CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 settembre 2021, n. 24352
Tributi – Accertamento – Fatture relative ad operazioni oggettivamente inesistenti – Discordanza con i dati contabili del cedente – Onere di prova contraria a carico del contribuente cessionario
Rilevato che
1. La Commissione tributaria regionale della Lombardia rigettava l’appello proposto dalla L.E. s.r.l. (prima L. s.a.s.) e dai soci M.F. ed A.N., attinti per trasparenza ex art. 5 Tuir, avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Como (n. 55/1/14), che aveva rigettato il ricorso proposto dai contribuenti contro gli avvisi di accertamento emessi nei loro confronti dall’Agenzia delle Entrate per l’anno 2007, con cui era stato contestato l’utilizzo di fatture emesse dall’impresa SCG di F.S. per operazioni oggettivamente inesistenti, con rettifica anche del reddito di partecipazione dei soci. Il giudice d’appello, in particolare, per quel che ancora qui rileva, evidenziava che l’Ufficio aveva offerto elementi di prova attestanti l’inesistenza delle operazioni sottostanti alle fatture, attraverso l’incrocio con la documentazione fornita dalla S., società emittente le fatture. La contribuente avrebbe dovuto offrire la prova contraria, in ordine all’esistenza delle operazioni, non potendosi limitare ad esibire le fatture ed a dimostrare la regolarità formale delle scritture contabili, indicando anche i mezzi di pagamento adoperati, i quali vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia. Inoltre, in caso di operazioni oggettivamente inesistenti era escluso in radice che potesse configurarsi la buona fede del cessionario o committente, il quale sapeva bene se una determinata fornitura di beni e prestazioni di servizi fosse stata effettivamente ricevuta o meno.
2. Avverso tale sentenza propongono ricorso per cassazione la società ed i soci, depositando memoria scritta.
3. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.
Considerato che
1. Con il primo motivo di impugnazione (indicato sub 1a a pagina 9 del ricorso per cassazione) la società ed i soci deducono la “violazione, errata o falsa applicazione degli articoli 2697 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.”, in quanto l’Agenzia delle entrate non avrebbe fornito validi elementi idonei a provare la circostanza della fittizietà delle cessioni documentate dalla nuova L., ora L.E. s.r.l.. Era stata semmai la cedente S. ad avere indebitamente omesso di contabilizzare i ricavi corrispondenti alle fatture esibite dalla società cessionaria.
L’inversione dell’onere della prova origina soltanto quando l’Agenzia abbia fornito elementi presuntivi sulla inesistenza delle operazioni sottese alle fatture, mediante elementi dotati dei caratteri di precisione, gravità e concordanza ex art. 2729 c.c. Palesi sarebbero le “carenze motivazionali” contenute nelle sentenze della CTR e della CTP.
Gli elementi di prova forniti dall’Agenzia delle Entrate consistevano esclusivamente nella discordanza tra gli importi indicati nell’elenco fornitori trasmesso dalla società contribuente (importi rappresentativi dei costi riferiti alle fatture emesse dalla ditta individuale S. F.) con quelli inseriti nell’elenco clienti trasmesso dalla ditta individuale S., rappresentativi dei ricavi contabilizzati da quest’ultima. Ciò significava soltanto che uno dei due elenchi conteneva dati inesatti. Vi era poi la discordanza tra i prezzi fatturati, così come emergenti dalle fatture esibite dal cedente dal cessionario. L’Ufficio non aveva però provato che fosse stata manipolata la fattura esibita dalla cessionaria contribuente. In alcuni casi le fatture esibite dalla contribuente non risultavano registrate nella contabilità del cedente. Alcune fatture, poi, erano differenti nella grafica.
2. Con il secondo motivo di impugnazione, rubricato sub 2a) a pagina 12 del ricorso per cassazione, i ricorrenti lamentano “l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.”. In particolare, l’Agenzia delle entrate non avrebbe preso in considerazione gli elementi di prova contraria forniti dalla società contribuente. Anzitutto, la società ha istituito la contabilità ordinaria e non semplificata, sicché le operazioni contestate, oltre ad essere state registrate nel registro Iva acquisti, risultavano contabilizzate nel libro giornale e nella scheda contabile del partitario di mastro, riferita al fornitore S.F.
