CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 10 dicembre 2018, n. 31888
Licenziamento disciplinare – Ilegittimità – Risarcimento del danno – Certificazioni reddituali
Rilevato
che la Corte d’Appello di Roma con sentenza del 23 giugno- 12 luglio 2017 numero 3519 confermava la sentenza del Tribunale di Tivoli nella parte in cui aveva dichiarato illegittimo il licenziamento disciplinare intimato dalla società C. I. S.p.A. ad A. T. in data 20 febbraio 2009; riformava la sentenza nella parte in cui, condannata la società alla reintegra, liquidava il danno nella misura minima di cinque mensilità, ai sensi dell’articolo 18 legge 300/1970, nella formulazione vigente ratione temporis (anteriore alle modifiche di cui alla legge 92/2012). Per l’effetto liquidava il danno nella misura delle retribuzioni globali di fatto maturate dal licenziamento alla data di esercizio dell’opzione sostitutiva della reintegra, detratta a titolo di aliunde perceptum la somma di euro 29.126,00. Liquidava la spese del grado d’appello a carico della società C. I. Spa in € 4.000;
che, per quanto in questa sede rileva, la Corte territoriale osservava che erroneamente il giudice del primo grado, a fronte della allegazione in memoria difensiva del fatto che il T. aveva costituito una società in accomandita semplice nell’anno 2009 per la gestione di un bar – di cui era stato accomandatario fino all’agosto 2010 – aveva liquidato il danno nella misura minima di cinque mensilità per il solo fatto che il lavoratore nel termine assegnatogli non aveva prodotto le richieste certificazioni reddituali, senza ammettere la successiva produzione dei documenti. Dalla documentazione, acquisita in appello, risultava che il T. aveva percepito un complessivo reddito di impresa di euro 29.126,00, importo costituente l’aliunde perceptum da detrarre dal risarcimento ex articolo 18 L. 300/1970.
Le contestazioni sollevate dalla società, dirette a prospettare l’esistenza di un reddito superiore a quello dichiarato, erano tardive, in quanto non dedotte in primo grado e, comunque, irrilevanti, perché non idonee a superare la prova evincibile dalla documentazione fiscale.
che avverso la sentenza ha proposto ricorso la società C. I. S.p.A., articolato in due motivi, cui ha opposto difese A. T. con controricorso, contenente altresì ricorso incidentale, articolato in un unico motivo;
che la proposta del relatore è stata comunicata alle parti — unitamente al decreto di fissazione dell’udienza — ai sensi dell’articolo 380 bis cod.proc.civ.;
che le parti hanno depositato memoria;
Considerato
che la parte ricorrente ha dedotto:
– con il primo motivo – ai sensi dell’articolo 360 numero 3 codice di procedura civile — violazione e falsa applicazione degli articoli 115 e 116 codice di procedura civile. Con il motivo la società ha contestato la rilevanza probatoria attribuita dalla Corte territoriale alla documentazione fiscale acquisita in appello, deducendo trattarsi di documenti provenienti dalla parte interessata, e che, comunque, i poteri officiosi del giudice del lavoro, a fondamento della acquisizione documentale, erano stati erroneamente esercitati per sopperire all’inerzia della parte.
– con il secondo motivo – ai sensi dell’articolo 360 numero 3 codice di procedura civile – violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli articoli 416 e 345 codice di procedura civile nonché degli articoli 115 – 116 codice di procedura civile e 2729 codice civile.
Con il motivo si censura la dichiarata tardività delle allegazioni dirette a dimostrare la percezione da parte del T. di redditi non dichiarati. La ricorrente ha esposto di avere eccepito nella memoria difensiva del primo grado, documentandola, la costituzione nel dicembre 2009 di una società in accomandita semplice (T. BAR di T. A. & Co. S.a.S.) avente quale oggetto sociale la gestione di un bar in Roma e di avere nelle note conclusive allegato e documentato ulteriori fatti verificatesi in corso di giudizio:
– la costituzione da parte del T. nel maggio 2011 di un’impresa individuale con attività prevalente di distribuzione e di gestione di apparecchi per il gioco;
– l’iscrizione del T. dal 23 dicembre 2011 nella sezione A) dell’elenco dei soggetti di cui all’articolo 1, comma 533, della legge 266/2005, quale proprietario di macchine da gioco;
– la costituzione nell’ottobre 2012 di una nuova società in accomandita semplice — W. G. A & A S.a.S.di T. A.- avente quale oggetto sociale, tra l’altro, la gestione di macchinari di intrattenimento e di sale da giochi e scommesse;
– la iscrizione della predetta società dall’ 11 aprile 2013 nella sezione A) dell’elenco dei soggetti di cui all’articolo 1, comma 533, della legge 266/2005, in quanto proprietaria di macchine da gioco.
