CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 settembre 2019, n. 22469
Tributi – IRAP – Promotore finanziario – Impresa familiare – Effettivo e continuativo apporto fornito dalla moglie – Attribuzione del reddito di impresa nella misura del 49 per cento – Assoggettamento ad imposta
Rilevato che
L’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi, avverso la sentenza in data 7 novembre 2017 con la quale la Commissione Tributaria Regionale delle Marche, in accoglimento dell’appello proposto da S.V., ha accolto il ricorso proposto dal contribuente contro il silenzio rifiuto formatosi sull’istanza di rimborso dell’IRAP versata per gli anni 2005-2008. Riteneva la CTR che erroneamente l’Agenzia delle Entrate aveva fatto discendere dalla circostanza che la moglie del contribuente fosse collaboratrice in forma associata nella misura del 49% dell’impresa familiare la prova della sussistenza del presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione, laddove, in difetto di specifica prova contraria da parte dell’Ufficio, la particolarità dell’attività di promotore finanziario svolta dal contribuente relegava la collaborazione del coniuge – priva di tale qualifica – ad un ambito meramente esecutivo, quale quello di segretaria o affine.
Resiste con controricorso il contribuente.
Sulla proposta del relatore ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc.civ. risulta regolarmente costituito il contraddittorio camerale.
Il contribuente ha depositato memoria.
Considerato che
Con il primo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 2, comma 1, e 3, comma 1, lett. c) del d.lgs. n. 446/1997, per avere la CTR erroneamente escluso la sussistenza del presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione in presenza dell’effettivo e continuativo apporto fornito all’impresa familiare dalla moglie del contribuente, alla quale era attribuito un reddito di impresa nella misura del 49%, soglia massima prevista dalla legge.
Con il secondo motivo si deduce, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in riferimento alla dedotta partecipazione al reddito d’impresa nella misura del 49% della collaboratrice familiare.
Preliminarmente vanno esaminate le eccezioni di inammissibilità del ricorso per dedotto contrasto con il disposto degli artt. 360 e 360 bis cod. proc. civ.
Esse sono infondate, in quanto, per un verso, non è dato nella specie ravvisare un apprezzamento in fatto del giudice di appello insindacabile in questa sede, e, per altro verso, la decisione impugnata non si inserisce nell’ambito di un orientamento nomofilattico di legittimità.
I due motivi di ricorso, esaminabili congiuntamente, sono fondati.
Va premesso che «in tema di IRAP, l’attività svolta dal promotore finanziario non è qualificabile automaticamente come attività di impresa, di per sé assoggettata ad imposta, ma, anche alla stregua dell’interpretazione costituzionalmente orientata fornita dalla corte costituzionale con la sentenza n. 156 del 2001, richiede una valutazione complessiva, da parte del giudice di merito, degli elementi di fatto offerti dalla fattispecie concreta, poiché essa, a norma dell’art. 31 d.leg. 24 febbraio 1998 n. 58, può essere svolta «in qualità di dipendente, agente o mandatario» e, quindi, può assumere connotati variabili tra la figura del lavoro subordinato dipendente, esente da imposta, quella del lavoro autonomo, assoggettabile ad imposta solo in presenza di un’autonoma organizzazione, e quella dell’attività d’impresa, pacificamente sottoposta ad imposizione (Cass. n. n. 8120 del 2012).
La giurisprudenza di legittimità è poi ferma nel ritenere che «L’IRAP afferisce non al reddito o al patrimonio in sé, ma allo svolgimento di un’attività autonomamente organizzata per la produzione di beni e servizi, sicché ne è soggetto passivo pure l’imprenditore familiare ma non anche i familiari collaboratori atteso che la collaborazione dei partecipanti integra quel quid pluris dotato di attitudine a produrre una ricchezza ulteriore (o valore aggiunto) rispetto a quella conseguibile con il solo apporto lavorativo personale del titolare ed è, quindi, sintomatica del relativo presupposto impositivo» (Cass. n. 12616 del 2016; nello stesso Cass. n. 24060 del 2016, in motivazione).
Va, inoltre, rilevato che questa Corte, in fattispecie analoga a quella in esame, ha cassato la decisione della commissione tributaria regionale che aveva escluso la sussistenza del requisito impositivo dell’autonoma organizzazione nell’attività svolta dal contribuente di agente di commercio sul presupposto che questi corrispondesse a terzi, occasionalmente, compensi di non rilevante entità, senza considerare l’entità delle quote corrisposte ai collaboratori facenti parte dell’impresa familiare (Cass. n. 16742 del 2017).
Nel caso di specie, la CTR, dopo aver osservato che, ai fini della sussistenza del presupposto impositivo occorre «la concreta dimostrazione che l’apporto del collaboratore familiare abbia effettivamente incrementato il fatturato aziendale», ha affermato che «in difetto di specifica prova contraria, la particolarità dell’attività di promotore finanziario dell’appellante (come sopra spiegato) relega la collaborazione della moglie – priva di quella specifica qualifica ma semplicemente legata al medesimo in un’impresa familiare – ad un ambito meramente esecutivo, quale quello di segretaria o affine».
Siffatta motivazione si pone in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato, essendo essa fondata sulla presunzione che la collaborazione del partecipante all’impresa familiare, il cui titolare svolga l’attività di promotore finanziario, si collochi in un ambito meramente esecutivo.
Per contro, dai quadri RF relativi gli anni d’imposta in questione, riportati dall’Agenzia delle entrate in ricorso in ossequio al principio di autosufficienza, risulta che sono state corrisposte alla collaboratrice familiare quote pari ad € 93.393,00 per il 2005, € 114.617,00 per il 2006, € 121.997,00 per il 2007 ed € 40.410,00 per il 2008. Tali considerevoli spese si manifestano incompatibili con l’insussistenza del presupposto impositivo dell’autonoma organizzazione, sì da collocare, nel caso di specie, l’attività svolta dal promotore finanziario nell’ambito dell’area di assoggettabilità all’imposta.
Alla stregua di tali considerazioni, idonee a superare i rilievi difensivi svolti dal controricorrente anche in memoria, il ricorso va dunque accolto e la sentenza impugnata cassata.
Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, ai sensi dell’art. 384 cod. proc. civ., la causa può essere decisa nel merito, con il rigetto del ricorso introduttivo del contribuente.
Le spese dei gradi di merito possono essere compensate tra le parti, mentre le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo del contribuente.
Compensa tra le parti le spese dei gradi di merito; condanna il contribuente al pagamento, in favore dell’Agenzia delle entrate, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 4.100,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.