CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 dicembre 2021, n. 39135
Tributi – Cessione d’azienda – Trasferimento del credito IRPEG
Rilevato che
L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Regionale della Sicilia il 18 settembre 2019 n. 5354/01/2019, la quale, in controversia avente ad oggetto l’impugnazione di diniego di rimborso per l’IRPEG relativa all’anno 1986, in dipendenza di eccedenza versata dalla “C.R.A.P.P.M.”, incorporata dalla ” C.R.A.P.P.M.” (poi “P. Soc. Coop. a r.L”), la cui azienda era stata ceduta alla “U. S.p.A.” con rogito notarile del 2 dicembre 1992, ha rigettato l’appello proposto dalla medesima nei confronti della “U. S.p.A.” avverso la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Provinciale di Agrigento il 21 ottobre 2013 n. 793/04/2017, con condanna alla rifusione delle spese giudiziali. La Commissione Tributaria Regionale ha confermato la decisione di prime cure, sul presupposto che la cessione di azienda (ivi compreso il credito rimborsabile) non era soggetta agli adempimenti ex artt. 43 del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 602 e 1 del D.M. 30 settembre 1997 n. 384, che, comunque, erano stati osservati nell’anno 2013. La “U. S.p.A.” si è costituita con controricorso. Ritenuta la sussistenza delle condizioni per definire il ricorso ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ., la proposta formulata dal relatore è stata notificata ai difensori delle parti con il decreto di fissazione dell’adunanza della Corte. La controricorrente ha depositato memoria.
Considerato che
1. Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 19 e 21 D.L.vo 31 dicembre 1992 n. 546, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., per aver disatteso l’eccezione di inammissibilità del ricorso introduttivo per omessa impugnazione dell’espresso diniego del rimborso nell’anno 1996.
2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., per aver invertito il principio dell’onere probatorio con riguardo alla sussistenza del credito rimborsabile.
Ritenuto che
1. Il primo motivo è infondato.
1.1 Come si è detto, sin dal giudizio di primo grado, l’amministrazione finanziaria ha dedotto l’inammissibilità del ricorso originario della contribuente, che è stato proposto nell’anno 2012, per l’omessa impugnazione nel termine di decadenza ex art. 21 del D.L.vo 31 dicembre 1992 n. 546 del diniego di rimborso, che era stato pronunciato nell’anno 1996. Secondo la sentenza impugnata, la contribuente non aveva proposto un’istanza di rimborso del credito IRPEG, ma aveva soltanto manifestato la propria disponibilità a ricevere parte della somma pretesa in restituzione mediante l’assegnazione di titoli di Stato; inoltre, la nota trasmessa dall’Ufficio Distrettuale delle Imposte Dirette di Licata (AG) il 21 dicembre 1996, prot. n. 41430, non costituiva atto impugnabile ex art. 19, comma 1, lett. g, del D.L.vo 31 dicembre 1992 n. 546 per la carenza di notifica alla contribuente e per l’omissione di indicazioni sulle modalità di proposizione del ricorso giudiziale e sulla commissione tributaria competente a decidere sul ricorso giudiziale (secondo la prescrizione dell’art. 19, comma 2, del D.L.vo 31 dicembre 1992 n. 546).
1.2 II giudice di appello ha accertato in fatto che nella nota trasmessa dall’Ufficio Distrettuale delle Imposte Dirette di Licata (AG) il 21 dicembre 1996 prot. n. 41430 non era contenuta l’indicazione dell’autorità giudiziaria a cui ricorrere né del relativo termine. Peraltro, tale accertamento non risulta essere stato censurato in questa sede.
In proposito, l’art. 19, comma 2, del D.L.vo 31 dicembre 1992 n. 542 (con disposizione cui ora si sovrappone anche l’art, 7, comma 2, della Legge 27 luglio 2000 n. 212) prevede che negli atti impugnabili espressi siano indicati il termine per proporre ricorso, la commissione tributaria competente e le forme di proposizione previste dall’art. 20 del D.L.vo 31 dicembre 1992 n. 542.