I pagamenti sono sempre avvenuti con l’utilizzo dei canali bancari, quindi attraverso assegni e ricevute bancari. Sono state esibite le fatture emesse dalla nuova L. per la “rivendita” di alcuni beni acquistati dalla ditta S. con le fatture contestate. Vi sono poi le certificazioni relative alla rottamazione di alcuni dei beni acquistati con le fatture contestate; le schede tecniche di lavorazione dei materiali acquistati impiegati nel ciclo produttivo per la rivendita successiva; la documentazione fotografica dei pezzi acquistati con le fatture contestate; le fatture di altri fornitori per l’acquisto di altri componenti-ulteriori rispetto a quelli acquistati dal S.-necessari per la lavorazione e realizzazione dei prodotti finiti. Tali elementi di prova contraria non sono stati neppure presi in considerazione “dalla CTP di Como e dalla CTR di Milano”.
3. Con il terzo motivo di impugnazione, rubricato sub 2b) a pagina 17 del ricorso per cassazione, i ricorrenti deducono “l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.”. L’Ufficio non avrebbe preso in considerazione gli elementi di prova che inducevano a configurare la buona fede della società ricorrente cessionaria. La sentenza impugnata aveva affermato che nelle ipotesi di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti era escluso che potesse configurarsi la buona fede del cessionario o committente, il quale ben sapeva se una determinata fornitura di beni o prestazioni di servizi fosse stato o meno ricevuta. La circostanza che la ditta individuale S. non avesse prodotto alcun documento riguardante le somme riscosse dai propri clienti, costituiva un elemento presuntivo di prova a carico della cedente che poteva aver occultato i ricavi. Non è stata, poi, raggiunta la prova della restituzione, in tutto o in parte, alla società cessionaria delle somme incassate fatturate dal cedente. I pagamenti erano stati effettuati tramite canale bancario sicché era ragionevole presumere che il danaro incassato dal S. non fosse stato restituito ai suoi clienti, ma trattenuto dallo stesso. Tra l’altro, le pronunce citate dal giudice d’appello riguardavano operazioni soggettivamente inesistenti, quindi non attinenti al caso in esame, che aveva ad oggetto fatture emesse per operazioni oggettivamente inesistenti. Emergeva, poi, l’assoluta buona fede della contribuente nuova L., in quanto l’avviso di accertamento emesso nei confronti di F.S. era divenuto definitivo per mancata impugnazione. La ditta S. aveva emesso fatture, con le medesime anomalie (differenza di prezzo, di numerazione delle fatture, delle quantità e tipi di beni ceduti) anche nei confronti di altri cinque clienti.
4. I tre motivi di impugnazione, che vanno trattati congiuntamente per ragioni di connessione, sono infondati.
4.1. Anzitutto, si evidenzia che la sentenza del giudice d’appello è stata depositata il 31 dicembre 2014 e lo stesso appello è stato depositato il 12 agosto 2014, sicché si è in presenza di una doppia decisione conforme di merito, con conseguente applicazione dell’art. 348-ter c.p.c., introdotto dal decreto-legge n. 83 del 2012, a decorrere dagli appelli depositati a partire dall’11 settembre 2012. Invero, dallo stesso ricorso per cassazione emerge che sia il giudice di prime cure, sia il giudice d’appello, hanno rigettato le richieste dei contribuenti sulla base dei medesimi elementi di fatto. Si legge a pagina 17 del ricorso per cassazione che “detti elementi di prova contraria addotti dal contribuente e aventi valenza probatoria non sono neppure stati presi in considerazione dalla CTP di Como e dalla CTR di Milano”. Si è precisato che era “assodato dalla stessa CTP e CTR che la nuova L. sas ha effettuato i pagamenti (a mezzo canale bancario) delle fatture emesse dalla ditta SCM di S. F.” (cfr. pagina 18 del ricorso per cassazione).
Pertanto, trattandosi di appello notificato dalla società in epoca successiva all’11 settembre 2012 (Cass., 11439/2018), trova applicazione l’art. 348-ter commi 4 e 5 c.p.c. per il quale “quando l’inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione di cui al comma precedente può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui ai numeri 1, 2, 3 e 4 del primo comma dell’art. 360″, con l’aggiunta che “la disposizione di cui al quarto comma si applica, fuori dei casi di cui all’art. 348 bis, secondo comma, lettera a), anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado“.
Nel controricorso, a pagina 3, è stata riportata una porzione della motivazione della Commissione provinciale di Como, di cui alla sentenza 55/1/2014 (” l’Ufficio ha documentato con elementi di prova incontestabili e incontestati che la srl ha indebitamente utilizzato deduzioni e detrazioni fiscali, come da avvisi di accertamento in epigrafe; mentre il contribuente non è stato in grado di dimostrare la fonte che giustificherebbe l’utilizzo delle agevolazioni fiscali usate impropriamente (al di là della semplice esibizione cartacea dei mezzi di pagamento adoperati) così anche per il requisito della inerenza, non comprovato”.
