CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 marzo 2020, n. 6635
Verbale di accertamento – Contributo per la messa in mobilità dei lavoratori – Mancato versamento – Fallimento – Domanda di ammissione allo stato passivo del credito vantato – Riassunzione immediata – Impresa in regime di affitto d’azienda – Rapporto diretto tra l’onere a carico del datore di lavoro ed il trattamento erogato dall’Istituto assicuratore ai singoli lavoratori
Rilevato che
a seguito di verbale di accertamento del 13.6.2011 gli ispettori dell’Inps contestarono alla “Industria Alimentare M. s.r.l.” il mancato versamento della tassa di ingresso prevista e disciplinata dall’art. 5, comma 4, della legge n. 223 del 1991, vale a dire il contributo per la messa in mobilità dei lavoratori, per un importo di euro 171.730,00;
in conseguenza della dichiarazione di fallimento della predetta società l’Inps depositò presso il Tribunale di Camerino domanda di ammissione allo stato passivo del credito vantato, ma il giudice delegato, su proposta del curatore fallimentare, ne escluse l’insinuazione, dopo aver rilevato che i lavoratori erano stati immediatamente riassunti il giorno successivo al licenziamento da altra impresa che aveva operato nello stesso luogo in regime di affitto d’azienda, tanto che l’Inps non aveva neanche corrisposto l’indennità di mobilità ai singoli lavoratori;
il Tribunale di Macerata (decreto del 4.4.2014) rigettò l’opposizione proposta dall’Inps avverso siffatta esclusione dopo aver osservato che l’istituto di previdenza non aveva provato l’avvenuto pagamento dell’indennità di mobilità ai lavoratori della predetta società fallita, i cui dipendenti erano stati, tra l’altro, riassunti il giorno successivo al loro licenziamento da un’altra ditta;
per la cassazione di tale decisione l’Inps ha proposto ricorso affidato ad un solo motivo, cui ha resistito il Fallimento Industria alimentare M. s.r.l. in liquidazione con controricorso, illustrato da memoria;
Considerato che
1. con un solo motivo l’Inps denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 5, comma 4, della legge 23 luglio 1991, n. 223 e dell’art. 2697 cod. civ (art. 360, n. 3 cod. proc. civ.), ponendo il seguente quesito di diritto : “Se gli oneri posti a carico delle imprese che collocano propri lavoratori in mobilità si estinguano o meno allorchè i lavoratori coinvolti nella procedura di licenziamento collettivo e posti in mobilità siano assunti da altro datore di lavoro che li preleva dalle liste di mobilità (nel caso di specie è incontroverso che i lavoratori licenziati e posti in mobilità dalla società poi fallita sono stati assunti, prelevandoli dalle liste di mobilità, da altra società, che aveva stipulato un contratto di affitto di azienda, il giorno successivo al licenziamento collettivo e alla loro iscrizione presso le predette liste)”;
2. in particolare, l’istituto ricorrente contesta il fatto che il giudice di merito abbia posto in rapporto sinallagmatico la tassa di mobilità con l’indennità di mobilità, rapporto che a dire della difesa dell’ente non sussisterebbe o quanto meno non sarebbe così stringente da consentire al datore di lavoro di esentarsi dal pagamento della tassa di mobilità solo perché i lavoratori dal medesimo licenziati sono stati riassunti da altra società attingendo alle liste di mobilità;
3. l’art. 5, comma 4, della legge n. 223 del 1991 (abrogato dall’art. 2, comma 71, lett. a) della legge 28 giugno 2012, n. 92, a decorrere dall’1.1.2017), ratione temporis vigente all’epoca dei fatti di causa, prevede che “Per ciascun lavoratore posto in mobilità l’impresa è tenuta a versare alla gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali, di cui all’articolo 37 della legge 9 marzo 1989, n. 88, in trenta rate mensili, una somma pari a sei volte il trattamento mensile iniziale di mobilità spettante al lavoratore. Tale somma è ridotta alla metà quando la dichiarazione di eccedenza del personale di cui all’art. 4, comma 9, abbia formato oggetto di accordo sindacale”;
4. questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass. Sez. Lav. n. 14305 del 20.6.2007) che « In tema di contribuzione per la mobilità, in forza dell’art 5, quarto comma, della legge n. 223 del 1991, per il quale l’impresa datrice di lavoro è tenuta a versare alla gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali, in trenta rate mensili, una somma pari a sei volte il trattamento mensile iniziale di mobilità spettante al lavoratore, e del combinato disposto degli art. 7, primo e secondo comma, e 16, primo comma, della stessa legge (ai sensi dei quali alcune categorie di lavoratori non hanno diritto all’indennità), le imprese sono tenute a versare il contributo a loro carico solo con riferimento alle posizioni dei dipendenti posti in mobilità che abbiano diritto all’indennità, ma non con riferimento alle posizioni dei dipendenti posti in mobilità non aventi diritto ad usufruire dell’indennità stessa»;
