CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 marzo 2018, n. 5716
Lavoro dipendente – Differenza retributive – CCNL del comparto Enti pubblici non economici – Mansioni corrispondenti ad inquadramento superiore – Interpretazione delle declaratorie generali delle categorie di inquadramento e degli specifici profili professionali – Prova testimoniale
Rilevato che
1. La Corte di appello di Torino ha rigettato l’appello dell’INAIL avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Cuneo che aveva riconosciuto il diritto di B. G. M. al pagamento delle differenze retributive maturate nel periodo dal febbraio 2004 al 21 aprile 2010 per avere svolto mansioni corrispondenti al livello Cl, mentre il trattamento riconosciuto era stato di livello B3.
1.1. La Corte territoriale, premesso che il tratto distintivo del personale inquadrato in area C è lo svolgimento di un intero processo produttivo, ha osservato che la B., alla stregua di quanto emerso dalla prova testimoniale espletata in primo grado, aveva svolto, nel periodo interessato dal giudizio, tutte le fasi del processo produttivo relativo alla gestione del personale, esercitando anche attività valutative e scelte decisionali (per la disamina delle mansioni, v. pagg. 9 e segg. sent.).
2. Per la cassazione di tale decisione propone ricorso l’INAIL con tre motivi. Resiste la B. con controricorso.
Considerato che
1. Con il primo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 13 del CCNL del comparto Enti pubblici non economici del 16.2.1999, che ha previsto il nuovo sistema di classificazione del personale, e dell’allegato A, declaratoria delle Aree, al medesimo contratto; falsa applicazione dell’art. 3 del Contratto integrativo di Ente del 30.7.1999 e dell’allegato 1: profili professionali delle attività amministrative del medesimo contratto integrativo. Si sostiene che la Corte territoriale non aveva proceduto ad una corretta interpretazione delle declaratorie generali delle categorie di inquadramento e degli specifici profili professionali. Si deduce che il personale inquadrato nella posizione B2/3, come l’odierna resistente, svolge fasi o fasce di attività nell’ambito di direttive di massima e di procedure predeterminate, ovvero con un limitato grado di autonomia, mentre il personale dell’area C è competente a svolgere tutte le fasi del processo, assume la responsabilità di moduli organizzativi ed esplica funzioni specialistiche; si tratta di un profilo di più alta professionalità, competente a svolgere tutte le fasi del processo, con elevato grado di autonomia e responsabilità, differenziata a seconda dell’eventuale posizione organizzativa affidata, al quale può essere attribuita la gestione di moduli organizzativi e che ottimizza l’impiego delle risorse a disposizione ai fini del raggiungimento degli obiettivi stabiliti, assume le correlate responsabilità riferite al risultato delle attività svolte direttamente e/o nel gruppo.
2. Con il secondo motivo si censura la sentenza per falsa applicazione dell’allegato A, relativo alla declaratoria delle aree del CCNL comparto Enti pubblici non economici del 16 febbraio 1999; falsa applicazione dell’allegato 1, recante i profili professionali delle amministrative del contratto integrativo del 30 luglio 1999; falsa applicazione dell’
A, recante la declaratoria delle aree del CCNL 1 ottobre 2007; falsa applicazione dell’allegato 2: declaratoria delle aree del contratto integrativo del 30 settembre 2009. Si sostiene che la Corte d’appello di Torino aveva erroneamente sussunto la fattispecie, così come accertata con le deposizioni testimoniali rese nel giudizio di primo grado, nella declaratoria delle mansioni dell’area C, anziché in quella dell’area B, discostandosi dei canoni legali interpretativi e cosi incorrendo nel vizio di falsa applicazione delle disposizioni contrattuali. Si deduce che le attività della B., così come ricostruite dai giudici di merito, costituivano “fasi o fasce di attività dell’ambito di direttive di massima di procedure predeterminate”, trattandosi di mansioni relative alla gestione informatica delle posizioni del personale dipendente della sede, con assunzione di responsabilità circoscritta esclusivamente al proprio operato, sottoposto comunque al controllo sistematico del funzionario C3, responsabile della linea di prodotto, e del funzionario C4 (o C5), responsabile dell’intero processo.
