CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 settembre 2021, n. 24264
Tributi – Riscossione – Imposta unica su concorsi pronostici – Omesso versamento
Rilevato che
– con la sentenza impugnata la CTR rigettava l’appello della società contribuente e pertanto confermava la sentenza di primo grado che aveva dichiarata la legittimità dell’atto impugnato, cartella di pagamento relativa al mancato assolvimento dell’imposta unica su concorsi pronostici, oltre a sanzioni ed interessi, per operazioni svoltesi nell’anno 2008;
– ricorre a questa Corte S.M. con atto affidato a otto motivi; resiste con controricorso l’Amministrazione Finanziaria; ambo le parti hanno depositato memorie; la ricorrente ha altresì chiesto con ulteriore memoria trattarsi la controversia in udienza pubblica e ha pure ivi instato perché sia disposto rinvio pregiudiziale alla CGUE ex art. 267 TFUE;
Considerato che
Preliminarmente, l’istanza di trattazione della causa in pubblica udienza formulata da parte ricorrente con la propria memoria depositata il 25 marzo 2021 va disattesa;
in adesione all’indirizzo espresso dalle sezioni unite di questa Corte, il collegio giudicante ben può escludere, nell’esercizio di una valutazione discrezionale, la ricorrenza dei presupposti della trattazione in pubblica udienza, in ragione del carattere consolidato dei principi di diritto da applicare nel caso di specie (Cass., sez. un., 5 giugno 2018, n. 14437), e allorquando non si verta in ipotesi di decisioni aventi rilevanza nomofilattica (Cass., sez. un., 23 aprile 2020, n. 8093). In particolare, la sede dell’adunanza camerale non è incompatibile, di per sé, anche con la statuizione su questioni nuove, soprattutto se non oggettivamente inedite e già assistite da un consolidato orientamento, cui la Corte fornisce il proprio contributo; nel caso in questione, il tema oggetto del giudizio è nuovo nella giurisprudenza di questa Corte, ma non è inedito, in quanto compiutamente affrontato in tutti i suoi risvolti da un lato dalla Corte costituzionale (con la sentenza 14 febbraio 2018, n. 27) e dall’altro da quella limonale (con la sentenza in causa C-788/18, relativa giustappunto alla S.M.L.); e i principi da quelle Corte stabiliti risultano ampiamente e diffusamente recepiti pure dalla giurisprudenza di merito e recentemente sono stati applicati anche in sede di Legittimità (ex pluribus Cass. n. 8757/2021; n. 9144/2021; n. 9530/2021); così ampie e convergenti affermazioni inducono quindi a ritenere preferibile la scelta del procedimento camerale, funzionale alla decisione di questioni di diritto di rapida trattazione non caratterizzate da peculiare complessità (sulla medesima falsariga, si veda Cass. 20 novembre 2020, n. 26480);
in forza delle ridette osservazioni, quindi, anche l’istanza di remissione della questione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea formulata in memoria del 15 aprile 2021 va rigettata;
né la giurisprudenza penale di questa Corte richiamata nell’istanza di rimessione alla pubblica udienza ex art. 23 comma 8-bis d. L. 137 del 2020 come convertito in L. 176 del 2020 datata 24 marzo 2021 è idonea a incrinare i principi in questione, per le ragioni di seguito esplicate. Infine, quanto al profilo delle esigenze difensive va anzitutto nuovamente sottolineato che, in conformità alla giurisprudenza sovranazionale, il principio di pubblicità dell’udienza, pur previsto dall’art. 6 CEDU e avente rilievo costituzionale, non riveste carattere assoluto e vi si può derogare in presenza di “particolari ragioni giustificative”, ove “obiettive e razionali” (in particolare, Corte cost. 11 marzo 2011, n. 80). Ad ogni modo, queste esigenze sono anche in concreto presidiate, perché le parti hanno illustrato la propria rispettiva posizione in esito alle pronunce della Corte costituzionale e della Corte di giustizia depositando osservazioni scritte;
– con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. nonché degli artt. 111 c. 6 Cost., 132 c. 2 n. 4 c.p.c., 118 disp. att. ne c.p.c., 35 c. 3 e 36 c. 2 n. 4) del d.Lgs. n. 546 del 1992 in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3) e n. 4) c.p.c. per non avere la CTR vagliato la doglianza relativa alla omessa notifica dell’atto presupposto;
