CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 dicembre 2021, n. 39149

Cessione di ramo d’azienda – Trasferimento rapporti di lavoro in capo alla cessionaria – Dichiarazione giudiziale di nullità della cessione – Atto di transazione con la cessionaria – Risoluzione del rapporto di lavoro – Efficacia con la cedente – Esclusione – Obbligo di pagamento delle differenze retributive

Rilevato che

M. Z., e gli altri quattro litisconsorti in epigrafe, impugnavano la sentenza 23.10.14 del Tribunale di Roma che, accogliendo l’opposizione della T.I.  s.p.a., aveva revocato i decreti ingiuntivi che la obbligavano a pagare ai lavoratori le somme ivi indicate per retribuzioni non corrisposte tra l’ottobre 2012 ed il maggio 2013 (Z.) e dall’aprile al settembre 2013 (restanti lavoratori), a seguito della dichiarazione giudiziale di nullità della cessione del ramo d’azienda alla I.T.S. s.p.a. (poi S. s.p.a.).

Il Tribunale, ritenne pacifico che la T. non avesse ripristinato i rapporti di lavoro, proseguiti con la cessionaria, né corrisposto le retribuzioni, e tuttavia, in accoglimento dell’eccezione preliminare sollevata dalla T., dichiarò l’inammissibilità della domanda per intervenuta transazione della lite quanto allo Z., avendo questi accettato una risoluzione consensuale del rapporto di lavoro con la cessionaria in data 14.3.08, con ritenuta conseguente estinzione dell’unico rapporto con la cedente T. Italia s.p.a. e solo di fatto proseguito con la cessionaria.

Con sentenza depositata il 26.3.18, la Corte d’appello di Roma accertava e riteneva che la transazione in questione (inerente la risoluzione del rapporto di lavoro con la S. s.p.a.) non riguardasse affatto la T., e che quest’ultima era dunque tenuta al risarcimento del danno nei confronti dello Z. e degli altri litisconsorti, per effetto dell’accertata nullità del trasferimento di ramo d’azienda.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la società T., affidato a duplice motivo, cui resiste con controricorso il solo Z., poi illustrato con memoria.

Considerato che

1.-La società T. denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art.1406 c.c. per avere la sentenza impugnata ritenuto che gli atti estintivi posti in essere tra lo Z. ed il cessionario (ora S. s.p.a.) erano irrilevanti per il presente giudizio, essendo il rapporto giuridico intercorso tra il lavoratore ed il cessionario assolutamente distinto rispetto a quello con T. s.p.a.

Lamenta che il rapporto di lavoro col cessionario non era invece distinto rispetto a quello svoltosi con T., essendo il primo semplicemente la prosecuzione di quello svoltosi con la seconda per effetto della cessione, anche per effetto della nullità del rapporto lavorativo ceduto, senza il consenso del Morelli ex art. 1406 c.c. Inoltre poiché la convenuta risoluzione del rapporto con la S. fu antecedente alla declaratoria di illegittimità della cessione del ramo d’azienda, essa riguardava l’unico rapporto di lavoro all’epoca esistente e cioè quello con S. per effetto dell’art. 2112 c.c. (cita Cass. n. 6755/15: In caso di dichiarazione di nullità della cessione di ramo d’azienda, il lavoratore ha diritto al risarcimento dei danno ove non sia stato ammesso a riprendere il lavoro nell’impresa cedente, salvo che egli non abbia accettato l’estinzione dell’unico rapporto di lavoro, di fatto proseguito con l’impresa cessionaria, sottoscrivendo insieme a quest’ultima un verbale di messa in mobilità).

Il motivo è infondato.

Nella specie non v’è dubbio che l’originario rapporto di lavoro con T. sia proseguito, ancorché solo di fatto (ex artt. 2112 e 2126 c.c.), con il cessionario, che ha corrisposto allo Z. l’ordinaria retribuzione. Quest’ultimo stipulò poi con la S. una transazione (datata 7.3.11) con cui accettava la risoluzione del rapporto verso il corrispettivo di una apprezzabile somma di denaro quale incentivo all’esodo.

