CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 giugno 2020, n. 10982
Accertamento – Reddito di impresa – Dichiarazione dei redditi – Omessa presentazione – Requisiti della gravità, precisione e concordanza
Rilevato che
1. La Commissione tributaria regionale della Lombardia rigettava sia l’appello principale della E.S. e T. s.r.l. sia l’appello incidentale della Agenzia delle entrate proposti avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Sondrio, che aveva accolto solo in parte il ricorso proposto dalla società per l’anno 2006 e rigettato quello concernente il 2007, nei confronti degli avvisi di accertamento emessi dalla Agenzia delle entrate per gli anni suddetti.
Il giudice di appello rilevava che dalla documentazione prodotta non emergevano con certezza i costi sostenuti dalla contribuente, in quanto dalle fatture passive emesse da varie società non risultavano specifici mezzi presi a noleggio, i nominativi dei dipendenti che avessero effettivamente espletato i lavori, i luoghi di effettuazione delle prestazioni. In realtà la società era gestita dalla famiglia D.M., come da dichiarazioni dell’amministratore L.B., dichiaratosi mero prestanome dei soci, oltre che da quelle della segretaria e dei legali rappresentanti delle altre imprese. In particolare, la R. s.r.l., gestita da D.M. G., era risultata “praticamente inesistente”. Le fatture emesse dalla S. s.r.l. e della T.V. s.r.l. erano prove dei requisiti di “certezza” e di “inerenza”. Per l’anno 2006 si era confermata la riduzione dell’utile di impresa pari al 20 %, già applicata dai primi giudici, ai sensi dell’art. 34, comma 2, d.p.r. 554/1999 (regolamento di esecuzione della legge 109/194, in tema di appalti pubblici). Per il 2007, anno per il quale la società non aveva presentato la dichiarazione dei redditi, si affermava che “valgono le considerazioni già svolte dai primi giudici, che questa Commissione fa proprie”.
2. Avverso tale sentenza propone ricorso per Cassazione la società.
3. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.
Considerato che
1. Con il primo motivo di impugnazione la società deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 23 Cost. e dell’art. 34 comma 2 lettera d d.p.r. 554/1999 in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. per l’anno di imposta 2006”, in quanto il giudice di appello ha erroneamente condiviso il metodo puramente equitativo con cui il giudice di prime cura aveva determinato il reddito di impresa, desumendolo dalla materia degli appalti pubblici. Non può essere consentito, infatti, il ricorso a criteri di valutazione equitativa, neppure laddove siano illustrate le ragioni poste a fondamento del ragionamento dell’organo giudicante. L’art. 34, comma 2, lettera d, del d.p.r. 554/1999, poi, non solo non ha carattere fiscale, ma neppure ha attinenza con l’attività svolta dalla contribuente che non ha mai partecipato alle gare per l’affidamento di commesse pubbliche.
1.1. Tale motivo è fondato.
Invero, ai sensi dell’art. 113 comma 1 c.p.c. “nel pronunciare sulla causa il giudice deve seguire le norme del diritto, salvo che la legge gli attribuisca il potere di decidere secondo equità”.
L’equità, dunque, costituisce una deroga eccezionale al principio di legalità della decisione giudiziaria, sicché il giudizio di equità presuppone sempre una espressa previsione legislativa che lo autorizzi. L’equità si inserisce pur sempre nella visione del diritto che si indica come positivismo giuridico statuale, per cui si identifica la giuridicità della norma con la previsione diretta o indiretta della stessa nella legge dello Stato, intesa questa come fonte primaria ed esclusiva di giuridicità.
Poiché nei casi in cui la legge consente il giudizio di equità si verifica una vera e propria sostituzione del giudizio di stretta legalità, si fa riferimento alla equità “sostitutiva”, per distinguerla dalla equità integrativa (o correttiva), che si verifica quando il giudice applica pur sempre una norma di legge, ma quest’ultima presenta una fattispecie interpretativa incompleta, sicché il legislatore rimette alla valutazione equitativa del giudice la determinazione di un elemento del rapporto controverso (come nel caso di liquidazione del danno esistenziale con i criteri equitativi uniformi adottati negli uffici giudiziali di merito come da Cass., sez. 3, 11 novembre 2019, n. 28988; Cass., sez. 3, 11 novembre 2019, n. 28986)..
In dottrina, sul punto, l’equità è considerata come regola del caso concreto, evidenziando la singolarità del caso in cui l’equità è chiamata ad operare, caratterizzata da soggettività, in quanto non obiettivamente preesistente ed esterna al giudice, ma trovata e formulata nel giudizio.
Per questa Corte, il giudice tributario non è dotato di poteri di equità sostitutiva, dovendo fondare la propria decisione su giudizi estimativi, di cui deve dar conto in motivazione in rapporto al materiale istruttorio, sicché il giudice tributario non può ridurre ad una determinata percentuale i maggiori ricavi accertati dalla Agenzia delle entrate senza precisarne le ragioni (Cass., sez. 5, 25 giugno 2019, n. 16960; Cass., n. 27862/2018; Cass., n. 7534/2018; Cass., n. 3984/2017; Cass., n. 25707/2015; Cass., n. 4442/2010).