– il motivo è infondato;
– invero, la società contribuente ha in questo caso non solo eccepito la mancata notifica dell’avviso di accertamento presupposto alla cartella di pagamento qui impugnata, ma ha anche fatto valere in giudizio i vizi in rito e di merito ritenuti in grado di invalidare detto avviso di accertamento;
– pertanto, come stabilito dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 1144 del 18/01/2018) è ben vero che la correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria è assicurata mediante il rispetto di una sequenza procedimentale di determinati atti, con le relative notificazioni, allo scopo di rendere possibile un efficace esercizio del diritto di difesa del destinatario, l’omissione della notifica di un atto presupposto costituisce un vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto consequenziale notificato. Poiché tale nullità però può essere fatta valere dal contribuente mediante la scelta, consentita dall’art. 19, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, di impugnare solo l’atto consequenziale notificatogli (avviso di mora, cartella di pagamento, avviso di liquidazione), facendo valere il vizio derivante dall’ omessa notifica dell’atto presupposto, o di impugnare cumulativamente anche quello presupposto (nell’ordine, cartella di pagamento, avviso di accertamento o avviso di liquidazione) non notificato, facendo valere i vizi che inficiano quest’ultimo, per contestare radicalmente la pretesa tributaria spetterà al giudice di merito, interpretando la domanda, verificare la scelta compiuta dal contribuente. Ne deriva che, nel primo caso, dovrà verificare solo la sussistenza o meno del difetto di notifica al fine di pronunciarsi sulla nullità dell’atto consequenziale (con eventuale estinzione della pretesa tributaria a seconda se i termini di decadenza siano o meno decorsi), mentre nel secondo caso – che qui ricorre – la pronuncia dovrà riguardare l’esistenza, o no, di tale pretesa;
– pertanto, poiché la CTR ha ritenuto che oggetto dell’impugnativa fosse anche la debenza o meno del tributo, correttamente essa ha esteso il proprio giudizio a tal tema che alla luce delle contestazioni del contribuente non era affatto superfluo ma costituiva proprio l’oggetto del giudizio;
– il secondo motivo denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. nonché degli artt. 111 c. 6 Cost., 132 c. 2 n. 4) c.p.c., 118 disp. att. ne c.p.c., 35 c. 3 e 36 c. 2 n. 4) del d. Lgs. n. 546 del 1992 in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c. per non avere la CTR vagliato la doglianza relativa alla omessa motivazione della pretesa azionata sia in ordine all’an sia in ordine al quantum debeatur;
– il motivo è infondato;
– è evidente sia dalla sentenza impugnata sia dagli atti di causa come parte ricorrente abbia sia nei gradi del merito sia di fronte a questa Corte proposto difese articolate e analitiche; pertanto, deve ritenersi che qualsiasi difetto di motivazione dell’atto impugnato non possa condurre alla dichiarazione di nullità, allorché la cartella sia stata impugnata dal contribuente il quale abbia dimostrato, in tal modo, di avere piena conoscenza dei presupposti dell’imposizione, per averli – come qui è accaduto – puntualmente contestati (Sez. 6-5, Ordinanza n. 15580 del 22/06/2017; Sez. 5, Sentenza n. 3516 del 07/03/2012; Sez. 5, Sentenza n. 3516 del 07/03/2012; Sez. U, Sentenza n. 11722 del 14/05/2010);
– il terzo motivo si incentra sulla violazione e/o falsa applicazione dell’art. 3 d. Lgs. n. 504 del 1998 come interpretato dall’art. 1 c. 66 lett. b) della Legge di stabilità 2011, dell’art. 64 d.P.R. n. 600 del 1973 nonché degli artt. 136 Cost. e 30 c. 1 L.. n. 87 del 1953 tutti in relazione con art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c. per avere la CTR erroneamente – anche per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 27 del 2018 – ritenuto il CTD soggetto passivo del tributo; il motivo in esame può esaminarsi congiuntamente con il quinto motivo, che denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. nonché degli artt. 111 c. 6 Cost., 132 c. 2 n. 4) c.p.c., 118 disp. att. ne c.p.c., 35 c. 3 e 36 c. 2 n. 4) del d. Lgs. n. 546 del 1992 in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 e n. 4 c.p.c. per non avere la CTR vagliato la doglianza relativa alla insussistenza del profilo territoriale del presupposto di applicazione del tributo;