3. Con il terzo motivo si denuncia insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 n. 5 cod. proc. civ.) per avere la Corte di appello erroneamente interpretato le deposizioni testimoniali acquisite nel giudizio di primo grado, atteso che nessuno dei testi aveva riferito che la dipendente in questione si fosse occupata, oltre che delle mansioni riconducibili alla gestione del personale, anche delle attività funzionali all’acquisizione di beni e servizi o alla gestione del patrimonio, anche immobiliare, ossia delle altre linee di attività di cui si compone il processo “attività strumentali”. Si deduce, pertanto, che la B. non aveva gestito tutte le fasi dell’intero processo produttivo “attività strumentali”, ma soltanto quelle relative alla gestione del personale. Inoltre, si sottolinea che tale attività era svolta sulla base di direttive e sotto il diretto controllo dei funzionari C3, C4 e C5 e, quindi, con un limitato grado di autonomia e con responsabilità limitata esclusivamente al proprio operato.
4. I motivi, connessi fra loro, non meritano accoglimento.
4.1. Preliminarmente, rileva il Collegio che fattispecie analoghe a quella ora all’esame sono state decise da questa Corte con le sentenze n.9344 del 2014 e nn. 15934 e 12407 del 2013, con cui sono state respinte le censure proposte dall’INAIL avverso le sentenze di appello favorevoli ai lavoratori che, inquadrati nella p.e. B3, avevano rivendicato il trattamento retributivo proprio della p.e. CI relativamente al periodo di adibizione alle mansioni superiori.
5. In via generale, va osservato che il D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 56, ora D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52, pur nelle varie formulazioni susseguitesi nel tempo, recependo una costante norma del pubblico impiego, esclude che dallo svolgimento delle mansioni superiori possa conseguire l’automatica attribuzione della qualifica superiore, ma riconosce il diritto del dipendente che le abbia svolte al corrispondente trattamento retributivo.
Nell’interpretazione fornita dalle Sezioni unite della Corte di cassazione, con la sentenza n. 25837 del 2007, la suddetta norma va intesa nel senso che l’impiegato cui sono state assegnate, al di fuori dei casi consentiti, mansioni superiori ha diritto, in conformità alla giurisprudenza della Corte costituzionale (tra le altre, sentenze n. 908 del 1988; n. 57 del 1989; n. 236 del 1992; n. 296 del 1990), ad una retribuzione proporzionata e sufficiente ai sensi dell’art. 36 Cost.; tale regola trova applicazione sempre che le mansioni superiori siano state svolte, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, nella loro pienezza e sempre che, in relazione all’attività spiegata, siano stati esercitati i poteri ed assunte le responsabilità correlate a dette superiori mansioni (Cass. n. 23741 del 17 settembre 2008 e molte altre successive; ex plurimis, Cass. n. 4382 del 23 febbraio 2010).
5.1. L’applicabilità anche al pubblico impiego dell’art. 36 Cost. nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato è stata affermata più volte dalla Corte costituzionale: cfr. sentenze n. 57 del 1989, n. 296 del 1990, n. 101 del 1995, n. 115 e n. 229 del 2003, nonché ordinanze n. 408 del 1990, n. 337 del 1993 e n. 347 del 1996 (v. pure Cass. n. 13809 del 2015, nn. 6530, 6538, 5288 e 796 del 2014).
6. Tanto premesso, va osservato che nella fattispecie la Corte territoriale ha ritenuto, sulla base delle risultanze della prova testimoniale, che la B. nel periodo considerato avesse svolto tutte le fasi del processo produttivo relativo alle risorse umane, occupandosi della rilevazione delle presenze e delle assenze del personale, del pagamento ai sindacati, dei ticket buoni pasto, del pagamento dei contributi, del controllo dei Cud, del controllo delle cedole fiscali, della preparazione dei cedolini dei medici libero-professionisti, del controllo modello 730, del controllo ed inserimento nella procedura dei modelli 770, del calcolo e delle liquidazione del trattamento di fine servizio, dell’istruttoria delle pratiche relative ai prestiti richiesti dai dipendenti, dell’inserimento di voci e indennità per il calcolo degli stipendi (v. pag. 9-10 della sentenza impugnata). Tale complesso di attività – secondo l’accertamento di fatto dei giudici di merito – esauriva tutto il processo relativo alle risorse umane. E’ stato pure escluso che si trattasse di attività semplici da svolgersi sulla base di procedure rigide e predeterminate. Difatti, la lavoratrice svolgeva un controllo su tutti i dati inseriti nella procedura; poteva rilevarne gli errori o intervenire per inserire dati che la procedura non rilevava; in alcuni casi, effettuava i calcoli senza l’ausilio informatico (per la casistica di tali interventi, v. pagg. 10 e 11 sent.); espletava l’istruttoria delle pratiche relative ai prestiti richiesti dai dipendenti, verificando la documentazione necessaria e la congruità tra il prestito richiesto, lo stipendio e gli anni di servizio prestati; svolgeva le pratiche relative al trattamento di fine servizio; prestava attività formativa e affiancamento nei confronti di altre dipendenti, che venivano da lei addestrate per svolgimento delle mansioni specifiche.
