CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 ottobre 2019, n. 25364

Cartella esattoriale – Imprese industriali degli enti pubblici – Pagamento in favore dell’Inps di contributi per CIGO, CIGS e mobilità

Rilevato che

la Corte di appello di Bologna, con sentenza n. 357 del 2013, ha confermato la sentenza del Tribunale di Parma di rigetto dell’opposizione proposta da E.P. s.r.L avverso la cartella esattoriale con la quale le era stato ingiunto il pagamento in favore dell’INPS di contributi per CIGO, CIGS e mobilità, oltre sanzioni e interessi; per la cassazione della decisione E.P. s.r.L ha proposto ricorso, affidato a due motivi;

l’INPS, anche quale procuratore di S.C.C.I. s.p.a., ha resistito con tempestivo controricorso;

Equitalia Centro s.p.a., è rimasta intimata;

Considerato che

con il primo motivo di ricorso è denunciato l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c., consistente nella necessaria continuità del servizio pubblico erogato dalla ricorrente, con conseguente impossibilità di accedere agli “ammortizzatori sociali” di cui alla contribuzione pretesa dall’Inps;

con il secondo motivo di ricorso, denunziando plurime violazioni di norme di diritto, la società ricorrente ha censurato la decisione per avere affermato la sussistenza dell’obbligo contributivo per CIGS e CIGO. Ricostruita la evoluzione normativa in tema di modalità di gestione dei servizi pubblici da parte degli enti locali, rilevato che in base al disposto della L. n. 448 del 2001, art. 35, detti enti, per la gestione di servizi, reti, impianti e beni sono tenuti ad avvalersi di soggetti allo scopo costituiti nella forma di società di capitali con la partecipazione maggioritaria degli enti locali, anche associati, ha sostenuto che la partecipazione di soggetti pubblici al capitale sociale, anche solo maggioritario, comportava che essa ricorrente dovessero essere annoverate nell’ambito delle “imprese industriali degli enti pubblici, anche se municipalizzate”, esonerate, in base al disposto del D.C.P.S. n. 869 del 1947, art. 3, all’applicazione delle norme sull’integrazione dei guadagni degli operai dell’industria. Ha quindi dedotto il vizio di motivazione della decisione impugnata con riferimento alle allegate caratteristiche di essa società, che in ragione del peculiare oggetto (gestione di pubblico servizio), della presenza di capitale pubblico, della “assoluta dominanza” dell’ente pubblico, dell’assoggettamento al regime di concessione pubblica non si prestava ad essere inquadrata, come invece avvenuto nella decisione impugnata, nell’ambito della normale società per azioni di diritto comune. Con riguardo all’indennità di mobilità, poi, è denunciata la violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 16, commi 1 e 2 per avere la decisione affermato la sussistenza dell’obbligo di pagamento del contributo di mobilità richiamando le argomentazioni svolte sostegno del motivo precedente in merito alla presenza di capitale pubblico, alla “dominanza” dell’ente pubblico, alla natura del servizio espletato, per sostenere che esse ricorrenti non rientravano nel campo di applicazione della disciplina dell’intervento straordinario di integrazione salariale di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 16, ed erano pertanto sottratte alla contribuzione per mobilità;

le censure, da valutarsi congiuntamente in quanto connesse, sono manifestamente infondate secondo il consolidato orientamento di questa Corte (v., proprio in relazione alla ricorrente, tra le altre, Cass. n. 14847/2009, n. 5816/2010, n. 19087, n. 20818, n. 20819, n. 22318, n. 27513/2013, n. 14089 e n. 13721/2014; n. 13426/2018) in tema di contribuzione previdenziale, le società a capitale misto, ed in particolare le società per azioni a prevalente capitale pubblico, aventi ad oggetto l’esercizio di attività industriali sono tenute al pagamento dei contributi previdenziali previsti per la cassa integrazione guadagni e la mobilità, non potendo trovare applicazione l’esenzione stabilita per le imprese industriali degli enti pubblici, trattandosi di società di natura essenzialmente privata, finalizzate all’erogazione di servizi al pubblico in regime di concorrenza, nelle quali l’amministrazione pubblica esercita il controllo esclusivamente attraverso gli strumenti di diritto privato, e restando irrilevante, in mancanza di una disciplina derogatoria rispetto a quella propria dello schema societario, la mera partecipazione – pur maggioritaria, ma non totalitaria – da parte dell’ente pubblico;

è stato in particolare precisato che la forma societaria di diritto privato è per l’ente locale la modalità di gestione degli impianti consentita dalla legge e prescelta dall’ente stesso per la duttilità dello strumento giuridico, in cui il perseguimento dell’obiettivo pubblico è caratterizzato dall’accettazione delle regole del diritto privato e che la finalità perseguita dal legislatore nazionale e comunitario nella promozione di strumenti non autoritativi per la gestione dei servizi pubblici locali è specificamente quella di non ledere le dinamiche della concorrenza, assumendo rilevanza determinante, in ordine all’obbligo contributivo, il passaggio del personale addetto alla gestione del servizio dal regime pubblicistico a quello privatistico (Cass. n. 20818/2013, Cass. n. 27513/2013);

le argomentazioni dell’odierna ricorrente ripropongono questioni già esaminate e disattese dai precedenti giurisprudenziali richiamati ai quali, pertanto, va data continuità (cfr. in termini Cass. 13426 del 2018 nonché Cass. n. 25394 del 2014), né risultano decisive le argomentazioni formulate per contrastare la ricostruzione fattuale assunta dalla Corte territoriale;

resta da aggiungere che le suesposte conclusioni non possono essere scalfite né dall’art. 10, d.lgs. n. 148/2015, il quale – per quanto qui interessa – ha espressamente previsto l’assoggettamento alla cassa integrazione (e alla relativa contribuzione) delle imprese industriali aventi ad oggetto la «produzione e distribuzione dell’energia, acqua e gas», dal momento che la sua natura innovativa rispetto al quadro ordinamentale già esistente è già stata espressamente disconosciuta dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. in tal senso Cass. nn. 9816 del 2016, 26016 e 26202 del 2015), né a fortiori dall’art. 1, comma 309, L n. 208/2015, il quale, nel far salvo dal novero delle abrogazioni previste dall’art. 46, d.lgs. n. 148/2015, l’art. 3, d.l.C.p.S. n. 869/1947 (a norma del quale «sono escluse dall’applicazione delle norme sulla integrazione dei guadagni degli operai dell’industria […] le imprese industriali degli enti pubblici, anche se municipalizzate, e dello Stato»), ha semmai confermato la voluntas legis di escludere dall’arca di operatività delle disposizioni concernenti l’integrazione salariale soltanto quei soggetti che possano qualificarsi come “imprese industriali dello Stato o di altri enti pubblici”, tra le quali, per le ragioni anzidette, non possono figurare le imprese gestite in forma di società a partecipazione pubblica (così Cass. nn. 7332 e 8704 del 2017, dove il richiamo a Cass. S.U. nn. 26283 del 2013 e 5491 del 2014); il ricorso è, dunque, infondato e deve essere rigettato; la regolazione delle spese processuali in favore del controricorrente, liquidate come da dispositivo, segue la soccombenza; nulla per le spese nei confronti della parte rimasta intimata.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in € 15.000,00 per compensi, oltre ad € 200,00 per esborsi, spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge, in favore dell’Inps.

Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.lgs. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.