– tali motivi non possono trovare accoglimento;
– invero, le censure da essi poste non risultano decisive; le questioni in parola sono già state oggetto di ripetuta e articolata disamina da parte di questa Corte a partire dalla sentenza n. 8757 del 30 marzo 2021, seguita da numerose altre (tra le tante Cass. 8907-8911/2021, 9079- 9081/2021, 9144-9153/2021, 9160/2021, 9162/2021, 9168/2021, 9176/2021, 9178/2021, 9182/2021, 9184/2021, 9160/2021, 9516/2021, 9528-9537/2021, 9728-9735/2021), le cui motivazioni sono qui espressamente condivise e richiamate ex art. 118 disp. att. c.p.c.;
– il quadro normativo qui rilevante è stato sottoposto all’esame e della Corte costituzionale e della Corte di giustizia, che ne hanno compiutamente esaminato le relazioni rispettivamente con la Costituzione e col diritto unionale prospettate nell’odierno ricorso; il che esclude la necessità della trattazione relativa in pubblica udienza, poiché non residuano profili di particolare rilevanza e rende pure inutile la remissione ulteriore della questione alla Corte Unionale, come già detto, richiesta dalla società contribuente con memoria del 15 aprile 2021. Quanto all’ambito soggettivo dell’imposta, affrontato dal terzo motivo di ricorso, la Corte costituzionale ha dato atto dell’incertezza correlata all’interpretazione dell’art. 3 del d. Lgs. n. 504 del 1998 per il periodo antecedente alla disposizione interpretativa del 2010 (nel senso che era incerto se la pretesa impositiva si potesse rivolgere anche nei confronti dei soggetti che operavano al di fuori del sistema concessorio); ma ha riconosciuto che il legislatore con l’art. 1, comma 66, della L. n. 220 del 2010 da un canto ha stabilito che l’imposta è dovuta anche nel caso di scommesse raccolte al di fuori del sistema concessorio e, d’altro canto, ha esplicitato l’obbligo delle ricevitorie operanti per conto di bookmakers privi di concessione al versamento del tributo e delle relative sanzioni. A questo riguardo ha escluso che l’equiparazione, ai fini tributari, del “gestore per conto terzi” (ossia del titolare di ricevitoria) al “gestore per conto proprio” (ossia al bookmaker) sia irragionevole. Entrambi i soggetti, difatti, ha sottolineato quella Corte, partecipano, sia pure su piani diversi e secondo diverse modalità operative, allo svolgimento dell’attività di “organizzazione ed esercizio” delle scommesse soggetta a imposizione. In particolare, ha rimarcato, il titolare della ricevitoria, benché non partecipi direttamente al rischio connaturato al contratto di scommessa, svolge comunque un’attività di gestione, perché assicura la disponibilità di locali idonei e la ricezione della proposta, si occupa della trasmissione al bookmaker dell’accettazione della scommessa, dell’incasso e del trasferimento delle somme giocate, nonché del pagamento delle vincite secondo le procedure e le istruzioni fornite dal bookmaker. Sicché, ha specificato, l’attività gestoria che costituisce il presupposto dell’imposizione va riferita alla raccolta delle scommesse, il volume delle quali determina anche la provvigione della ricevitoria e per conseguenza il suo stesso rischio imprenditoriale. Né, ha aggiunto la Corte costituzionale, la scelta di assoggettare all’imposta i titolari delle ricevitorie operanti per conto di soggetti privi di concessione viola il principio di capacità contributiva, nei limiti in cui il rapporto tra il titolare della ricevitoria che agisce per conto di terzi e il bookmaker sia disciplinato da un contratto che regoli anche le commissioni dovute al titolare della ricevitoria per il servizio prestato. Ciò perché attraverso la regolazione delle commissioni il titolare della ricevitoria ha la possibilità di trasferire il carico tributario sul bookmaker per conto del quale opera. Tale rivalsa svolge funzione applicativa