CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 maggio 2022, n. 14667
Licenziamento disciplinare – Irrimediabile frattura del vincolo fiduciario – False dichiarazioni del lavoratore – Aggressione – Proporzionalità della sanzione alla gravità dei fatti addebitati
Rilevato che
1. La Corte di appello di Venezia, con sentenza n. 267 depositata il 15.5.2019, in riforma della sentenza del Tribunale di Rovigo, ha ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare intimato con lettera del 29.7.2015 da D.P.A. s.r.l. ad A.Z. per attribuzione di dichiarazioni false alle colleghe in relazione all’integrità di essiccatore (assegnato il 13.7.2015) utilizzato nell’ambito delle mansioni di addetta al laboratorio di analisi e nonché per aggressione verbale e fisica del datore di lavoro in presenza di terzi (comportamento assunto in data 16.7.2015).
2. La Corte territoriale – a seguito di approfondita disamina delle deposizioni testimoniali e delle risultanze dell’esame, tramite CTU, delle celle telefoniche di alcuni testimoni, risultanze peraltro acquisite in altro procedimento, in assenza di contraddittorio con la società nonché di contenuto non univoco – ha ritenuto provati i fatti disciplinarmente addebitati nella lettera di contestazione, fatti integranti reato e, comunque, la fattispecie di cui all’art. 69, n. 9, lett. E, del CCNL applicato in azienda; ha, pertanto, ritenuto (sul punto, in riforma della sentenza di primo grado) che la contestualizzazione della vicenda (nell’ambito di un clima di pregressa elevata conflittualità tra dipendente e datore di lavoro) non legittimasse la Z. ad insultare apertamente ed immotivatamente il datore di lavoro, con oggettivo disvalore aziendale, e conseguente impossibilità di proseguire il rapporto di lavoro a fronte della irrimediabile frattura del vincolo fiduciario fra le parti e infausta prognosi di un ritorno alla normalità e al corretto adempimento degli obblighi di obbedienza, fedeltà, collaborazione intrinseci al rapporto di lavoro; ha, infine, condannato la Z. alla restituzione dell’indennità ex art. 18, comma 5, della legge n. 300 del 1970 percepita a seguito dell’adozione della ordinanza di primo grado.
3. Per la cassazione di tale sentenza la lavoratrice ha proposto ricorso affidato a sette motivi, illustrati da memoria ex art. 378 cod.proc.civ. La società ha resistito con controricorso, illustrato da memoria.
Considerato che
1. Con il primo motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ., difetto assoluto di motivazione sul primo addebito della contestazione disciplinare, avendo la Corte territoriale omesso la motivazione sulla rilevanza o meno del fatto contestato; ove, invero, si ritenesse sussistente solamente uno dei due fatti contestati che hanno determinato il licenziamento, ne conseguirebbe l’annullamento e la caducazione della sanzione espulsiva.
2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ., nullità della sentenza per violazione degli artt. 115 e 116 cod.proc.civ. per avere, la Corte territoriale, ritenuto – con riguardo alla seconda contestazione disciplinare – irrilevanti e privi di alcun significato e valore probatorio i tabulati telefonici e l’indicazione delle celle agganciate il giorno 16.7.2015 dai telefoni cellulari di R.P., A.P., L.P., senza ritenere di disporre idonea CTU.
3. Con il terzo ed il quarto motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ., nullità della sentenza per violazione degli artt. 115 e 116 cod.proc.civ. nonché 2709 e/o 2735 cod.civ. nonché omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio per avere, la Corte territoriale, trascurato di considerare – quale mezzo di prova per la esatta determinazione dell’orario di lavoro di presunto accadimento del secondo fatto contestato nonché ai fini dell’attendibilità dei testimoni – le timbrature dei cartellini in uscita dei dipendenti della società (a cui deve attribuirsi valore di dichiarazione confessoria). Ove la Corte territoriale avesse considerato le risultanze del registro timbrature del 16.7.2015 avrebbe rilevato che effettivamente l’aggressione, poiché certamente successiva alla timbratura del cartellino della Z., non avrebbe potuto che essersi verificata alle 12.40, con conseguente evidenza decisiva ai fini del giudizio tale da smentire le dichiarazioni dei testimoni A.P. e L.P., da ritenersi inattendibili.