4.2. Peraltro, per questa Corte, con riferimento alla detraibilità dell’Iva ed alla deducibilità dei costi nel caso di fatture relative ad operazioni oggettivamente inesistenti, la fattura, di regola, costituisce titolo per il contribuente ai fini del diritto alla detrazione dell’imposta sul valore aggiunto e alla deducibilità dei costi in essa annotati, per cui spetta all’Ufficio di dimostrare il difetto delle condizioni per l’insorgenza di tale diritto (Cass., sez., 5, 14 maggio 2020, n. 8919).
Tale prova può essere fornita anche mediante elementi indiziari e presuntivi, poiché la prova presuntiva non è collocata su un piano gerarchicamente subordinato rispetto alle altre fonti di prova e costituisce una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza anche in via esclusiva ai fini della formazione del proprio convincimento (Cass., n. 9108 del 6 giugno 2012; Cass., sez. 5, 14 maggio 2020, n. 8919).
Pertanto, in caso di ripresa per operazioni oggettivamente inesistenti, quali quelle in contestazione nel caso di specie, ove la fattura costituisca in tutto o in parte mera espressione cartolare di operazioni commerciali mai poste in essere da alcuno, l’Amministrazione ha l’onere di fornire elementi probatori, anche in forma indiziaria e presuntiva (Cass., 30 ottobre 2018, n. 27554; Cass., nn. 21953/2007; 9363/2015; Cass., 24 settembre 2014, n. 20059; Corte giustizia, 6 luglio 2006, C-439/04, 31 novembre 2013, C-642/11), del fatto che l’operazione fatturata non è stata effettuata (Corte Giustizia 4 giugno 2020, n. 430, per cui i principi che disciplinano il regime comune Iva ostano a che, in presenza di semplici sospetti non suffragati dall’amministrazione tributaria nazionale quanto alla effettiva realizzazione delle operazioni economiche che hanno portato alla emissione di una fattura fiscale, al soggetto passivo destinatario di questa fattura venga negato il diritto alla detrazione Iva se non sia in grado di fornire, oltre a detta fattura, ulteriori prove dell’effettiva esistenza delle operazioni economiche realizzate).
Nella specie, il giudice d’appello ha affermato che l’Agenzia “ha offerto elementi di prova attestanti l’inesistenza oggettiva delle fatture, quali l’incrocio con la documentazione fornita dalla S.”.
Effettivamente, pur nella stringatezza della motivazione, si evidenzia che il giudice d’appello ha effettuato un congruo giudizio di merito, fondato proprio sugli elementi di fatto presenti in atti. Dal ricorso per cassazione dei contribuenti emerge che alcune fatture indicavano prezzi di vendita diversi a fronte degli stessi beni ceduti. Per esempio, la fattura n. 103 esibita dalla società contribuente esponeva un prezzo di vendita di euro 13.320,00, a fronte del prezzo di vendita di euro 1.332,00 esposto nella fattura n. 103 esibita dalla ditta S. F.. Inoltre, sempre nel ricorso per cassazione si fa riferimento ad altre fatture (come la n. 127 la n. 140 ed altre di minore importo) che sono state registrate dalla società contribuente la quale, quindi, ha dedotto i relativi costi e detratto l’Iva, ma dette fatture non risultano registrate dall’impresa S. F., che non ha dichiarato i corrispondenti ricavi e la relativa Iva. Inoltre, altre fatture esibite e contabilizzate dalla S. nel relativo registro Iva, risultavano in realtà emesse da altri soggetti diversi dalla società contribuente e per importi nettamente inferiori. Anche la grafica delle fatture era difforme.
Pertanto, correttamente il giudice d’appello ha ritenuto che l’Agenzia delle entrate avesse assolto al proprio onere probatorio, di cui all’art. 2697 c.c., consistente nel dimostrare, mediante presunzioni, l’emissione di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti.
Peraltro, la dedotta violazione di legge di cui all’art. 2729 c.c., si concreta, in sostanza, nella richiesta di una nuova rivisitazione del materiale probatorio, e non nella mera assenza, con riferimento agli indizi della Agenzia delle entrate, dei caratteri essenziali di gravità, precisione e concordanza.