del principio di capacità contributiva, poiché redistribuisce tra i coobbligati, bookmaker e ricevitoria, che hanno comunque concorso, sia pure in vario modo, alla realizzazione del presupposto impositivo, il carico fiscale in relazione alla partecipazione di ognuno a tale realizzazione. In ogni caso, poi, della sussistenza (evidente in questo caso) di autonomi rapporti obbligatori – che ai fini tributari sono avvinti dal nesso di solidarietà per conseguenza paritetica, e non già dipendente – non dubita, d’altronde, la giurisprudenza civile di questa Corte, la quale, sia pure con riguardo al gioco del lotto, ha chiarito, appunto, che sono due i rapporti obbligatori, quello concluso tra lo scommettitore e il raccoglitore e quello che si instaura tra lo scommettitore ed il gestore (Cass. 27 luglio 2015, n. 15731). E la stessa giurisprudenza penale citata in memoria dalla contribuente (ossia Cass. 9 luglio 2020, n. 25439) evidenzia la rilevanza dei ruoli del ricevitore appartenente alla rete distributiva del bookmaker (punto 5), consistente nella «…raccolta e trasmissione delle scommesse per conto di quest’ultimo, rilasciando le ricevute emesse dal terminale di gioco -con le annesse attività di incasso delle poste e di pagamento delle eventuali vincite-…». Per conseguenza la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 del d.lgs. n. 504/98 e dell’art. 1, comma 66, lettera b), della I. n. 220/10, nella sola parte in cui prevedono che, nelle annualità d’imposta precedenti al 2011, siano assoggettate all’imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse le ricevitorie operanti per conto di soggetti privi di concessione. In quel periodo non si può difatti procedere alla traslazione dell’imposta, perché l’entità delle commissioni già pattuite fra ricevitorie e bookmaker si era già cristallizzata sulla base del quadro precedente alla I. n. 220/10 (Corte cost. 23 gennaio 2018, n. 27). Quella Corte ha anche chiarito (punto 4.5) che, in mancanza di regolazione degli effetti transitori e in considerazione della natura interpretativa dell’art. 1, comma 66, lettera b), della I. n. 220/10, la disposizione va applicata anche ai rapporti negoziali perfezionatisi prima della sua entrata in vigore. Ne consegue anzitutto che per le annualità d’imposta antecedenti al 2011 non rispondono le ricevitorie, ma rispondono i bookmaker, con o senza concessione; qui non è peraltro oggetto di ricorso la posizione del CTD. Per il resto, ossia per tutti i periodi d’imposta quanto al bookmaker e, in relazione al ricevitore, per i periodi d’imposta successivi, o anche per il 2011 qualora il rapporto negoziale tra S.M.L. e centro di trasmissione dati consenta la traslazione dell’imposta, la censura è infondata. In particolare:
– è infondato il terzo motivo di ricorso, col quale si assume che la funzione gestoria postuli l’assunzione del rischio d’impresa l’esercizio della funzione decisionale e organizzatoria in ordine alla fissazione degli eventi oggetto di scommessa, delle quote e dei criteri di accettazione e la titolarità del rapporto giuridico di scommessa con lo scommettitore, in base alle considerazioni che precedono in ordine all’accezione di gestione del ricevitore, come illustrata da Corte cost. n. 27/18;
– è infondato il quinto motivo, col quale si fa leva, in relazione al ricevitore, sulla conclusione del contratto di scommessa, perché il fatto imponibile è la prestazione di servizi consistente nell’organizzazione del gioco da parte del ricevitore e nella raccolta delle scommesse, che consiste, in relazione a ciascun scommettitore, nella valida registrazione della scommessa, documentata dalla consegna allo scommettitore della relativa ricevuta (così Cass. n. 15731/15, cit.); attività, queste, tutte svolte in Italia;
– il quarto motivo censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973 in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c. per avere la CTR, nel ritenere il bookmaker unico obbligato, modificato i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche poste a base degli atti della pretesa fiscale;
– il motivo è infondato;
