CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 maggio 2019, n. 12375
Licenziamento disciplinare – Svolgimento di mansioni superiori alla qualifica professionale attribuita – Conciliazione giudiziale dell’intera lite
Rilevato che
– con sentenza in data 2 maggio 2017, la Corte d’Appello di Firenze, sull’impugnazione della società T.B. & C. S.a.s. in parziale riforma della decisione di primo grado, che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimato alla lavoratrice, ha dichiarato la cessazione della materia del contendere, per intervenuta transazione, fra M.F. e la T.B. & C. S.a.s. e, in parziale accoglimento della domanda proposta dalla società nei confronti di S. e B.M., ha dichiarato la responsabilità delle terze chiamate quanto al 50% dell’importo corrisposto dalla appellante alla F. e, quindi, per l’importo di euro 33.862,04;
– M.F. aveva convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Lucca la T. di B. & C. S.a.S. per ottenerne oltre alla dichiarazione di illegittimità del licenziamento, con le conseguenze ex art. 18 L. n. 300 del 1970, la condanna alla corresponsione in proprio favore delle differenze retributive dovutele per aver svolto mansioni superiori alla qualifica professionale attribuita e per la formalizzazione solo parziale del proprio rapporto di lavoro presso il comparto pizzeria del ristorante P.T. e la società aveva richiesto l’integrale manleva delle eredi di uno dei tre soci;
– in data 19.4.2016, in sede di opposizione ad autonomo decreto ingiuntivo avanti al Tribunale di Lucca, la società e la F. erano infatti pervenuti alla conciliazione giudiziale dell’intera lite con reciproca rinunzia ai rispettivi appelli e con la promessa corresponsione della somma concordata in complessivi euro 67.724,09 in favore della lavoratrice;
– per la cassazione della sentenza propongono ricorso corredato da memoria B. e S.M. affidandolo a due motivi;
– resiste la Società T. di B. & C. S.a.s. con controricorso.
Considerato che
– con il primo motivo di ricorso le eredi Morelli censurano la violazione dei canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 – 1371 c.c., ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c., per avere la Corte di Firenze ritenuto impossibile stabilire a che titolo imputare l’ammontare complessivo dell’importo transattivo di cui al verbale di conciliazione giudiziale del 19.4.2016;
– in particolare, le ricorrenti lamentano che, attesa la ritenuta “impossibilità di individuare il contenuto dell’accordo transattivo dell’importo che i contraenti hanno valutato riferibile all’una o all’altra delle due pretese”, la Corte avrebbe sostituito la propria volontà a quella chiara delle parti, che avevano inteso esclusivamente rinunciare al giudizio di appello, così dovendosi intendere l’importo esclusivamente relativo alle conseguenze risarcitorie del licenziamento illegittimo;
– il Tribunale, infatti, aveva accertato l’illegittimità del licenziamento, con conseguente condanna della società alle conseguenze di cui all’art. 18 L. n. 300/70 ma aveva rigettato la domanda di condanna alle differenze retributive, implicanti la responsabilità delle chiamate eredi M.;
– il motivo è inammissibile;
– esso, infatti, appare proposto in violazione del principio di specificità del ricorso, prescritto dall’art. 366, co. 1, n. 4 e n. 6 c.p.c., a causa dell’omessa trascrizione del verbale di conciliazione giudiziale, che osta al suo esame diretto da parte della Corte di cassazione (sul punto, ex plurimis, Cass. 13.11.18, n. 29093; Cass. 4.10.2018 n. 24340; Cass. 12.5.10, n. 11477; Cass. 10.1.12, n. 86; Cass. 20.7.12, n. 12664; Cass. 13.3.18, n. 6014);
– i requisiti di contenuto-forma previsti, infatti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366, comma 1, c.p.c., nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza (cfr. sul punto, Cass. n. 29093/2018, cit.);
– nel definire il contenuto della conciliazione e l’imputabilità delle somme concordate alle relative pretese giudiziali della F., le ricorrenti si limitano ad affermazioni apodittiche senza riportare adeguato stralcio o passo virgolettato – e con la necessaria indicazione dell’atto di provenienza – per consentire la verifica ex actis della veridicità delle asserzioni formulate sulle quali si fonda l’asserito malgoverno dei criteri interpretativi, anche integrativi, di cui agli artt. 1362 e segg. c.c.;
– nel caso di specie, non può in alcun modo ritenersi rispettato il canone di cui all’art. 366 cod. proc. civ. mediante la produzione del semplice stralcio del verbale della cui interpretazione si discute, pure veicolato dall’interpretazione della parte (al terz’ultimo e penultimo cpv p. 10 ricorso), essendo, invece, indispensabile l’integrale trascrizione del verbale medesimo onde comprenderne portata, margini ed estensione, per la composizione di una articolata e complessa vicenda processuale;
