CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 ottobre 2018, n. 24828
Lavoro straordinario – Differenze retributive – Concetto di “lavoro effettivo” – Tempo impiegato per recarsi fuori sede – Misurazione dell’orario di lavoro
Osserva
A.M.E., residente in S., appellava la sentenza in data 21 febbraio 2012, con la quale il giudice del lavoro di Lecce aveva respinto la sua domanda nei confronti del convenuto M.M., titolare della omonima ditta elettromeccanica con sede in S., diretta ad ottenere differenze retributive, anche per lavoro straordinario, in ragione di complessivi euro 90.032,68.
L’interposto gravame veniva respinto dalla Corte d’Appello di Lecce con sentenza n. 1024 in data 4 marzo – 19 aprile 2013, notificata il 20 maggio 2013, secondo cui, come rilevato dal primo giudicante, l’attività espletata dall’attore, consistita nella sostituzione delle lampade della pubblica illuminazione non funzionanti ed in lavori di piccola manutenzione presso i comuni di UGENTO di VALENZANO, non era legata a orari ed era gestita autonomamente dallo stesso A. in relazione allo scarso impegno di tempo che comportava. Di conseguenza, andava confermato che l’eventuale tempo trascorso dei suddetti comuni, soltanto in parte dedicato ad effettive prestazioni di lavoro, (NON) potesse essere qualificato come lavoro straordinario neanche sotto l’aspetto del lavoro di attesa. Anche per gli interventi urgenti la mancata specificazione degli stessi, soltanto genericamente provati nella loro episodicità, escludeva che potessero qualificarsi e compensarsi come lavoro straordinario. Né poteva affermarsi che durante tutto il tempo trascorso dei suddetti comuni l’appellante fosse comunque a disposizione del datore di lavoro. Infatti, l’autonomia nell’organizzazione del lavoro sulla base di una generica disposizione di risultato (sostituzione delle lampade difettose ed eventuale piccola manutenzione) non comportava che l’appellante fosse comunque e continuativamente a disposizione del datore di lavoro, assente e lontano. Infine, anche il tempo necessario per recarsi fuori sede poteva farsi rientrare nel normale orario di lavoro, tenuto conto che l’A. non era obbligato a passare dalla sede aziendale all’inizio e al termine della giornata lavorativa, anche perché custodiva presso il proprio domicilio dell’automezzo di servizio.
Avverso l’anzidetta pronuncia di appello ha proposto ricorso per cassazione M.E. A. (per il quale poi, giusta la memoria datata 14 novembre 2016, si è costituito l’avvocato L.M. come da procura speciale a margine di tale atto in sostituzione del defunto avvocato G.G.) con atto notificato il 18 luglio 2013, affidato a quattro motivi, cui ha resistito M.M. mediante controricorso del 30 luglio 2013.
Memoria illustrativa è stata depositata per il solo ricorrente.
Non risulta in atti depositata alcuna requisitoria dal P.M. in sede.
Considerato che
con il 1° motivo di ricorso è stata denunciata la violazione dell’articolo 1 decreto legislativo 8 aprile 2003 n. 66, in attuazione della direttiva comunitaria 93/104/CEE, secondo cui si intende per orario di lavoro qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni, eliminando quindi dall’ordinamento il concetto di lavoro effettivo, di cui alla previgente disciplina ex articolo 1 del regio decreto n. 692 – 1923. Pertanto, la Corte d’Appello aveva errato nel ritenere che il tempo trascorso presso i suddetti comuni, soltanto in parte dedicato ad effettive prestazioni, non potesse qualificarsi come lavoro straordinario neanche sotto l’aspetto del lavoro di attesa. Infatti, esso ricorrente durante tutto il tempo era stato costantemente a disposizione di parte datoriale senza possibilità di scelta del luogo in cui stare durante le ipotizzate soste e/o attese. Durante il tempo trascorso al lavoro nei comuni di Valenzano e di Ugento egli si era trovato lontano dal suo ambiente familiare e sociale ed aveva, quindi, beneficiato di una minore libertà di gestire il tempo in cui non era stata richiesta la sua attività professionale, all’uopo citando Corte di Giustizia della Comunità Europea 9 settembre 2003 nella causa C-151/02;
con il 2° motivo è stata lamentata la violazione dell’articolo 1 del suddetto decreto legislativo n. 66/2003, risultando errata l’affermazione della Corte territoriale, ad avviso della quale neanche il tempo necessario per recarsi fuori sede poteva farsi rientrare nel normale orario di lavoro, per il fatto che il ricorrente non fosse tenuto a passare dalla sede aziendale, anche perché custodiva presso il suo domicilio l’automezzo di servizio. Ciò contrastava con l’orientamento giurisprudenziale, secondo cui il tempo impiegato per raggiungere il luogo di lavoro rientrava nella normale attività lavorativa, sicché andava sommato al normale orario come lavoro straordinario, risultando lo spostamento funzionale rispetto la prestazione (Cass. lav. 11 aprile 2003 numero 5775, nonché 14 marzo 2006 n. 5496, secondo cui analogo carattere doveva riconoscersi in generale in tutte le ipotesi in cui il lavoratore fosse obbligato dal datore di lavoro a risiedere in un determinato, sicché lo spostamento da questa per lo svolgimento delle ordinarie attività lavorative è senz’altro computabile nell’orario di lavoro).