5. Solo successivamente spetta al contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate.
5.1. Tale prova contraria, però, non può consistere nella mera esibizione della fattura o nella dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento, poiché questi sono facilmente falsificabili e vengono normalmente utilizzabili proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cass., sez. 5, 19 ottobre 2018, n. 26453; Cass., sez. 6-5, 15 maggio 2018, n. 11873; Cass., sez. 5, 5 luglio 2018, n. 17619; Cass., nn. 28683/15; 5406/16).
Inoltre, una volta accertata l’assenza della operazione, è escluso che possa configurarsi la buona fede del cessionario o committente, il quale ovviamente sa bene se ed in quale misura ha effettivamente ricevuto il bene o la prestazione per la quale ha versato il prezzo o corrispettivo (Cass., 14 settembre 2016, n. 18118).
6. Nella specie, dunque, il giudice di appello, con congrua motivazione, ha ritenuto che l’Amministrazione avesse fornito la prova indiziaria in ordine alla inesistenza della operazione intercorsa, mentre i contribuenti non avevano fornito la prova contraria, che non poteva consistere nella esibizione della fattura, né nella dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati.
7. In ordine alla prova contraria, premesso che i tre motivi di ricorso per cassazione, involgono una nuova valutazione degli elementi istruttori, già compiuta in modo esauriente, sia dal giudice di prime cure, sia dal giudice d’appello, con univocità delle due decisioni, perfettamente sovrapponibili e fondate sui medesimi elementi di fatto, sicché la doppia decisione conforme di merito impedisce ogni ulteriore valutazione in questa sede, si evidenzia che gli elementi che non sarebbero stati esaminati dal giudice d’appello non sono in alcun modo decisivi ai fini del giudizio, per la loro assoluta genericità.
In particolare, non rileva in alcun modo che la società contribuente avesse scelto la forma di contabilità ordinaria, in luogo di quella semplificata, in quanto, in entrambi i casi, ciò che risulta dalle scritture contabili, ove si verta in materia di fatture emesse per operazioni oggettivamente esistenti, scolora dinanzi alla prova indiziaria fornita dall’Agenzia delle entrate sulla insussistenza di tali operazioni. Proprio la regolare tenuta delle scritture contabili rappresenta lo strumento ideale per porre in essere il meccanismo delle fatture emesse per operazioni oggettivamente inesistenti.
La contabilità semplificata, poi, è consentita per le imprese che non superano alcune soglie reddituali ai sensi dell’art. 18 del d.P.R. n. 600 del 1973. Peraltro, anche in caso di contabilità semplificata è previsto comunque l’utilizzo del registro Iva, sulle vendite e sugli acquisti, al cui interno devono confluire tutte le informazioni riferite alle operazioni, come pure il libro dei cespiti. La differenza tra le imprese in contabilità ordinaria e quelle in contabilità semplificata, per la dottrina, si sostanzia nella circostanza che, per le prime, il bilancio si pone quale filtro tra la dichiarazione dei redditi e le scritture contabili, per il principio di derivazione, mentre per le seconde la determinazione del reddito poggia unicamente sulle risultanze contabili.
Con riferimento poi alle fatture emesse dalla nuova L. sas per la rivendita di alcuni beni acquistati dalla S. con le fatture contestate, si evidenzia la genericità dell’indicazione delle fatture, senza neppure l’indicazione dei soggetti cessionari di tali beni, non meglio identificati.
Anche le certificazioni relative alla rottamazione di “alcuni dei beni acquistati” con le fatture contestate si muove nell’ambito della più assoluta genericità. Le medesime considerazioni valgono per le “schede tecniche di lavorazione dei materiali acquistati” dalla S. e “impiegati nel ciclo produttivo per la rivendita successiva”. Del tutto generica è anche l’indicazione della “documentazione fotografica dei pezzi acquistati con le fatture contestate”. Del tutto anodina è poi la circostanza della emissione di “fatture di altri fornitori per l’acquisto di altri componenti, ulteriori rispetto a quelli acquistati dal S., necessari per la lavorazione e realizzazione di prodotti finiti”. Si tratta di indicazioni generiche, inidonee a fornire la prova contraria a carico del contribuente, in ordine alla sussistenza delle operazioni sottese alle fatture.
Si tratta, dunque, di fatti non dotati del requisito indefettibile della decisività.
8. Le spese del giudizio di legittimità, per il principio della soccombenza, vanno poste a carico dei ricorrenti e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna i ricorrenti a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi euro 2.100,00, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
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