La giurisprudenza di questa Corte ha escluso che la mancata indicazione di tali elementi determini invalidità dell’atto, essendo la relativa previsione normativa sprovvista di sanzione in caso di omissione (tra le tante: Cass., Sez. 5^, 29 settembre 2003, n. 14482; Cass., Sez. 5^, 30 luglio 2008, n. 20634; Cass., Sez. 5^, 18 maggio 2011, n. 10987; Cass., Sez. 6^-5, 8 novembre 2013, n. 25227; Cass., Sez. 5^, 28 dicembre 2016, nn. 27141, 27142 e 27147; Cass., Sez. 5^, 18 maggio 2018, nn. 12238 e 12239; Cass., Sez. 5^, 29 maggio 2019, n. 14619; Cass., Sez. 5^, 20 novembre 2019, n. 30135; Cass., Sez. 5^, 27 febbraio 2020, n. 5369), tuttavia, secondo gran parte della dottrina, ove la mancanza o l’erroneità delle indicazioni suddette abbia indotto il contribuente a presentare il ricorso tardivamente, dovrebbe intervenire una rimessione in termini per errore scusabile, o in ogni caso il ricorso dovrebbe considerarsi tempestivo (Cass., Sez. 5A, 30 luglio 2008, n. 20634).
Un simile risultato ermeneutico è condivisibile anche perché trova conferma nei principi generali affermati dalla sentenza depositata dalla Corte Costituzionale l’ 1 aprile 1998 n. 86, nella quale, in materia di opposizione a ordinanza ingiunzione relativa alla irrogazione di sanzioni amministrative, si sostiene che «non possono verificarsi preclusioni a proporre opposizione, non solo quando manchi nell’ordinanza – ingiunzione l’indicazione del termine entro cui è possibile farlo, ma, a maggior ragione, nel caso in cui sia indicato erroneamente un termine più lungo di quello fissato dalla legge, vanificandosi, altrimenti, oltre alla portata precettiva della L n. 241 del 1990, art. 3, comma 4, anche l’esigenza di effettiva tutela del cittadino nei confronti degli atti della P.A.». Per cui, la legge non commina espressamente alcuna nullità per l’omissione delle predette indicazioni, che può, tutt’al più, determinare la mancata decorrenza del termine per impugnare.
1.3 Deve, pertanto, escludersi che possa ritenersi l’intempestività di un ricorso proposto avverso un atto che non rechi le indicazioni (prescritte dall’art. 19, comma 2, del D.L.vo 31 dicembre 1992 n. 546, nonché dall’art. 7, comma 2, della Legge 27 luglio 2000 n. 212) concernenti la commissione tributaria provinciale alla quale proporre il ricorso, nonché i termini e le modalità per ricorrere. Dai suddetti arresti di questa Corte, pertanto, con riferimento all’omessa indicazione, negli atti impositivi, delle informazioni relative al termine entro cui il destinatario può proporre impugnazione e all’autorità giurisdizionale dinanzi alla quale il ricorso può essere proposto, deriva la necessità di procedere ad una necessaria distinzione tra il piano, meramente formale, degli effetti sulla validità dell’atto, da quello, più propriamente processuale, del termine entro cui il ricorso può essere proposto, ai sensi dell’art. 21 del D.L.vo 31 dicembre 1992 n. 546; invero, se, da un lato, non può ritenersi che l’atto impositivo, privo delle suddette informazioni, sia di per sé invalido, d’altro lato, l’omesso inserimento delle medesime nel contesto dell’atto assume rilevanza ai fini della valutazione della tempestività o meno del ricorso: è, quindi, necessario che la parte che ha ricevuto la notifica dell’atto impositivo provveda a proporre la relativa impugnazione avverso il medesimo, senza, tuttavia, che, da un lato, possa prospettare vizi che attengono all’omesso inserimento delle informazioni e, dall’altro, che possa prospettarsi una questione di tardività del ricorso (in termini: Cass., Sez. 5^, 20 novembre 2019, n. 30135).
