CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 novembre 2020, n. 25073

Tributi – Accertamento – Reddito di impresa – Gravi incongruenze nella contabilità riscontrate dall’Ufficio – Accertamento induttivo – Legittimità

Rilevato che

l’Agenzia delle Entrate notificò a M.R.M. un avviso di accertamento per la ripresa del maggior reddito di impresa rispetto a quello dalla stessa dichiarato relativamente alla propria attività di pizzeria e trattoria;

che la M. impugnò detto provvedimento innanzi alla C.T.P. di Caserta la quale, con sentenza 797/14/09, accolse il ricorso;

che avverso tale decisione l’Agenzia propose appello innanzi alla C.T.R. della Campania la quale, con sentenza n. 292/33/12, depositata l’11.12.2012, accolse parzialmente il gravame, (a) ritenendo legittimo, nella specie, il ricorso all’accertamento induttivo (siccome fondato non già sul semplice scostamento dei ricavi dichiarati rispetto a quelli emergenti dallo studio di settore di riferimento, ma sulla valorizzazione di ulteriori incongruenze, quali “mancato acquisto di legna, costo del dipendente, quantità di farina acquistata” – cfr. motivazione, p. 2, terz’ultimo cpv.) e, tuttavia„ (b) riducendo del 45% il maggior reddito da ascrivere alla M., rispetto a quello oggetto di ripresa, “tenendo conto che.. .parte delle pizze prodotte è destinata ai dipendenti, che la farina viene usata per le focacce di accompagnamento agli antipasti e che è stata esercitata quasi esclusivamente vendita da asporto” (cfr. ivi);

che avverso tale decisione la M. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi; si è costituita con controricorso l’Agenzia delle entrate;

considerato

che con il primo motivo parte ricorrente lamenta (in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.) la violazione e falsa applicazione degli artt. 3, commi 181, 182 e 188 della L. n. 549 del 1995, nonché della L. n. 146 del 1988, per avere la C.T.R. erroneamente ritenuto l’avviso di accertamento legittima, nonostante essa contribuente, nel presentare la dichiarazione per l’anno 2005, avesse adeguato i costi risultanti dalle scritture contabili a quelli (maggiori) scaturenti dagli studi di settore, ai fini IRPEF ed IVA, con conseguente illegittimità dell’accertamento induttivo condotto dall’Ufficio;

che il motivo è inammissibile;

che, infatti, la difesa della M. ricorrente lamenta come tale profilo di illegittimità dell’avviso di accertamento impugnato fu (1) esposto nel ricorso di prime cure, ma assorbito dalla declaratoria di nullità dello stesso per vizio della motivazione e, quindi, (2) riproposto in seconde cure, ma non esaminato dalla C.T.R., con conseguente omessa sua  valutazione (cfr. ricorso, p. 5, ult. rigo). Sennonché, premesso che parte ricorrente non ha trascritto il contenuto del ricorso di primo grado, nella parte in cui lo stesso recava l’illustrazione di detta doglianza (con conseguente difetto di specificità del motivo in esame, ex art. 366, comma 1, n. 6, cod. proc. civ., essendo precluso al Collegio di valutare se, quella formulata in appello e trascritta in ricorso alla p. 5 dell’odierno ricorso, fosse – o meno – un motivo di censura nuovo), osserva nondimeno la Corte come l’omessa pronunzia implichi un vizio di carattere processuale – e, in specie, di violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. – denunziabile ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ. e non già, come avvenuto nella specie, di violazione di legge ex art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Peraltro, neppure appare possibile riqualificare nei corretti termini il motivo in esame, difettando in esso qualsivoglia riferimento alla nullità della sentenza quale conseguenza della omessa delibazione di cui si è dato conto (cfr., da ultimo, Cass., Sez. 2, 7.5.2018, n. 10862, Rv. 648018-01);

che con il secondo motivo la M. si duole (in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.) della violazione e falsa applicazione dell’art. 39, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, per avere la C.T.R. ritenuto legittimo l’accertamento induttivo condotto dall’Ufficio nei propri confronti, pur in assenza di “gravi incongruenze”, omettendo di pronunziarsi sulle circostanze addotte da essa contribuente a sostegno della correttezza del proprio operato;