Era evidente come nella specie il tempo di viaggio per raggiungere i cantieri di VALENZANO e di UGENTO rivestiva carattere funzionale e influiva sull’orario di lavoro, il cui inizio coincideva con la partenza da S. per raggiungere i cantieri (richiamando sul punto Cass. 9 dicembre 1999 n. 13804). Del tutto ininfluente risultava la circostanza che l’attore non fosse tenuto a passare dalla sede aziendale, avuto riguardo al fatto che dalle deposizioni testimoniali e dalla produzione dei dischi cronotachigrafi emergeva che egli giungeva presso i comuni di destinazione alle ore le 7:30 – 8.00 e che andava via non prima delle 16:00, di modo che, tenuto conto delle distanze per poter raggiungere tali località egli doveva partire da S. alle ore le 05.45 quando era diretto a Valenzano, e alle 07.00 quando doveva recarsi ad Ugento. Il ritorno avveniva non prima delle ore 16:30, ovvero del 18:00. In altre parole, la giornata di lavoro risultava della durata minima di ore 9:30 nel caso di prestazioni in Ugento e di 12:30 in caso di lavoro a Valenzano. Ritenere dunque che il ricorrente non avesse diritto a vedersi retribuito come orario di lavoro il tempo necessario per raggiungere il posto di lavoro risultava del tutto irragionevole, considerato che lo spostamento era funzionale e necessario a rendere la prestazione. Peraltro, l’interessato, dovendosi trovare entro un certo orario presso i cantieri di destinazione, non aveva alcuna libertà di gestire altrimenti il proprio tempo;
che con il 3° motivo, formulato ex art. 360 n. 3 c.p.c. il ricorrente si è doluto della violazione e falsa applicazione dell’articolo 2094 c.c., nonché di applicazione dei principi giurisprudenziali in materia di contratti di lavoro subordinato. Avuto riguardo a quanto dedotto da parte convenuta in 1° grado con la sua memoria di costituzione e risposta, nonché alle previsioni della contrattazione collettiva (mancava qualsiasi cenno a presunte libertà di orario risultato da raggiungere), risultava incomprensibile l’affermazione della Corte territoriale, secondo cui il ricorrente avrebbe agito in autonomia e sulla base di una generica disposizione del risultato, trattandosi di lavoratore subordinato, perciò tenuto ad un’obbligazione di mezzi, non già di risultato. Da nessun elemento era dato evincere che il ricorrente non fosse tenuto esclusivamente agli obblighi propri del lavoratore subordinato inquadrato nel 3° livello; con il 4° motivo, ex art. 360 n. 5 c.p.c. è stato denunciato l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che era stato oggetto di discussione tra le parti. Infatti, a seguito di ordinanza emessa dal giudice di primo grado in data 21 novembre 2011, invitando le parti a fornire elementi di precisazione (date, durate e destinazione dei viaggi) circa le copie dei cronotachigrafi in atti, entrambi i contendenti avevano prodotto note scritte riportanti la lettura dei dischi, da cui emergeva che l’orario di lavoro giornaliero era stato costantemente e notevolmente superiore a quello delle otto ore contrattualmente stabilito. La circostanza, inoltre, era stata confermata da tutti i testi escussi, i quali avevano concordemente indicato l’orario di inizio e di termine dell’attività lavorativa. L’esame di tali fatti, certamente decisivi per il giudizio, era stato però del tutto omesso, tanto dal giudice di primo grado quanto da quello di appello;
che il ricorso appare sufficientemente formulato ai sensi degli artt. 366 e 360 c.p.c. in relazione alle anzidette censure, segnatamente per le prime tre, meritevoli di accolgimento, per quanto di ragione, nei seguenti termini (non ravvisandosi, per altro verso, omissioni rilevanti ex art. 369 del codice di rito);
