CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 settembre 2019, n. 22494
Rapporto di lavoro – Dimissioni per motivi personali – Omessa retribuzione – Determinazione del quantum del TFR
Rilevato che
1. Previo ricorso al Tribunale di Padova F. S. ne otteneva il decreto n. 249/2008, in data 23.4.2008, con il quale veniva ingiunto alla R. srl di pagargli la somma di euro 19.234,01 per retribuzione non corrisposta, permessi, ferie non godute e TFR: e ciò a seguito delle dimissioni rassegnate il 15.10.2007 “per motivi personali” in relazione alle quali non erano stati erogati i relativi importi.
2. Il provvedimento monitorio veniva opposto dalla società che chiedeva compensarsi il credito del S. con il controcredito risarcitorio, non inferiore ad euro 100.000,00, che azionava in via riconvenzionale, per due ragioni: a) per avere scoperto, verificando i conti dopo la cessazione del rapporto di lavoro, che vi era stata una spesa media di carburante, autorizzata dal S., nel 2007, molto rilevante; b) per avere sempre il S. autorizzato “sovrafatturazioni” o “pagamenti” per operazioni inesistenti o parzialmente inesistenti a terzi per la manutenzione di autoveicoli aziendali nel periodo tra marzo 2007 e settembre 2007.
3. Con sentenza non definitiva n. 651 del 2010 il giudice del lavoro del Tribunale di Padova condannava la R. srl al pagamento della minor somma (rispetto al decreto ingiuntivo revocato) di euro 18.732,27 e rimetteva la causa in istruttoria per la determinazione del quantum del TFR; rigettava, invece, la domanda di risarcimento del danno rilevando che le risultanze probatorie non consentivano di ritenere provati gli assunti della società opponente. Con successiva sentenza definitiva n. 667 del 2010 il Tribunale sopra citato condannava la società al pagamento della somma residua di euro 501,74.
4. La Corte di appello di Venezia, decidendo i gravami proposti dalla società avverso le due pronunce, in parziale riforma di quella non definitiva condannava F. S. al pagamento della somma di euro 35.000,00, a titolo di risarcimento danni, con gli interessi legali dalla data della domanda, ritenendo che una diversa lettura delle risultanze istruttorie avesse dimostrato la responsabilità del dipendente per i fatti di appropriazione di denaro aziendale a lui attribuiti dalla R. srl.
5. Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione F.S. affidato a due motivi, illustrati con memoria.
6. Ha resistito con controricorso la società.
7. Il PG non ha rassegnato conclusioni scritte.
Considerato che
1. Con il primo motivo si denunzia la nullità della sentenza di secondo grado, ex art. 360 co. 1 n. 4 cpc, 115 cpc, 2697 cc, 75 e 651 cpp, per avere utilizzato la Corte territoriale come prove tipiche del processo civile atti di indagine di un diverso procedimento penale svolti, anche tra altre parti, in assenza di contraddittorio e della informazione di garanzia dell’incolpato: atti depositati, peraltro, dalla società oltre i termini istruttori e posti a fondamento della decisione.
2. Con il secondo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione di legge ex artt. 360 n. 3 cpc, 115 e 116 cpc e 2697 cc, per avere la Corte di merito violato le norme e i principi che regolano il processo civile ed il processo penale, nonché le norme e i principi che regolano la valutazione delle prove ritualmente assunte nel giudizio civile e i connessi canoni di legittimità e congruenza della motivazione della sentenza.
3. Il primo motivo è infondato.
4. E’ orientamento consolidato, nella giurisprudenza di legittimità, quello secondo cui nell’ordinamento processuale vigente, in forza del principio di cui all’art. 116 cpc il giudice può legittimamente porre a base del proprio convincimento prove ed. atipiche, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se e in quanto non smentite dal raffronto critico con le altre risultanze del processo, con il solo limite di dare congrua motivazione dei criteri adottati per la sua valutazione (Cass. 27.3.2003 n. 4666; Cass. 25.3.20041 n. 5965; Cass. 5.3.2010 n. 5440).
5. Inoltre, è stato condivisibilmente affermato che, sempre in base al principio del libero convincimento, il giudice civile può trarre elementi di prova, con adeguato vaglio critico, finanche dalle dichiarazioni “autoindizianti” rese nel processo penale, atteso che la sanzione di inutilizzabilità, posta dall’art. 63 cpp a tutela dei diritti di difesa in quella sede, non ha effetti fuori di essa (Cass. 4.6.2014 n. 12577).
6. Nel caso in esame la Corte territoriale non ha violato le denunziate disposizioni in quanto, con adeguata motivazione, da un lato, ha specificato che l’acquisizione degli atti dell’indagine penale, prodotti dalla società con la memoria di primo grado del 29.3.2010, era avvenuta nel momento in cui gli stessi erano divenuti accessibili, a seguito della chiusura delle indagini preliminari; dall’altro ha dato atto che il S. non aveva censurato in alcun modo tale decisione, con la conseguenza, quindi, che nessuna violazione del diritto di difesa avrebbe potuto configurarsi al riguardo.
7. Il secondo motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.
8. E’ infondato relativamente alle censure di violazioni delle norme e dei principi che regolano il processo civile e quello penale perché correttamente la Corte di merito si è attenuta all’orientamento secondo cui, in applicazione del nuovo codice di procedura penale, il rapporto tra processo civile e processo penale si configura in termini di pressoché completa autonomia e separazione, nel senso che, ad eccezione di alcune limitate ipotesi di sospensione del giudizio civile, previste dall’art. 75 co. 3 cpp, detto processo deve proseguire il suo corso senza essere influenzato da quello penale, sicché non si è tenuti a sospendere il giudizio in attesa della definizione del processo penale (cfr. in termini Cass. 17.11.2015 n. 23516; Cass. n. 287/2016).
9. E’ inammissibile, invece, con riguardo alle dedotte censure di violazione degli artt. 115 e 116 cpc nonché dell’art. 2697 cc.
10. In primo luogo, infatti, in tema di ricorso per cassazione, una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cpc non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (Cass. 27.12.2016 n. 27000; Cass. 19.6.2014 n. 13960): ipotesi, queste, non denunziate nel caso in esame.
11. In secondo luogo, osserva il Collegio che l’articolazione della censura, come formulata, si risolve, in sostanza, nella richiesta di riesame dell’accertamento operato dalla Corte territoriale in fatto, che non è deferibile al giudice di legittimità cui spetta solo la facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica e formale delle argomentazioni del giudice di merito, non equivalendo il sindacato di logicità del giudizio di fatto a revisione del ragionamento decisorio (Cass. 16.12.2011 n. 27197; Cass. 19.3.2009 n. 6694).
12. Quanto, poi, alla violazione del precetto di cui all’art. 2697 cc, essa si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata non avesse assolto tale onere, poiché in questo caso vi è soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 co. 1 n. 5 epe (Cass 5.9.2006 n. 19064; Cass. 10.2.2006 n. 2935).
13. Alla stregua di quanto esposto, il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.
14. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.
15. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, sempre come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in complessivi euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.