CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 febbraio 2021, n. 3098
Tributi – IRPEF – Somme ricevute a titolo di ripartizione di riserve o altri fondi costituiti con versamenti dei a fondo perduto o in conto capitale – Tassazione
Rilevato che:
A seguito di verifica condotta dalla Guardia di Finanza nei confronti della G. s.r.l. e poi nei riguardi della Srl & C. Holding, l’Agenzia delle entrate emise e notificò a C.S. un avviso di accertamento, con il quale per l’anno d’imposta 2005 era rettificato dell’importo di € 592.000,00 il suo reddito imponibile. L’atto impositivo era scaturito dalla constatazione che nell’anno 2005 il contribuente aveva percepito dalla C. Holding, di cui dal 2001 era divenuto socio unico, le predette somme, per poi versarle negli anni 2005-2006 nelle casse della G. s.r.l., di cui era legale rappresentante.
Al contribuente era anche notificata la relativa cartella di pagamento. Era seguito il contenzioso, nel quale il C. aveva contestato sia l’entità dell’importo sottoposto a tributo sia la violazione dell’art. 47, commi 1 e 5, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917. In particolare aveva asserito che una parte di quelle somme riguardava l’anno d’imposta 2006; in ogni caso si trattava di importi derivanti da distribuzione di riserve di capitale, dunque non imponibili ai sensi del comma 5 dell’art. 47 cit.; in ogni caso, qualora invece riconducibili ad utili, gli stessi andavano sottoposti a tassazione dei limiti del 40%, ai sensi del comma 1 dell’art. 47 cit.
La Commissione tributaria provinciale di Rovigo, con sentenza n. 78/01/2012, e la Commissione tributaria regionale del Veneto, con sentenza n. 62/22/2013, depositata il 4 luglio 2013, avevano rigettato il ricorso del contribuente.
Il C. ha censurato la sentenza del giudice regionale con due motivi:
– con il primo per violazione dell’art. 47, comma 5, d.P.R. n. 917 del 1986, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., per aver erroneamente ritenuto legittima la ripresa a tassazione di somme ricevute a titolo di ripartizione di riserve o di altri fondi costituiti con versamenti fatti dai soci a fondo perduto o in conto capitale;
– con il secondo per violazione dell’art. 47, comma 1, d.P.R. n. 917 del 1986, nonché dell’art. 53 Cost., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., per aver erroneamente riconosciuto legittima la ripresa a tassazione delle predette somme nella misura del loro intero ammontare e non del 40%.
Ha dunque chiesto la cassazione della sentenza con ogni consequenziale statuizione.
Si è costituita l’Agenzia delle entrate, che ha contestato le ragioni del ricorso, di cui ha chiesto il rigetto.
Non si è costituito l’agente della riscossione.
Nell’adunanza camerale del 5 novembre 2020 la causa è stata trattata e decisa.
Parte ricorrente ha depositato memorie., ai sensi dell’art. 380 bis.1 cod. proc. civ.
Considerato che
Con il primo motivo il contribuente lamenta l’erronea applicazione dell’art. 47, comma 5, del d.P.R. n. 917 del 1986, laddove la Commissione regionale, aderendo all’interpretazione data dall’Amministrazione finanziaria, ha ritenuto riconducibile ad imponibile la somma di € 592.800,00 ricevuta dal C.. Nelle sue difese il ricorrente invoca il dato testuale dell’articolo, secondo cui «non costituiscono utili le somme e i beni ricevuti dai soci delle società soggette all’imposta sul reddito delle società a titolo di ripartizione di riserve o altri fondi costituiti con versamenti fatti dai soci a fondo perduto o in conto capitale tuttavia le somme o il valore normale dei beni ricevuti riducono il costo fiscalmente riconosciuto delle azioni o quote possedute.». Deduce che dalla norma si evinca che tali somme non abbiano natura reddituale, né avrebbe rilievo quanto affermato dal giudice d’appello, secondo cui l’esclusione dall’imponibile dei predetti importi sarebbe giustificato nelle sole ipotesi in cui la restituzione sia operata nei confronti delle medesime persone fisiche finanziatrici. Ciò perché, a detta del ricorrente, nel momento in cui il socio finanziatore, dopo l’erogazione di quelle somme, rinunci al proprio credito, il conferimento «diviene parte esclusiva del capitale e del patrimonio societario» e la sua restituzione «è sprovvista di rilevanza reddituale». Il ragionamento, piuttosto contraddittorio, non trova condivisione ed è peraltro disatteso dalla stessa formulazione della norma. Infatti è pur vero che questa esclude espressamente dalla tassazione le restituzioni ai soci delle riserve o degli altri fondi costituiti con versamenti fatti dai medesimi soci a fondo perduto o in conto capitale, ma chiarisce anche che le somme o gli altri beni ricevuti “riducono” il costo fiscalmente riconosciuto delle azioni o quote possedute. Il che pone il problema dell’ipotesi in cui le restituzioni vadano oltre lo stesso costo fiscalmente riconosciuto delle partecipazioni azionarie o delle quote.