invero, ciò premesso, le doglianze, tra loro connesse e perciò esaminabili congiuntamente, appaiono fondate a fronte delle scarne argomentazioni svolte con la pronuncia qui impugnata, peraltro palesemente errate in diritto anche laddove, pur essendo pacifica la natura subordinata del rapporto di lavoro in questione (Iocatio operarum), si assume tuttavia una non meglio indicata autonomia organizzativa sulla base di una disposizione di risultato (locatio operis), così dimenticando che l’obbligazione a carico del prestatore di lavoro subordinato ex art. 2094 e ss. c.c. è di mezzi, non già di risultato (cfr. tra le altre Cass. lav. n. 17337 – 11/10/2012, secondo cui il lavoratore subordinato, anche se inserito nella categoria dei quadri, è tenuto ad una obbligazione di mezzi e non di risultato. Ne consegue che il mancato raggiungimento di un risultato finale da parte del dipendente non ha rilevanza disciplinare, ma può integrare – ove il datore dimostri il notevole inadempimento del lavoratore, mediante la prova di elementi tali che consentano al giudicante di mettere a confronto il grado di diligenza normalmente richiesto per la prestazione lavorativa con quello effettivamente usato dal lavoratore – i presupposti del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo);
che il corrispettivo dovuto, ossia la retribuzione spettante al lavoratore, è nella specie pacificamente da commisurarsi alla durata temporale (v., quindi, gli artt. 2099, 2107 e 2108 c.c.) della messa a disposizione delle energie lavorative (non risultando in atti in alcun modo pattuito il cottimo, né tantomeno è stata in qualche modo allegata una eventuale partecipazione nei sensi di cui all’ultimo comma del suddetto art. 2099);
che non risulta, d’altro canto, contestata alcuna specifica inadempienza (assenze e/o ritardi) dal convenuto al proprio dipendente in ordine alle conseguenti obbligazioni quotidiane, sicché deve presumersi la relativa prestazione in relazione alla sua necessaria effettiva durata (peraltro da accertarsi in punto di fatto a cura del competente giudice di merito), prestazione che di conseguenza va remunerata in misura corrispondente al tempo complessivo di messa a disposizione delle energie lavorative occorrenti finalizzata allo svolgimento dei compiti più strettamente operativi previsti (sostituzione delle lampade e piccola manutenzione); che in proposito appare priva di rilevanza la circostanza che l’automezzo di servizio (evidentemente di proprietà datoriale) si trovasse nella immediata disponibilità del lavoratore, presso il suo domicilio, fatto che anzi dimostra come l’inizio della prestazione oraria avesse luogo, direttamente, proprio con il mettersi alla guida del veicolo, perciò senza bisogno di recarsi presso la sede aziendale, al fine di spostarsi in comuni diversi (sia dalla dimora del lavoratore, sia dal domicilio del suo datore) per rimanervi a disposizione; che ai fini della misurazione dell’orario di lavoro, l’art. 1, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 66 del 2003, attribuisce un espresso e alternativo rilievo non solo al tempo della prestazione effettiva, ma anche a quello della disponibilità del lavoratore e della sua presenza sui luoghi di lavoro [Cass. lav. n. 20694 del tre giugno / 14 ottobre 2015, secondo cui, di conseguenza, i tempi di attesa degli autisti, durante le operazioni di carico e scarico merci, vanno considerati di lavoro effettivo e come tali da retribuirsi: <<… A tal fine è appena il caso di ricordare che già l’art. 10 R.D. n. 1955/23 comprendeva nell’ambito della giornata massima di lavoro – e, quindi, considerava come lavoro vero e proprio – anche il tempo necessario “per tutti gli altri servizi per ultimazione e lo sgombero dei prodotti ed in genere per tutti gli altri servizi indispensabili ad assicurare ripresa e cessazione del lavoro”. E i tempi di attesa degli autisti durante le operazioni di carico e scarico merci servono proprio per assicurare ripresa e cessazione del lavoro.