– invero, dalla lettura della sentenza impugnata risulta come sin dall’inizio della controversia la società ricorrente sia stata aggredita dall’Amministrazione Finanziaria proprio in quanto soggetto passivo del tributo e in quella veste è stata oggetto sia della notifica dell’avviso di accertamento (oggetto di contestazione) sia della cartella di pagamento conseguente. Dalla pronuncia della Corte costituzionale più volte già citata, emerge con chiarezza come tra bookmaker e CTD vi sia un rapporto non di solidarietà dipendente, ma di solidarietà paritetica; ambedue i soggetti, ciascuno prò parte sua, realizzano sia pur in modi diversi il presupposto del tributo in quanto partecipi del sistema dei giochi. Nessuna modifica di alcun genere è stata operata dalla CTR, e men che meno dall’Amministrazione Finanziaria dal momento che il bookmaker era già obbligato sin dall’origine al pagamento del tributo. Tal situazione di soggezione al prelievo è stata avallato dalla interpretazione autentica legge che ha chiarito che anche il CTD era soggetto passivo alla luce della sentenza Corte cost. n. 27 del 2018, in forza della quale la soggettività in parola deriva direttamente dall’art. 3 d. Lgs. n. 504 del 1998;
– il sesto motivo e il settimo motivo denunciano la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 56 TFUE e dei principi del diritto dell’Unione Europea di parità di trattamento, di libera prestazione dei servizi, non discriminazione e proporzionalità con riferimento all’art. 3 d. Lgs. n. 504 del 1998, come interpretato dall’art. 1 c. 66 della Legge di stabilità 2011 nonché la violazione del principio di legittimo affidamento in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c.; in subordine, si formula istanza di rinvio pregiudiziale ex art. 267 c.3 TFUE, alla Corte di Giustizia, istanza ribadita in memoria depositata il 15 aprile 2021;
– quanto alle prospettate frizioni con il diritto unionale, in memoria, inoltre, il profilo centrale della linea difensiva seguita si fonda, in sostanza sul riconoscimento della liceità dell’attività svolta nel tempo dalla ricorrente, come riconosciuta dalla giurisprudenza penale di questa Corte il che, secondo l’assunto di parte ricorrente, comporterebbe effetti anche sul piano strettamente fiscale e, inoltre, dovrebbe indurre a ritenere che la Corte di giustizia, con la pronuncia del 26 febbraio 2020, non avrebbe preso in considerazione la specificità della “peculiare posizione” nella quale la ricorrente si sarebbe venuta a trovare basata sulla illegittima ed originaria discriminazione dalla stessa subita nel tempo dall’autorità nazionale;
– la linea difensiva seguita dalla ricorrente, più in particolare, si fonda sulla considerazione della natura sanzionatoria dell’intervento normativo di cui alla legge 220/2010, sicché la disciplina in esso contenuta troverebbe applicazione solo con riferimento allo svolgimento di una attività di gioco illecita, dunque non anche nei confronti della ricorrente, con la conseguenza che, ove applicata nei propri confronti, deriverebbe una violazione del principio di non discriminazione, della parità di trattamento nonché di legittimo affidamento e di libertà di stabilimento determinando, inoltre, un contrasto interno della giurisprudenza di legittimità, tra le sezioni civili e quelle penali, in ordine alla questione;
– qui l’infondatezza emerge dalla giurisprudenza della CGUE. Al riguardo, giova premettere che le imposte sui giochi d’azzardo non hanno natura armonizzata; sicché i giochi d’azzardo rilevano, ai fini del diritto sovraordinato, in relazione alle norme concernenti la libera prestazione di servizi presidiata dall’art. 56 del TFUE (Corte giust. 26 febbraio 2020, causa C-788/18, punto 17). Inoltre, nel settore dei giochi d’azzardo con poste in danaro, secondo costante giurisprudenza della Corte di Giustizia, gli obiettivi di tutela dei consumatori, di prevenzione dell’incitamento a una spesa eccessiva collegata al gioco, nonché di prevenzione di turbative dell’ordine sociale in generale costituiscono motivi imperativi d’interesse generale atti a giustificare restrizioni alla libera prestazione di servizi: per conseguenza, in assenza di un’armonizzazione unionale della normativa sui giochi d’azzardo, ogni Stato membro ha il potere di valutare, alla luce della propria scala di valori, le esigenze che la tutela degli interessi in questione implica, a condizione che le restrizioni non minino i requisiti di proporzionalità (Corte giust. 