Se infatti l’esclusione dall’imponibile ha l’intento di estromettere dalla tassazione le restituzioni dei conferimenti eseguiti dai medesimi soci, ciò non costituisce tuttavia operazione indifferente per lo stato patrimoniale e in particolare per le componenti del patrimonio netto, così che la ripartizione di tali riserve o fondi, esclusane la natura di utile, incide comunque sul costo fiscalmente riconosciuto delle azioni o delle quote. L’effetto è che la medesima operazione di ripartizione e restituzione, quando la somma (o il valore dei beni) ecceda il costo fiscale delle partecipazioni, viene ricondotta nell’alveo degli utili con la sua conseguente tassazione (per le partecipazioni non qualificate con la ritenuta prevista dall’art. 27, comma 1, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600). La tassabilità nell’ipotesi ora rappresentata è riconosciuta dalla dottrina ed è peraltro condivisibilmente spiegata nella Circolare 16/06/2004, n. 26 dell’Agenzia delle entrate, che rileva come l’eventuale somma ricevuta dal socio, quando eccedente il costo fiscale della partecipazione, deve qualificarsi come utile perché si tratta di un reddito derivante dall’impiego di capitale e non da un evento realizzativo della partecipazione, inquadrabile come tale tra le fattispecie che danno luogo a redditi diversi di natura finanziaria. Nel solco della medesima interpretazione si riscontra anche la Circolare 14/07/2004, n. 32, della ASSONIME.
Peraltro nel caso di specie i conferimenti in favore della società erano stati eseguiti dai soci precedenti, che, con la cessione delle rispettive quote senza pretendere la restituzione di alcunché, avevano evidentemente rinunciato ai loro versamenti, così implementando il capitale sociale della C. Holding. A maggior ragione il prelievo dei medesimi importi da parte del C., che aveva acquistato l’intera partecipazione sociale al valore nominale delle quote, pari ad € 10.400,00 (valore mai contestato), ha comportato la realizzazione di un reddito di capitale, configurabile come utile da partecipazione. E d’altronde tale interpretazione è coerente con l’ipotesi prevista e disciplinata dal successivo comma 7 della medesima norma, secondo cui <<le somme ….ricevute dai soci in caso di …..riduzione del capitale esuberante ….costituiscono utile per la parte che eccede il prezzo pagato per l’acquisto o la sottoscrizione delle azioni o quote annullate.». Nell’un caso come nell’altra ipotesi l’impoverimento del patrimonio sociale derivante dall’attribuzione di parte del capitale al socio costituisce operazione tassabile come utile.
È appena il caso di evidenziare che la stessa difesa del contribuente a pag. 9, penultimo cpv, afferma che «allorché il capitale restituito non si riveli eccedentario rispetto al capitale concesso in impiego, la somma restituita non potrà avere alcuna connotazione reddituale, nell’accezione di “reddito entrata” (arricchimento) propria del nostro ordinamento.». Inoltre sempre nella difesa del ricorrente si afferma che «nel momento in cui il socio rinuncia al proprio credito nei confronti della società, la somma finanziata diviene parte esclusiva del capitale e del patrimonio societario.». Nel caso di specie i cedenti delle quote sociali nulla avevano preteso dei versamenti conferiti, sicché il capitale e il patrimonio sociale si era accresciuto. Peraltro, a fronte del prezzo di € 10.400,00 con cui il C. aveva acquistato le quote sociali -prezzo mai indicato in un importo diverso e maggiore-, questi ha percepito quasi 592.000,00 €, con ciò perfezionando un’operazione di “arricchimento”, che non poteva certo essere esentata da tassazione.
Il motivo va pertanto disatteso.
Non trova accoglimento neppure il secondo motivo, con il quale il ricorrente si duole della violazione del primo comma dell’art. 47 del d.P.R. n. 917 del 1986 per aver erroneamente riconosciuto legittima la ripresa a tassazione delle predette somme nella misura del loro intero ammontare e non del 40%. Il C. denuncia in particolare l’erroneità delle argomentazioni del giudice regionale, secondo cui la limitazione al 40% dell’imponibile tassabile richiedeva la preventiva delibera assembleare nonché l’esposizione in dichiarazione, condizioni non verificatesi. Di contro, prosegue il contribuente, nel caso di specie non poteva esservi alcuna delibera perché non si trattava di utili societari, e comunque alcuna norma prescriveva la previa delibera assembleare.
La censura è infondata per le ragioni appresso specificate.
Va rammentato che l’art. 47, comma 1, cit., vigente ratione temporis, e cioè nella formulazione anteriore alle modifiche apportate dalla I. 27 dicembre 2017, n. 205, prevedeva il concorso degli utili alla formazione del reddito imponibile complessivo del percipiente, ma con una parziale esclusione, calcolata in una percentuale, via via modificatasi nel corso degli anni e che nell’anno d’imposta 2005 era pari al 60%. Gli utili percepiti dal socio entravano pertanto nell’imponibile complessivo del percettore nella misura del 40%. L’esclusione parziale aveva la finalità di mitigare gli effetti della doppia imposizione economica, per essere stati, quegli utili distribuiti, già tassati in capo alla società.
Nel caso di specie le somme percette dal C. non rispondevano agli utili già sottoposti ad Ires, per cui la fattispecie esulava fiscalmente dal rischio della doppia imposizione. Né il ricorrente ha mai affermato che quegli importi fossero stati già sottoposti all’imposta gravante sulla società. Ne discende che alla determinazione della base imponibile delle somme percepite dal C. non poteva trovare applicazione la disciplina prevista dal primo comma del citato art. 47.
In conclusione il ricorso va rigettato. All’esito della controversia segue la soccombenza del C. anche nelle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano nella misura specificata in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il C. alla rifusione delle spese del giudizio, che si liquidano nella misura di € 5.600,00, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del medesimo articolo 13, se dovuto.
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