5. in tale precedente, al quale si intende dare continuità, si è ritenuto che il contributo in esame è riferito singolarmente a ciascuno dei lavoratori posti in mobilità (e non all’insieme di essi considerati nel loro complesso), ed è rapportato come importo al trattamento mensile di mobilità spettante a quel singolo lavoratore. Ciò significa che sussiste un rapporto diretto tra l’onere a carico dell’azienda ed il trattamento erogato dall’Istituto assicuratore ai singoli lavoratori, mentre, quando il lavoratore non ha diritto all’indennità di mobilità non sussiste neppure l’onere a carico dell’azienda;
6. pertanto, se il contributo è riferito al singolo lavoratore, rapportato al suo trattamento mensile iniziale, quello di mobilità non è un contributo di carattere generale, destinato a finanziare l’intera gestione della mobilità, e neppure quella specifica operazione di mobilità posta in essere da quella azienda, ma piuttosto un contributo specifico funzionale al singolo trattamento di mobilità erogato al singolo lavoratore;
7. quindi, la funzione economica dell’istituto del contributo di mobilità è quella di porre a carico dell’azienda, sia pure diluita nel tempo, una parte sensibile dell’onere economico, sia perché si deve tenere conto del fatto che l’azienda datrice di lavoro trae dall’operazione un oggettivo vantaggio nella possibilità di liberarsi (senza oneri maggiori, diretti ed indiretti) della manodopera eccedente, sia per prevenire possibili abusi non giustificati nel ricorso alla procedura di mobilità;
8. sussiste, quindi, un rapporto diretto tra l’onere a carico del datore di lavoro ed il trattamento erogato dall’Istituto assicuratore ai singoli lavoratori, per cui il contributo deve essere riferito ai soli lavoratori che hanno diritto al trattamento da parte dell’Istituto assicuratore, mentre deve essere escluso per quel che riguarda i lavoratori che, pur se posti in mobilità, non hanno diritto alla prestazione assicurativa. Infatti, l’art. 7, comma 1, della stessa legge n. 223/91 prevede che abbiano diritto all’indennità solamente i lavoratori collocati in mobilità ai sensi dell’art. 4, che siano in possesso dei requisiti di cui all’art. 16, comma 1, vale a dire i lavoratori, gli operai, gli impiegati o i quadri, che possano far valere una anzianità aziendale di almeno dodici mesi, di cui almeno sei di lavoro effettivamente prestato, ivi compresi i periodi i periodi di sospensione dal lavoro derivante da ferie, festività ed infortuni, con un rapporto di lavoro di carattere continuativo e comunque non a termine;
9. la motivazione del decreto impugnato è, pertanto, in linea coi principi sopra affermati e, d’altra parte, col proprio ricorso dell’Inps si limita ad affrontare la sola questione di massima relativa alla sussistenza o mendo dell’obbligo di versamento del contributo in esame in caso di assunzione, da parte di altra società stipulante un contratto d’affitto d’azienda, dei dipendenti posti in mobilità, assunzione avvenuta il giorno successivo al licenziamento di questi ultimi;
10. tuttavia, l’Inps omette di censurare le altre rationes decidendi contenute nel decreto impugnato che concorrono alla formazione del convincimento del giudicante di rigettare il ricorso in opposizione dello stesso istituto alla esclusione della insinuazione del suo credito nello stato passivo del fallimento dell’impresa, quali la mancata allegazione degli estremi dei titoli atti a circoscrivere la portata della pretesa contributiva, la mancata prova dell’avvenuto pagamento dell’indennità di mobilità e la ritenuta mancanza di valore probatorio del verbale di accertamento delle infrazioni;
11. ne consegue che il ricorso è inammissibile in quanto la portata limitata dell’impugnazione, comunque contraria ai precedenti di questa Corte, non investe in pieno la decisione di rigetto che è strutturata su altri aspetti fondamentali concernenti la rilevata insussistenza della stessa pretesa di insinuazione del vantato credito nello stato passivo del fallimento;
12. le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza del ricorrente, il quale va altresì condannato, ricorrendone i presupposti, al pagamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 13 del d.p.r. n. 115/2002, se dovuto;
P.Q.M.
dichiara il ricorso inammissibile. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese nella misura di € 8200,00, di cui € 8000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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