24 ottobre 2013, causa C-440/12, punto 47; 8 settembre 2009, causa C-42/07). Non solo: gli Stati membri non hanno l’obbligo di adeguare il proprio sistema fiscale ai vari sistemi di tassazione degli altri Stati membri, al fine di eliminare la doppia imposizione che risulta dal parallelo esercizio della rispettiva competenza fiscale (Corte giust. in causa C-788/18, cit., punto 23; per analogia, Corte giust. 1 dicembre 2011, causa C-253/09, punto 83); in questo contesto la normativa italiana, si anticipava, ha superato il vaglio della giurisprudenza unionale. La Corte di giustizia ha escluso qualsivoglia discriminazione tra bookmakers nazionali e bookmakers esteri, perché l’imposta unica si applica a tutti gli operatori che gestiscono scommesse raccolte sul territorio italiano, senza distinzione alcuna in funzione del luogo in cui essi sono stabiliti (punto 21 di Corte giust. in causa C-788/18), di modo che la normativa italiana «non appare atta a vietare, ostacolare o rendere meno attraenti le attività di una società, quale la S.M., nello Stato membro interessato». E ancora, ha sottolineato quella Corte, la situazione di un centro di trasmissione dati che raccoglie scommesse per conto di una società che ha sede in un altro Stato membro non è analoga a quella degli operatori nazionali: di qui l’esclusione di ogni restrizione discriminatoria della normativa che esclude che i centri di trasmissione dati che agiscono per conto degli operatori di scommesse nazionali siano soggetti al pagamento in solido dell’imposta;
– le suddette considerazioni rendono dunque priva di ogni fondamento sia l’asserita assimilazione dell’imposizione alle sanzioni, ipotizzandone una oggettiva finalità afflittiva, che, invece, è del tutto assente attesa la riferibilità della pretesa ad ordinari, seppur specifici, meccanismi impositivi l’assenza, come su evidenziato, di caratteri discriminatori, sia la prospettata esistenza di un contrasto interno della giurisprudenza di legittimità in ordine alla questione;
– la ricorrente, infatti, è considerata soggetto passivo d’imposta proprio per avere realizzato, per il tramite di propri centri di trasmissione dati operanti in Italia, il presupposto impositivo dell’imposta in esame;
– la giurisprudenza penale di questa Corte (Cass. pen., 10 settembre 2020, n. 25439), poi, ha esaminato la questione relativa alla realizzazione del reato di cui all’art. 4, comma 4bis, legge n. 401/1989, ritenendo di dovere escludere la sussistenza del reato de quo in base alla considerazione che la ricorrente era stata «illegittimamente escluso dai bandi di gara attributivi delle concessioni …e la successiva trasmissione di dette scommesse all’allibratore non possono essere punite ai sensi dell’art. 4, comma 4 bis, I. n. 401/1989, dovendosi disapplicare la disciplina penale nazionale per contrasto con la normativa dell’Unione Europea»;
– il riconoscimento della natura non illecita dell’attività svolta dalla ricorrente, tuttavia, non implica la sottrazione della stessa dall’ambito della disciplina dell’imposta unica, anzi, postula proprio la realizzazione del presupposto di imposta, secondo la specifica declinazione contenuta nell’art. 1, comma 66, legge n. 220/2010 che ha, come visto, disposto che: «Ferma restando l’obbligatorietà, ai sensi della legislazione vigente, di licenze, autorizzazioni e concessioni nazionali per l’esercizio dei concorsi propostici e delle scommesse, e conseguentemente l’immediata chiusura dell’esercizio nel caso in cui il relativo titolare ovvero esercente risulti sprovvisto di tali titoli abilitativi, ai soli fini tributari: a) l’articolo 1 del decreto legislativo 23 dicembre 1998, n. 504, si interpreta nel senso che l’imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse è comunque dovuta ancorché la raccolta del gioco, compresa quella a distanza, avvenga in assenza ovvero in caso di