che il motivo è inammissibile;

che va anzitutto evidenziato che – contrariamente a quanto sostenuto in via preliminare dalla difesa della parte ricorrente – emerge chiaramente dalla lettura della motivazione della gravata decisione (cfr. p. 2, quartultimo cpv.) che la C.T.R. ha inequivocabilmente ritenuto legittima l’applicazione, nella specie, dell’istituto disciplinato dall’art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973, non fondando l’avviso di accertamento sul mero scostamento dallo studio di settore quanto, piuttosto, sulle “gravi incongruenze” nella contabilità riscontrate dall’Ufficio: in tal modo, dunque, il giudice d’appello si è attenuto al consolidato principio affermato da questa Corte (Cass., Sez. 5, 26.9.2014, n. 20414, Rv. 632679-01), alla cui stregua l’Amministrazione finanziaria non è legittimata a procedere all’accertamento induttivo, al di fuori delle ipotesi tipiche previste dagli artt. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e art. 54 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, allorché si verifichi un mero scostamento non significativo tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dagli studi di settore di cui all’art. 62 bis del d.l. 30 agosto 1993, n. 331, conv. con modif. dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427, potendo al contrario ricorrere a tale strumento quando venga ravvisata una “grave incongruenza” secondo la previsione del successivo art. 62- sexies, trovando riscontro la persistenza di tale presupposto – nel quadro di una lettura costituzionalmente orientata al rispetto del principio della capacità contributiva – anche dall’art. 10, comma 1, della legge 8 maggio 1998, n. 146, il quale, pur non contemplando espressamente il requisito della grave incongruenza, compie un rinvio recettizio al menzionato art. 62-sexies del d.l. n. 331 del 1993;

che, tanto doverosamente premesso, osserva il Collegio come, in realtà, il motivo (rubricato in termini di vizio ex art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., sebbene poi stigmatizzante un’omissione di pronunzia ex art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ. – cfr. p. 8 del ricorso) disveli un vizio motivazionale, mirando la contribuente ad una rilettura del materiale istruttorio, volta a dimostrare l’infondatezza delle circostanze sottese (dall’Ufficio e) dalla C.T.R. alla ritenuta inattendibilità delle risultanze contabili, con conseguente insussistenza delle “gravi incongruenze” sottese all’accertamento operato nei propri confronti; sennonché, con il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito poiché la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità (Cass., Sez. 6-5, 7.12.2017, n. 29404, Rv. 646976-01);

che con il terzo motivo, infine, parte ricorrente lamenta (in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ.), la violazione degli artt. 132, n. 4 e 156, comma 2, cod. proc. civ., nonché dell’art. 111 Cost., quanto alla insufficienza e contraddittorietà della motivazione della impugnata sentenza in relazione all’operata riduzione, nella – si opina – insufficiente misura del 45%, del maggior reddito ascritto alla M. e suscettibile di ripresa;

che il motivo (da correttamente ricondurre, secondo la stessa prospettazione operatane da parte ricorrente, al vizio ex art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ.) è inammissibile, avendo ad oggetto una censura – l’insufficienza e la contraddittorietà della motivazione in parte qua – non ulteriormente sottoponibile al vaglio di questa Corte, trattandosi di impugnazione avente ad oggetto una sentenza depositata l’11.12.2012, rispetto alla quale trova dunque applicazione il novellato art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. (Cass., Sez. 6-3, 25.9.2018, n. 22598, Rv. 650880-01);

Ritenuto, in conclusione, che il ricorso debba essere rigettato, con condanna della M.R.M. al pagamento, in favore dell’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore p.t., al pagamento, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo;

P.Q.M.

rigetta il ricorso. Per l’effetto, condanna M.R.M. al pagamento, in favore dell’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore p.t., delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in € 3.000,00 (tremila/00) per compenso professionale, oltre spese prenotate a debito.

Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte di M.R.M. dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.