4. Con il quinto motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ., nullità della sentenza per violazione degli artt. 115 e 116 cod.proc.civ. per avere, la Corte territoriale, omesso l’esame delle contraddizioni tra quanto dichiarato dai testimoni L.P. e A.P. in sede di sommarie informazioni nell’ambito del procedimento penale e nel giudizio di primo grado avanti al giudice del lavoro.
5. Con il sesto motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ., omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio per avere, la Corte territoriale, omesso di esaminare l’assenza dal lavoro nella giornata del 16.7.2015 di R.R., ovvero sia della persona che secondo la ricostruzione datoriale avrebbe determinato il (secondo) fatto contestato.
6. Con il settimo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod.proc.civ., nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 cod.proc.civ. per essere, la sentenza impugnata, solamente apparente, avendo trascurato la Corte territoriale il criterio del “più probabile che non” ossia avendo escluso ogni rilievo rilevanza dei tabulati telefonici nonostante gli stessi fossero basati su dati altamente probabilistici.
7. I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente visto la stretta connessione, sono inammissibili.
8. La nullità della sentenza per mancanza della motivazione, ai sensi dell’art. 132 cod.proc.civ., è prospettabile quando la motivazione manchi addirittura graficamente, ovvero sia così oscura da non lasciarsi intendere da un normale intelletto. In particolare, il vizio di motivazione previsto dall’art. 132, secondo comma, n. 4, cod.proc.civ., sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, né alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (Cfr. Cass. n. 3819 del 2020), non essendo più ammissibili, a seguito alla riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ. (disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012), qui applicabile ratione temporis, le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata (Cass. n. 23940 del 2017).
9. L’art. 360 n. 5 cod.proc.civ., nell’ultima formulazione della norma si incentra sull’individuazione di un “fatto” il cui esame sia stato omesso dal giudice di merito e che, per la sua decisività, da intendere come elevato grado logico di pregnanza, se considerato, potrebbe in sé sovvertire l’esito della pronuncia impugnata, sicché si impone la rivisitazione del giudizio, da svolgere tenendo conto anche della circostanza pretermessa: “fatto” di cui è stato omesso l’esame che è da intendere in senso storico – naturalistico (Cass. n. 21152 del 2014), quale circostanza rilevante sia in via diretta, perché costitutiva, modificativa o impeditiva rispetto alla fattispecie legale, sia in via indiretta, quale fatto secondario, dedotto in funzione di prova (Cass. n. 17761 del 2016); secondo l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite (sentenza n. 8053 del 2014) e dalle successive pronunce conformi (cfr. Cass., 27325 del 2017; Cass., n. 9749 del 2016), l’omesso esame deve riguardare un fatto, inteso nella sua accezione storico-fenomenica, principale (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del diritto azionato) o secondario (cioè dedotto in funzione probatoria), la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali e che abbia carattere decisivo. Pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. Non costituiscono “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ., le argomentazioni o deduzioni difensive (Cass. n. 14802 del 2017; Cass. n. 21152 del 2014); gli elementi istruttori; una moltitudine di fatti e circostanze, o il “vario insieme dei materiali di causa” (Cass. n. 21439 del 2015). E’ quindi inammissibile l’invocazione del vizio di cui all’art. 360, primo comma, n. 5 cod.proc.civ. per sostenere il mancato esame di deduzioni istruttorie, di documenti, di eccezioni di nullità della sentenza non definitiva e degli atti conseguenti, di critiche rivolte agli elaborati peritali (ovvero di semplici allegazioni difensive a contenuto tecnico) o per lamentarsi di una “motivazione non corretta” (da ultimo, Cass. n. 2268 del 2022).
10. Nel caso di specie, la Corte d’appello ha dedicato ampia e approfondita motivazione ad illustrare le ragioni della sussistenza di entrambi i fatti contestati, ricostruendoli nei medesimi termini del giudice di primo grado (che ne ha, poi, diversamente apprezzato la gravità ai fini dell’incidenza sul vincolo fiduciario).
