonima”>. In parte qua, perciò, le dichiarazioni del G. non risultano essere de relato ex parte, ma rispecchiano circostanze cadute sotto la sua diretta percezione quale teste oculare. Del resto, i passi della medesima deposizione che richiama la ricorrente per cassazione (cfr. par. 46 a pag. 14 del ricorso) sono appunto differenti da quelli considerati dalla Corte distrettuale, e perciò, quand’anche quelle ulteriori dichiarazioni riflettessero integralmente fatti che il genitore della G. aveva appreso soltanto dalla figlia, ciò è del tutto ininfluente.
15. Infine, circa la deposizione di I.P., che la Corte di merito aveva reputato “nello stesso senso”, è scritto in sentenza che quella teste aveva <riferito che quest’ultima aveva sempre lavorato per la sig.ra S.: “so che c’erano tre uffici, tutti gestiti dalla sig.ra S., con due dipendenti oltre la ricorrente”, “la ricorrente si è dimessa durante il contratto di apprendistato e poi è stata riassunta dopo un certo periodo con un diverso contratto. La ricorrente però continuava ad andare allo studio della sig.ra S.” (con la precisazione di non poter dire se andasse nella stanza della sig.ra S., in quella del patronato o in quella del sindacato)>.
Dunque, analogamente a quello che riguarda la testimonianza del padre dell’attrice nelle parti richiamate dalla Corte d’appello, anche le su riportate dichiarazioni della P. non risultano essere de relato actoris, ed infatti anche a proposito di tale deposizione la ricorrente richiama punti specifici del relativo verbale di udienza, che riguardano un singolo capitolo di prova, peraltro non specificato nel suo tenore (riferisce, infatti, l’attuale impugnante: “Sul cap. 3 so che faceva tutte queste cose solo perché me lo ha riferito la ricorrente”; “Sul cap. 3 non so dire, io non ero presente”).
16. La ricorrente, pertanto, di nuovo soccombente (in questa sede in rito), dev’essere condannata al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15% e I.V.A e C.P.A. come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.