inefficacia della concessione rilasciata dal Ministero dell’economia e delle finanze – Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato; b) l’articolo 3 del decreto legislativo 23 dicembre 1998, n. 504, si interpreta nel senso che soggetto passivo d’imposta è chiunque, ancorché in assenza o in caso di inefficacia della concessione rilasciata dal Ministero dell’economia e delle finanze – Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato, gestisce con qualunque mezzo, anche telematico, per conto proprio o di terzi, anche ubicati all’estero, concorsi pronostici o scommesse di qualsiasi genere. Se l’attività è esercitata per conto di terzi, il soggetto per conto del quale l’attività è esercitata è obbligato solidalmente al pagamento dell’imposta e delle relative sanzioni»;
l’applicabilità della previsione normativa in esame esclude altresì che possa porsi una questione di violazione del principio di non discriminazione o di libertà di stabilimento, secondo quanto ulteriormente esposto in memoria, basata sulla considerazione della natura lecita dell’attività svolta, ovvero ancora che possa ritenersi che la Corte di Giustizia, con la pronuncia citata non abbia preso in considerazione la “specifica situazione” nella quale la ricorrente ha dovuto operare;
a parte il rilievo che il pregiudizio subito risulta solo affermato, ma non concretamente precisato e specificato, quel che rileva, come detto, è il fatto che la ricorrente, per il fatto di avere realizzato in Italia l’attività di gestione della raccolta delle scommesse per il tramite di propri centri di trasmissione dati, ha realizzato il presupposto dell’imposta e, dunque, è da considerarsi soggetto passivo del tributo e, sotto tale profilo, va fatto richiamo alla pronuncia della Corte di giustizia che, sul punto, ha escluso ogni violazione dei principi unionali citati;
l’ottavo motivo censura la pronuncia gravata per violazione e/o falsa applicazione per violazione e/o falsa applicazione del combinato disposo degli artt. 3 d. Lgs. n. 504 del 1998, 1 c. 66 lett. b) della L. n. 220 del 2010 e 64 d.P.R. n. 600 del 1973 in relazione agli artt. 3 c. 1, 53 c. 1 Cost., a valle della sentenza n. 27 del 2018 della Corte costituzionale in relazione all’art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c. sotto diversi profilli;
– il motivo è infondato;
– dalla giurisprudenza costituzionale sopra citata deriva la qualificazione della relazione tra bookmaker e CTD come situazione di solidarietà paritetica, non dipendente; entrambi i soggetti, coinvolti a diverso titolo nell’organizzazione dei giochi, realizzano il presupposto del tributo; l’interpretazione autentica operata dal Legislatore ha chiarito che anche il CTD era soggetto passivo alla luce della sentenza Corte cost. n. 27 del 2018. Pertanto la responsabilità per i tributi sui giochi deriva direttamente dall’art. 3 d.lgs. n. 504 del 1998;
– conclusivamente, il ricorso va quindi integralmente rigettato;
– l’essere intervenute, secondo le cadenze temporali di cui si è detto, le ricordate pronunce della Corte costituzionale e della Corte di Giustizia dell’Unione costituisce giusta ragione per la compensazione delle spese del giudizio di Legittimità;
– sussistono i presupposti per il c.d. “raddoppio” del contributo unificato;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; compensa le spese del presente giudizio di legittimità. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari quello dovuto per il ricorso principale a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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- Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Calabria, sezione n. 2, sentenza n. 1119 depositata il 14 aprile 2023 - In tema di imposta unica sui concorsi pronostici e sulle scommesse, è soggetto passivo anche il titolare della ricevitoria…
- Commissione Tributaria Regionale per la Campania, sezione 22, sentenza n. 86 depositata il 7 gennaio 2020 - Tutti i soggetti che esercitano l’attività di gestione delle scommesse sono obbligati al pagamento dell’imposta unica sui concorsi pronostici e…
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