11. In specie, la Corte ha ritenuto provate – al pari del giudice di primo grado e a seguito di analisi puntuale delle deposizioni dei testimoni nonché dei tabulati telefonici (già ritenuti di “scarsa probanza” dal giudice di primo grado) – sia la falsità delle giustificazioni rese dalla Z. con riguardo al primo addebito disciplinare contestato sia l’aggressione (non solo verbale) nei confronti del datore di lavoro, di cui al secondo addebito disciplinare; con riguardo al primo episodio ha ritenuto “l’oggettiva modestia del disvalore intrinseco alla condotta posta in essere” ma, con riguardo al secondo episodio ha ritenuto conseguire un “oggettivo disvalore aziendale, [che] rende del tutto incompatibile la prosecuzione del rapporto che necessita del vincolo fiduciario tra le parti, condotta che rende infausta la prognosi di un ritorno alla normalità e al corretto adempimento degli obblighi di obbedienza, fedeltà, collaborazione, intrinseci al rapporto di lavoro.
Né sanzioni conservative sono adeguate a soddisfare gli opposti interessi, di talché il licenziamento è proporzionato alla gravità dei complessivi fatti addebitati”: tale ampia motivazione non può certamente ritenersi né mancante, né inintelligibile, rilevato altresì – quale ulteriore profilo di inammissibilità – che i motivi del ricorso in cassazione sono sovrapponibili a quelli prospettati dalla lavoratrice in sede di appello.
12. In realtà, tutti i motivi sono diretti a censurare la valutazione del materiale probatorio esaminato dalla Corte territoriale; come già in molte occasioni affermato “L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata ( ex multis Cass. n. 19011/2017; Cass. n. 16056/2016).
13. La dedotta violazione dell’art. 115 cod.proc.civ. non è ravvisabile nella mera circostanza che il giudice di merito abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, ma soltanto nel caso in cui il giudice abbia giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (Cass., Sez. U, n. 11892/2016, Cass. Sez. U. n. 20867 del 2020). La violazione dell’art. 116 cod.proc.civ. è, poi, configurabile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (cfr. Cass. Sez. U. n. 11892 del 2016, Cass. Sez. U. n. 20867 del 2020, nonché, ex plurimis, Cass. n. 13960 del 2014), nel caso di specie preclusa a fronte di una pronuncia c.d. doppia conforme.
14. Ininfluente è, infine, la censura (di cui al primo motivo) di mancata valutazione della gravità del fatto di cui al primo addebito disciplinare, a fronte della ragionevolezza del giudizio di sussunzione, in ordine al secondo fatto disciplinare siccome accertato nella sua concretezza, nell’art. 2119 cod.civ. e nell’art. 69, n. 9, lett. E) del CCNL applicato in azienda, in assenza – per di più – di una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standard, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (cfr. sul punto Cass. n. 13539 del 2019); inconferente risulta il richiamo, nel ricorso, della statuizione n. 30676 del 2018 di questa Corte, che ha confermato la sentenza impugnata ove erano risultati materialmente insussistenti i due fatti disciplinari addebitati alla lavoratrice; pur sottolineando nuovamente che la Corte territoriale ha accertato la sussistenza di entrambi gli episodi addebitati alla lavoratrice, è utile, in materia, richiamare la pronuncia di questa Corte che ha statuito come nel caso di licenziamento disciplinare intimato per una pluralità di distinti ed autonomi comportamenti, solo alcuni dei quali risultino dimostrati, la “insussistenza del fatto” si configura qualora possa escludersi la realizzazione di un nucleo minimo di condotte che siano astrattamente idonee a giustificare la sanzione espulsiva, o se si realizzi l’ipotesi dei fatti sussistenti ma privi del carattere di illiceità, ferma restando la necessità di operare, in ogni caso, una valutazione di proporzionalità tra la sanzione ed i comportamenti dimostrati; ne consegue che, nell’ipotesi di sproporzione tra sanzione e infrazione, va riconosciuta la tutela risarcitoria se la condotta dimostrata non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi o i codici disciplinari applicabili prevedono una sanzione conservativa, ricadendo la proporzionalità tra le “altre ipotesi” di cui all’art. 18, comma 5, della l. n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, della l. n. 92 del 2012, per le quali è prevista la tutela indennitaria cd. Forte (Cass. n. 31529 del 2019).
15. In conclusione, il ricorso è inammissibile e le spese di lite sono regolate secondo il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.
16. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi nonché in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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