Nella specie, il giudice di appello ha confermato la decisione di primo grado, che, per l’anno 2006, aveva ridotto gli utili di impresa al 20 %, applicando il criterio di cui all’art. 34 comma 2, lettera d, del d.m. 21-12-1999 n. 554 (Regolamento di attuazione della legge quadro in materia di lavori pubblici 11 febbraio 1994, n. 109).
L’art. 34 comma 2 lettera d del citato d.p.r. (stima sommaria dell’intervento e delle espropriazioni del progetto definitivo), infatti, dispone che “la stima sommaria dell’intervento consiste nel computo metrico estimativo, redatto applicando alle quantità delle lavorazioni i prezzi unitari dedotti dai prezziari della stazione appaltante….”. Al comma 2 si aggiunge che “per eventuali voci mancanti il relativo prezzo viene determinato:…lettera d) aggiungendo infine una percentuale del 10 per cento per utile dell’appaltatore”.
In tal modo il giudice di appello ha determinato l’utile della contribuente, raddoppiando la percentuale dell’utile del 10 % indicata dalla normativa di settore che regolava gli appalti pubblici prima del d.lgs. 163/2006, quindi il d.lgs. 109/1994.
Tuttavia, nei giudizi estimativi tributari, non v’è alcuna disposizione di legge che consente al giudice l’applicazione dell’equità sostitutiva, né del resto è consentito applicare una norma che appartiene alla specifica materia della partecipazione degli operatori economici alle gare per l’affidamento delle commesse pubbliche.
2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduce “violazione e falsa applicazione degli artt. 41 e 42 d.p.r. 600/1973 e 54 Cost. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. per l’anno di imposta 2007”, in quanto l’accertamento per l’anno 2007 è stato effettuato con il metodo induttivo extracontabile, non avendo la società presentato per tale annualità la dichiarazione dei redditi, quindi sulla base di presunzioni prive dei requisiti di cui all’art. 38 d.p.r. 600/1973. Tuttavia, non si è tenuto conto dei costi sostenuti per l’attività economica svolta. In particolare, secondo l’Agenzia delle entrate il fatturato della società per il 2007 sarebbe stato di € 11.986.353,00, con ricavi per € 1.198.635,00, pari al 10 % di tale cifra ai sensi dell’art. 34 comma 2 del d.p.r. 554/1999, senza considerare in alcun modo i costi, con una impropria equiparazione del reddito di impresa ai ricavi.
2.1. Tale motivo è fondato.
Invero, a fronte della mancata presentazione della dichiarazione dei redditi devono essere applicate le presunzioni “super semplici”, ai sensi dell’art. 41 d.p.r. 600/1973, prive quindi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.
2.2. Tuttavia, costituisce principio consolidato di questa Corte quello per cui, nel caso di omessa dichiarazione da parte del contribuente, l’Amministrazione finanziaria, i cui poteri trovano fondamento non già nell’art. 38 (accertamento sintetico) o nell’art. 39 (accertamento induttivo), bensì nell’art. 41 del d.P.R. n. 600 del 1973 (cd. accertamento d’ufficio), può ricorrere a presunzioni cd. supersemplici, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, che comportano l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, ma deve, comunque, determinare, sia pure induttivamente, i costi relativi ai maggiori ricavi accertati, pena la lesione del parametro costituzionale della capacità contributiva, senza che possano operare le limitazioni previste dall’art. 75 (ora 109) del d.P.R. n. 917 del 1986 in tema di accertamento dei costi, disciplinando tale norma la diversa ipotesi in cui una dichiarazione dei redditi, ancorché infedele, sia comunque sussistente (Cass., 17 luglio 2019, n. 19191; Cass., 20 gennaio 2017, n. 1506).
Lo stesso principio di valorizzazione dei costi si applica anche alle ipotesi di accertamento induttivo “puro”, ai sensi dell’art. 39 comma 2 d.p.r. 600/1973, quando trovano applicazione le presunzioni prive dei requisiti di cui all’art. 39 comma 1 lettera d d.p.r. 600/1973 (in termini Corte Cost., 8 giugno 2005, n. 225; Cass., 23 ottobre 2018, n. 26748, proprio tenendo conto del principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost.; Cass., 19 febbraio 2009, n. 3995).
Per questa Corte, infatti, devono essere considerati i componenti negativi collegati allo svolgimento dell’attività, perchè altrimenti si assoggetterebbe ad imposta il profitto lordo, anziché quello netto, in violazione dell’art. 53 Cost. Né a ciò è di ostacolo l’art. 109 del Tuir, in base al quale i costi sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui risultano imputati al conto economico. Tale norma, però, non è applicabile in caso di rettifica induttiva, in cui alla ricostruzione dei ricavi deve corrispondere un’incidenza percentuale dei costi (Cass., 28740/2017; Cass., 1166/2012; Cass., 3995/2009; Cass., 28028/2008; Cass., 640/2001; Cass. 3317/1996; Cass., 3567/2017; in tal senso si veda anche circolare Agenzia delle entrate 32/E/2006). Viene, dunque, ribadito il principio per cui, nel caso di verifiche diverse da quelle analitiche, ed ai fini della ricostruzione del reddito, i costi non registrati devono essere riconosciuti anche nel caso in cui non siano stati annotati nelle scritture contabili ed anche quando sia stata omessa la dichiarazione dei redditi. Va, dunque, applicata l’imposta sull’utile netto, ossia portando in deduzione i costi non registrati, sia pure forfettariamente stabiliti.