Deve tuttavia richiamarsi il recente principio per cui, qualora sia dichiarata nulla la cessione di un ramo di azienda, ai lavoratori passati alle dipendenze del cessionario, e da questi retribuiti, spetta al lavoratore la normale retribuzione da parte del cedente, non soggetta alla detrazione dell’aliunde perceptum, e neppure alle vicende del rapporto di mero fatto col cessionario.

In sostanza, secondo questa Corte: “in caso di cessione di ramo d’azienda, ove su domanda del lavoratore ceduto venga giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui all’art. 2112 cod. civ., le retribuzioni in seguito corrisposte dal destinatario della cessione, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente alla messa a disposizione di questi delle energie lavorative in favore dell’alienante, non producono un effetto estintivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa” (Cass. n.29092/19).

Il rapporto col cessionario, dunque, è instaurato in via di mero fatto, tanto che le vicende risolutive dello stesso non sono idonee ad incidere sul rapporto giuridico ancora in essere con il cedente, sebbene quiescente per l’illegittima cessione fino alla declaratoria giudiziale, cfr. Cass. 29092/2019, Cass. n.16793/20, Cass. n. 16792/20, Cass. n.16710/20, e plurimis.

Questa Corte ritiene di non poter più condividere l’orientamento di legittimità (invocato dalla società), secondo cui il diritto al risarcimento del danno (e tanto più il diritto alla retribuzione) in favore dei lavoratori non sussiste qualora gli stessi abbiano accettato l’estinzione dell’unico rapporto di lavoro, di fatto proseguito con l’impresa cessionaria, sottoscrivendo insieme a quest’ultima un accordo in tal senso. Deve piuttosto farsi applicazione del principio di diritto enunciato da Cass. n. 29092/19: “In caso di cessione di ramo d’azienda, ove su domanda del lavoratore ceduto venga giudizialmente accertato che non ricorrono i presupposti di cui all’art. 2112 cod. civ., le retribuzioni in seguito corrisposte dal destinatario della cessione, che abbia utilizzato la prestazione del lavoratore successivamente alla messa a disposizione di questi delle energie lavorative in favore dell’alienante, non producono un effetto estintivo, in tutto o in parte, dell’obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa”.

Quanto in particolare alla risoluzione consensuale del rapporto con la cessionaria S.I s.p.a. deve considerarsi, come già affermato da questa Corte in varie occasioni, cfr. Cass. n. 20422/12, che la transazione col terzo cessionario è res inter alios acta e dunque “non può condividersi l’argomentazione secondo cui, avendo dato le dimissioni dalla cessionaria, i lavoratori avrebbero fatto cessare quello stesso ed unico rapporto lavorativo che prima avevano con T. I., che quindi non potrebbe più rivivere, assunto – per altro – viziato dal supporre l’esistenza fra cedente, cessionario e lavoratori ceduti ex art. 2112 c.c., di un inscindibile rapporto plurisoggettivo che invece deve escludersi”.

2.- Con secondo motivo la soc.T. lamenta che la sentenza impugnata qualificò come risarcimento del danno quanto ritenuto spettante ai lavoratori, che avevano tuttavia qualificato come retributivi i loro crediti.

Il motivo è infondato alla luce della giurisprudenza di legittimità sopra citata (Cass. n. 29092/19 e successive conformi), nonché alla luce del principio per cui spetta al giudice la qualificazione giuridica della domanda (Cass. n. 7794/17 e successive conformi).

3.- Con terzo motivo la società ricorrente censura la sentenza impugnata per aver escluso che le somma ricevute a titolo di provvidenze previdenziali potessero essere defalcate dal dovuto.

Il motivo è infondato trattandosi, come si è detto, di crediti retributivi.

4.- Con quarto motivo la società si duole della mancata produzione delle dichiarazioni dei redditi pel periodo in esame, sempre al fine della detrazione dell’aliunde perceptum.

Stante la ripetuta natura retributiva dei crediti, la doglianza risulta infondata.

5.- Il ricorso deve essere dunque rigettato.

Considerato che il consolidamento della riferita giurisprudenza di legittimità in materia è avvenuto solo dopo la proposizione del ricorso, ritiene il Collegio equo compensare le spese di lite.

P.Q.M.

rigetta il ricorso. Compensa tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, ove dovuto.