6.1. Orbene, premesso che l’accertamento dell'”intero processo” e delle “fasi” che compongono il processo è questione di merito, implicando un accertamento di fatto relativo all’articolazione delle strutture e dei servizi in cui il dipendente è chiamato ad operare, la relativa indagine ricostruttiva, compiutamente svolta dai giudici di appello, secondo cui il complesso delle attività svolte dalla B. nel periodo dedotto in giudizio integravano l’intero processo produttivo”, quello relativo alla gestione del personale, non è sindacabile dal giudice di legittimità, in quanto assistito da motivazione immune da vizi logici.
6.2. Le censure per vizi di motivazione svolte con il terzo motivo con riguardo a tale accertamento fattuale non vertono su errori di logica giuridica, ma denunciano un’errata valutazione del materiale probatorio (documentale e testimoniale) acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti, con l’inammissibile intento di sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito. Secondo costante giurisprudenza di legittimità, il ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico- formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (v. tra le tante, Cass. n. 27197 del 2011 e n. 24679 del 2013).
6.3. Ugualmente attengono ad accertamento di fatto, rientrante nel sindacato dei giudici di merito, le questioni relative al livello di complessità delle mansioni e alla capacità di gestire tutte le fasi del ciclo produttivo con margini di iniziativa e di autonomia.
6.4. Né l’autonomia del “processo” è destinata a venir meno – come osservato dalla Corte territoriale – per il fatto che più processi di lavoro confluissero all’interno dell’unica Area Attività Strumentali e fossero affidati ad un unico responsabile, un funzionario di livello C4 o C5. Ciò infatti non inficia l’autonomia di ciascun processo di lavoro, ciascuno finalizzato alla produzione di un prodotto o di un servizio.
7. Quanto alla presunta erronea sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta della declaratoria contrattuale, va rilevato che la censura è sostanzialmente incentrata su una diversa ricostruzione degli elementi di fatto ritenuti decisivi. In altri termini, la censura di erronea sussunzione, ossia di erronea applicazione della disciplina contrattuale di riferimento, è priva di fondamento in quanto muove da una lettura interpretativa delle sopra riferite questioni di fatto diversa da quella accreditata dalla Corte territoriale.
7.1. Al riguardo, va ricordato che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. n.7394 del 2010, n. 8315 del 2013, n. 26110 del 2015, n. 195 del 2016). E’ dunque inammissibile una doglianza che fondi il presunto errore di sussunzione – e dunque un errore interpretativo di diritto – su una ricostruzione fattuale diversa da quella posta a fondamento della decisione, alla stregua di una alternativa interpretazione delle risultanze di causa.
8. Alcun vizio logico o giuridico è poi riscontrabile nell’affermazione della Corte territoriale secondo cui la circostanza che l’attività della ricorrente venisse sottoposta alla validazione di un funzionario di livello C3, con assunzione da parte dello stesso della relativa responsabilità verso l’esterno, non impedisce l’identificazione delle mansioni dell’appellata con quelle proprie del profilo Cl, atteso che la responsabilità che caratterizza tale profilo professionale è di rango inferiore, limitata al risultato dell’operato del dipendente nei confronti dell’Istituto e del superiore gerarchico.
9. La decisione impugnata risulta, dunque, corretta sul piano interpretativo del CCNL, con riferimento al quale soltanto è ammissibile la denuncia di violazione diretta ex art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ.. Con riferimento al contratto integrativo di ente, le censure dell’INAIL si risolvono nella mera contrapposizione di una interpretazione diversa da quella criticata, senza una adeguata specifica indicazione concreta della violazione delle regole di ermeneutica e del vizi di motivazione formalmente denunciati (cfr. Cass. n. 23635 del 2010, Cass. n. 6641 del 2012).
10. Per tali assorbenti considerazioni, il ricorso va rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi dell’art. 2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna l’INAIL al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi e in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.
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