Pertanto, dei costi si deve tenere conto anche quando il reddito viene accertato con il metodo induttivo “puro” o, comunque, in conseguenza della mancata presentazione delle dichiarazione dei redditi, in entrambi i casi utilizzandosi le presunzioni supersemplici.
Sul punto si è precisato che, nel caso di omessa dichiarazione da parte del contribuente, il potere – dovere dell’Amministrazione è disciplinato non già dell’art. 39, bensì dall’art. 41 del d.P.R. n. 600 del 1973, ai sensi del quale, sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, l’Ufficio determina il reddito complessivo del contribuente medesimo; a tal fine, esso può utilizzare qualsiasi elemento probatorio e può fare ricorso al metodo induttivo, avvalendosi anche di presunzioni cd. supersemplici – cioè prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 38, comma 3, del d.P.R. citato -, le quali determinano un’inversione dell’onere della prova, ponendo a carico del contribuente la deduzione di elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito (risultante dalla somma algebrica di costi e ricavi) non è stato prodotto o è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall’Ufficio (Cass., 15 giugno 2017, n. 14930).
La Commissione regionale dunque, avrebbe dovuto tenere conto dei costi da determinare anche in via induttiva, mentre si è limitata a richiamare il contenuto della sentenza di prime cure.
3. Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “violazione e falsa applicazione dell’art. 109 d.p.r. 917/1986 e art. 53 Cost., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.”, in quanto le valutazioni sulla certezza e sulla inerenza dei costi vanno effettuate non solo sull’analisi formale della fattura, ma anche dall’esame del servizio o del bene acquistato in relazione all’attività svolta dall’impresa. Il giudice di appello non ha considerato i documenti prodotti all’allegato 5 del ricorso introduttivo (documenti di trasporto e contratti “attivi”), concentrando, invece, la sua attenzione sugli altri documenti che solo in parte sono stati ritenuti idonei a giustificare la deducibilità del costo e la detrazione dell’Iva. Nei documenti di trasporto è presente la targa del mezzo con cui lo stesso è stato effettuato, l’identità del trasportatore, la natura e la quantità di merce trasportata. Sono stati prodotti i contratti passivi di noleggio, con le autorizzazione dei diversi proprietari. Tra le prestazioni rese ai propri clienti, poi, vi era il nolo a freddo di escavatori e pale per il movimento terra, quindi senza personale, quindi con l’uso di mezzi cingolati con sistemi di rifornimento del tutto particolari.
3.1. Tale motivo è inammissibile.
Invero, la sentenza del giudice di appello è stata depositata il 21-5-2013, sicché al vizio di motivazione di applica l’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., come modificato dal d.l. 83/2012, applicabile alle sentenze depositate a decorrere dall’11.9.2012.
La ricorrente ha solo formalmente dedotto il vizio di violazione di legge ai sensi degli artt. 109 Tuir e 53 Costituzione, ma in realtà chiede una diversa valutazione degli elementi di fatto già esaminati con attenzione ed analiticità dal giudice di appello.
In particolare, la Commissione regionale ha ritenuto che la contribuente, che esercita attività per conto terzi, quindi rivolgendosi ad altre imprese per ottenere i mezzi necessari per far fronte alle esigenze dei propri clienti, abbia ricevuto fatture per operazioni inesistenti, sicché le prestazioni relative alle fatture erano fittizie. In particolare si spiega in motivazione che la società contribuente era gestita dalla famiglia D.M. e che il legale rappresentante L.B. ha ammesso di essere solo un prestanome. Ulteriori dichiarazioni in tal senso sono giunte dagli altri soci e dalla segretaria, oltre che dagli altri legali rappresentanti delle imprese che hanno intrecciato rapporti con la contribuente. La società R. s.r.l., gestita da G.D.M. era “praticamente inesistente”. La documentazione proveniente dalle società S. s.r.l. e T. s.r.l. era priva dei requisiti di certezza e di inerenza.
Dinanzi a tale robusto quadro probatorio (peraltro emerso anche in altra decisione di questa Corte, sia pure per una diversa annualità; cfr. Cass., sez. 5, 21 novembre 2019, n. 30367), la ricorrente ha dedotto una censura di violazione di legge, ma chiedendo in realtà una nuova e diversa valutazione del materiale istruttorio non consentita in questa sede.
4. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, anche per provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie il primo ed il secondo motivo; dichiara inammissibile il terzo motivo;
cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti, con rinvio della causa alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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