– deve, d’altro canto, affermarsi l’incensurabilità dell’interpretazione giudiziale del testo del verbale di conciliazione giudiziale, congruamente argomentata ed assolutamente plausibile (per le ragioni, attente alla corretta individuazione della sua portata in riferimento all’intera vicenda controversa oggetto di devoluzione in appello, in virtù dell’impugnazione principale della società datrice e incidentale della lavoratrice);
– in particolare, la Corte da conto in modo preciso ed argomentato in ordine all’essere diretto il contenuto della transazione a definire l’intera lite e determinato in relazione al valore dell’intera res controversa, in quanto comprensiva sia della domanda di accertamento dell’illegittimità del licenziamento sia di quella di condanna al pagamento di retribuzioni, nonostante fosse stata respinta in primo grado poiché concorrente comunque a formare il rischio di causa;
– peraltro, la mera contrapposizione alle argomentazioni di parte ricorrente a quelle della Corte rende la vicenda insindacabile in sede di ricorso per cassazione alla luce della giurisprudenza di questa Corte (sul punto, Cass. 10.05.2018, n. 11254) secondo cui l’interpretazione del contratto può essere sindacata in sede di legittimità solo nel caso di violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, la quale non può dirsi esistente sul semplice rilievo che il giudice di merito abbia scelto una piuttosto che un’altra tra le molteplici interpretazioni del testo negoziale, talché, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra;
– l’interpretazione offerta si appalesa, quindi, come avente ad oggetto il risultato interpretativo in sé (Cass. 10.02.2015, n. 2465; Cass. 26.05.2016, n. 10891), alla luce della contrapposizione di una interpretazione dei fatti propria della parte a quella della Corte territoriale (Cass. 19.03.2009, n. 6694; Cass. 16.12.2011, n. 27197), interpretazione del tutto plausibile, non occorrendo trattarsi dell’unica possibile o della migliore in astratto (Cass. 22.02.2007, n. 4178): essa, inoltre, non indica i canoni interpretativi violati, né specifica le ragioni e le modalità in cui si sarebbe realizzata l’asserita violazione (Cass. 14.06.2006, n. 13717; Cass. 21.06.2017, n. 15350);
– con il secondo motivo di ricorso viene dedotta la nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 4 c.p.c. in ragione della violazione dell’art. 112 c.p.c, poiché il Collegio sarebbe incorso in una ultrapetizione laddove ha condannato le ricorrenti a tenere indenne la T. S.a.s. dal pagamento delle differenze retributive nonostante il gravame proposto dalla Società fosse limitato alle sole somme ch’essa avrebbe dovuto corrispondere alla F. a titolo di indennità risarcitoria per la declaratoria d’illegittimità del licenziamento, essendo stata rigettata dal Tribunale la domanda relativa alle differenze retributive;.
– il motivo è infondato;
– deve escludersi, infatti, la configurabilità nel caso di specie del vizio di ultrapetizione, non configurandosi la pronuncia oltre quanto devoluto: tale vizio infatti, può dirsi ricorrente soltanto qualora il giudice di merito, alterando gli elementi obiettivi dell’azione (petitum o causa petendi), emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (petitum immediato), oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (petitum mediato), così pronunciando oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dalle parti (cfr., sul punto, Cass. 11.01.2011, n. 455; Cass. 24.09.2015, n. 18868; Cass. 06.09.2018, n. 21720);
– nel caso di specie, non può negarsi che il giudice di secondo grado abbia conservato la propria pronunzia nei limiti di devoluzione dell’appello principale della società datrice e di quello incidentale della lavoratrice, rispetto al quale ha resistito la prima (come da conclusioni riportate a p 19 controricorso), sia pure attraverso il filtro dell’intervenuta transazione giudiziale;
– alla luce delle suesposte argomentazioni, il ricorso deve essere respinto;
– le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo;
– sussistono i presupposti per il versamento da parte delle ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato ai sensi del comma 1-quater dell’art. 13 d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese processuali in favore della parte controricorrente, che liquida in complessivi euro 4.000,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso articolo 13.
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