1.4 Tanto premesso in punto di diritto, il collegio ritiene che la nota trasmessa dall’Ufficio Distrettuale delle Imposte Dirette di Licata (AG) il 21 dicembre 1996, prot. n. 41430 (il cui contenuto è stato trascritto nel corpo del ricorso, in ossequio al canone dell’autosufficienza), non possa considerarsi atto impugnabile ex art. 19, comma 1, lett. g, del D.L.vo 31 dicembre 1992 n. 546, non essendo qualificabile nei termini di «rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi». Difatti, la richiesta respinta della “U. S.p.A.” non aveva per oggetto il rimborso del credito IRPEG per l’anno d’imposta 1986, di cui essa aveva acquistato la titolarità per effetto della cessione di azienda del 2 dicembre 1992, anche in considerazione della reiterata proposizione della relativa istanza nelle dichiarazioni annuali dei redditi ex art. 1 del D.M. 26 agosto 1994, ma l’opzione per una diversa modalità di estinzione del medesimo credito (assegnazione di titoli di Stato) ai sensi dell’art. 5, commi 1 e 1 -bis, del D.L. 23 maggio 1994 n. 307, convertito, con modificazioni, dalla Legge 22 luglio 1994 n. 457. Per cui, il rifiuto di soddisfare il credito con la modalità alternativa dell’assegnazione dei titoli di Stato non poteva equivalere ad un diniego (ancorché tacito) di rimborso Aggiungasi che la circostanza dell’omessa comunicazione alla “U. S.p.A.” della nota trasmessa dall’Ufficio Distrettuale delle Imposte Dirette di Licata (AG) il 21 dicembre 1996, prot. n. 41430, pur essendo di per sé ininfluente per verificarne l’impugnabilità in relazione alla sua efficacia, costituisce, comunque, elemento significativo per disattendere l’eccezione di tardiva proposizione del ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale di Agrigento.
1.5 Nella specie, il giudice di appello ha fatto corretta applicazione di tali principi, avendo accertato che il provvedimento adottato dall’amministrazione finanziaria – oltre a non essere stato notificato alla contribuente, che, pertanto, non poteva considerarsi decaduta dall’impugnazione per decorso del termine ex art. 21, comma 1, del D.L.vo 31 dicembre 1992 n. 546, anche in considerazione dell’omessa indicazione del termine di impugnazione e del giudice tributario competente a decidere sull’impugnazione – si era limitato a negare l’opzione di soddisfazione del credito d’imposta mediante l’assegnazione di titoli di Stato, ma non aveva rigettato (neanche per implicito) l’istanza di rimborso (la pronuncia, dunque, atteneva al quid e non all’an debeatur). In tal senso, si può condividere la motivazione della sentenza impugnata, laddove afferma che: «Invero, la nota prot. 4130 non integra un rifiuto di istanze di rimborso, ma segue richieste di estinzione di crediti (risultanti da altrettante dichiarazioni annuali) anziché in denaro contante mediante assegnazione di titoli di Stato. Peraltro, le istanze di rimborso erano già contenute nelle dichiarazioni annuali ai sensi dell’art. 1 DM 26.8.1994. I commi 1 e Ibis dell’art. 5 D.L. 307/94 prevedevano la possibilità di chiedere una diversa modalità di estinzione del credito di cui era già stato chiesto il rimborso nella dichiarazione annuale. Lungi da/l’integra re un’istanza di rimborso il cui eventuale diniego diveniva impugnabile ex art. 19 d.lgs. 546/1992, nel caso di specie veniva in questione una comunicazione a mezzo della quale il contribuente affermava di essere disponibile a ricevere gran parte delle somme richieste a rimborso tramite l’assegnazione di titoli di Stato. Inoltre, la comunicazione che porta numero di protocollo il 4130 non indica le modalità del ricorso».