Ora il d.l. vo 08.04.03 n. 66, che in attuazione della direttiva comunitaria n. 93/104/CE ha sostituito la precedente disciplina riaffermandone e specificandone i contenuti, definisce, sulla scorta delle indicazioni comunitarie (art. 2, par. 1, citata direttiva), l’orario di lavoro come “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue finzioni” (art. 1, comma 2, lett. a). Ciò vuol dire che il criterio di misurazione dell’orario di lavoro risulta composito, assumendo espresso e alternativo rilievo non solo il tempo della “prestazione effettiva”, ma anche quello della “disponibilità del lavoratore” e quello della sua “presenza sui luoghi di lavoro”. Ne deriva che pure i lavori discontinui o di semplice attesa e custodia, anche alla luce del d.lgs. 08.04.03 n. 66, quali enumerati nella tabella allegata al R.D. n. 2657/23 e successive modifiche ed integrazioni, sono a tutti gli effetti compresi nella nozione di orario di lavoro di cui all’art. 1, comma 2, lett. a), stesso d.lgs. n. 66/03, id est costituiscono lavoro effettivo e come tale da retribuirsi (e non già da risarcirsi). …>>.
Cfr. altresì Cass. lav. n. 5023 del 02/03/2009, secondo cui il criterio distintivo tra riposo intermedio, non computabile ai fini della determinazione della durata del lavoro, e semplice temporanea inattività, computabile, invece, a tali fini, e che trova applicazione anche nel lavoro discontinuo, consiste nella diversa condizione in cui si trova il lavoratore, il quale, nel primo caso, può disporre liberamente di se stesso per un certo periodo di tempo anche se è costretto a rimanere nella sede del lavoro o a subire una qualche limitazione, mentre, nel secondo, pur restando inoperoso, è obbligato a tenere costantemente disponibile la propria forza di lavoro per ogni richiesta o necessità. Nella specie è stato escluso che fossero periodi di riposo intermedi quelli durante i quali, nel corso di un viaggio, l’autista di un autotreno, sprovvisto di cabina, lasciava la guida al compagno, trattandosi, in tal caso, non di un periodo di riposo intermedio vero e proprio, bensì di semplice temporanea inattività.
V. ancora Cass. lav. n. 13466 del 29/05/2017, secondo cui ai fini della misurazione dell’orario di lavoro, l’art. 1, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 66 del 2003 attribuisce un espresso ed alternativo rilievo non solo al tempo della prestazione effettiva ma anche a quello della disponibilità del lavoratore e della sua presenza sui luoghi di lavoro; di conseguenza, era da considerarsi orario di lavoro l’arco temporale comunque trascorso dal lavoratore medesimo all’interno dell’azienda nell’espletamento di attività prodromiche ed accessorie allo svolgimento, in senso stretto, delle mansioni affidategli, ove il datore di lavoro non provi che egli sia ivi libero di autodeterminarsi ovvero non assoggettato al potere gerarchico. In applicazione di tale principio veniva considerato orario di lavoro il tempo impiegato dai dipendenti di una acciaieria per raggiungere il posto di lavoro, dopo aver timbrato il cartellino marcatempo alla portineria dello stabilimento, e quello trascorso all’interno di quest’ultimo immediatamente dopo il turno];
che, pertanto, nei sensi anzidetti il ricorso va accolto, specificamente in relazione ai primi tre motivi, restando così evidentemente assorbito il quarto, siccome inerente ad accertamento fattuale (le risultanze cronotachigrafiche), che va demandato alla competente Corte di merito, in sede di rinvio, ex artt. 384 c.p.c., la quale, uniformandosi ai richiamati principi di diritto, provvederà poi in concreto, alla stregua delle acquisite risultanze probatorie e compiuta ogni altra attività istruttoria ritenuta utile, a stabilire precisamente la durata oraria complessiva dell’attività lavorativa da retribuire, nonché, all’esito, pure al regolamento delle spese processuali, comprese quelle di questo giudizio di legittimità ex art. 385 del codice di rito; avuto riguardo, infine, all’esito positivo dell’impugnazione qui proposta, non ricorrono i presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115/2002 circa il raddoppio del contributo unificato.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione. Cassa, per l’effetto, l’impugnata sentenza e Rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Bari.
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