2. Anche il secondo motivo è infondato.
2.1 La violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ. si configura nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, abbia ritenuto erroneamente che la parte onerata avesse assolto tale onere, poiché in questo caso vi è un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. (tra le tante: Cass., Sez. 3^, 29 maggio 2018, n. 13395; Cass., Sez. Lav., 19 agosto 2020, n. 17313; Cass., Sez. 5^, 22 luglio 2021, n. 20950; Cass., Sez. 1^, 29 luglio 2021, n. 21831).
2.2 Nella specie, l’amministrazione finanziaria ha dedotto in sede di legittimità che la contribuente non avrebbe prodotto la copia della documentazione inerente i versamenti in eccedenza, per cui la censura si risolve in una rivalutazione dell’accertamento fatto dal giudice di merito. Peraltro, la censura non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale si era pronunciata sull’efficacia del subentro della contribuente nella titolarità del credito d’imposta e non sulla prova di tale titolarità.
2.3 Ad ogni modo, decidendo su uno specifico motivo di gravame, il giudice di appello ha accertato, sulla scorta delle risultanze probatorie, che la “U. S.p.A.” aveva acquistato la titolarità del credito d’imposta dalla “P. Soc. Coop. a r.f.” per effetto della cessione di azienda (ex art. 2559 cod. civ.) del 2 dicembre 1992, che non era soggetta agli oneri previsti per la cessione di crediti verso lo Stato dagli artt. 69 e 70 del R.D. 18 novembre 1923 n. 2440 e che era stata pubblicata nella G.U. della Repubblica Italiana ex art. 26 del D.L.vo 14 dicembre 1992 n. 481 (poi trasfuso nell’art. 58, comma 4, del D.L.vo 1 settembre 1993 n. 385) per gli effetti dell’art. 1264 cod. civ.
Il che è in sintonia con la più recente giurisprudenza di questa Corte (vedasi l’ordinanza resa nel procedimento iscritto al n. 7349/2020 R.G., in corso di pubblicazione), secondo la quale, avendo riguardo alla cessione isolata di crediti di qualsiasi natura nei confronti dello Stato, l’art. 69 del R.D. 18 novembre 1923 n. 2440 è derogato, con particolare riguardo alle cessioni interbancarie di attività e passività, dall’art. 58, comma 4, del D.L.vo 1 settembre 1993 n. 385 (espressamente richiamato dall’art. 90, comma 2, ultima parte, del D.L.vo 1 settembre 1993 n. 385 per le operazioni intervenute durante la liquidazione coatta amministrativa), secondo il quale: «Nei confronti dei debitori ceduti gii adempimenti pubblicitari previsti dal comma 2 producono gli effetti indicati dall’articolo 1264 del codice civile». Pertanto, considerando la “specialità” della norma in relazione alla qualifica professionale dei soggetti coinvolti, alla complessità tecnica delle vicende circolatorie in ordine ad una massa di rapporti attivi e passivi, alla vigilanza della Banca d’Italia sulle varie fasi delle operazioni, si può ritenere che le formalità previste dall’art. 58, comma 2, del D.L.vo 1 settembre 1993 n. 385 (iscrizione nel registro delle imprese e pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana) debbano valere – ai fini dell’opponibilità ai terzi – anche per i crediti d’imposta verso l’amministrazione finanziaria. Ne consegue che gli adempimenti prescritti l’art. 69, comma 1, del R.D. 18 novembre 1923 n. 2440 (notifica al debitore ceduto o accettazione del debitore ceduto) non possono venire in rilievo per ammettere o escludere il riconoscimento del rimborso al cessionario del credito d’imposta, che sia stato oggetto di trasferimento a titolo particolare tra banche nel più ampio contesto di cessioni “in blocco” di attività e passività ai sensi dell’art. 58, comma 4, del D.L.vo 1 settembre 1993 n. 385.
3. Valutandosi la infondatezza dei motivi dedotti, dunque, il ricorso deve essere rigettato.
4. Le spese giudiziali seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura fissata in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente alla rifusione delle spese giudiziali in favore della controricorrente, che liquida nella misura di € 200,00 per esborsi e di € 5.600,00 per compensi, oltre a spese forfettarie nella misura del 15% sui compensi e ad altri accessori di legge.
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