Ha dedotto, pertanto, di avere tempestivamente allegato i fatti rilevanti e di avere prodotto in appello documenti successivi alla sentenza di primo grado (istanza di accesso diretta al Ministero delle Finanze — Agenzia delle dogane Monopoli e verbale di accesso del 19/1/2015, con gli elenchi degli apparecchi da gioco di proprietà del T.). Dalla documentazione emergeva che il T. in data del 19 gennaio 2015 era proprietario di quattro macchine da gioco in esercizio e che aveva ceduto ben 61 apparecchi da gioco in data 16 settembre 2013 ed altri 6 in precedenza. WING GAME S.a.S. aveva acquisito i 61 apparecchi ceduti dal signor T., oltre ad essere proprietaria di ulteriori 12 apparecchi nuovi. Tali dati evidenziavano che l’appellante era rimasto attivo nel settore, ottenendo introiti considerevoli, tali da giustificare la rinuncia alla reintegra in servizio: i 65 apparecchi da gioco posseduti personalmente fino al 2013 comportavano un investimento di circa euro 180.000; in primo grado essa aveva dimostrato per testi l’importo medio delle giocate registrato da ciascuna macchina da gioco, pari ad € 288,19.
Con il motivo si impugna altresì l’ulteriore ratio decidendi della sentenza impugnata, laddove affermava che le allegazioni e gli elementi probatori offerti non erano idonei a superare quanto emergente dalla documentazione fiscale;
che con l’unico motivo del ricorso incidentale il controricorrente ha dedotto — ai sensi dell’articolo 360 numero 3 codice di procedura civile — violazione e falsa applicazione del D.M. 55/2014, impugnando la sentenza per avere liquidato le spese dell’appello a carico della società soccombente in euro 4.000. Il ricorrente incidentale ha assunto che lo scaglione di riferimento era stato erroneamente individuato dalla società e doveva essere fissato nella fascia di valore compresa tra euro 260.000 ed euro 520.000 (la somma complessivamente corrispostagli ammontava ad euro 271.479,26); i compensi delle varie fasi, nell’importo medio, avrebbero dovuto essere liquidati in euro 19.160;
che ritiene il Collegio si debba respingere il ricorso principale ed accogliere il ricorso incidentale;
che, invero, i due motivi del ricorso principale, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto parzialmente sovrapponibili, sono infondati.
Sul punto della acquisizione in appello della documentazione fiscale, deve darsi continuità in questa sede al principio enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte nell’arresto del 04 maggio 2017, n. 10790, relativo al testo dell’art. 345, comma 3, cod.proc.civ. previgente alla novella di cui al d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla I. n. 134 del 2012 ma dichiaratamente tuttora applicabile nel rito del lavoro ai sensi degli articoli 421 e 437 cod.proc.civ. Si è ivi affermato che nel giudizio di appello costituisce prova nuova indispensabile quella di per sé idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola, senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto indimostrato o non sufficientemente provato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado. A tale principio si è conformata la sentenza impugnata, che è dunque immune dalle censure sollevate.
Per il resto i due motivi di ricorso contestano tanto il valore probatorio attribuito dal giudice del merito alle dichiarazioni fiscali del T. ai fini della determinazione dell’aliunde perceptum che la statuizione di tardività e di difetto di prova delle allegazioni dirette a provare la esistenza di redditi maggiori di quelli dichiarati.
Deve sul punto evidenziarsi che alle dichiarazioni dei redditi prodotte dal contribuente non può negarsi rilevanza probatoria ai fini dell’accertamento dell’aliunde perceptum. La dichiarazione fiscale costituisce prova in quanto relativa ad un fatto sfavorevole al dichiarante, ai fini fiscali perché costitutivo della obbligazione tributaria, ai fini qui in trattazione quale riconoscimento del quantum da porre in detrazione dal risarcimento spettante. E’ il datore di lavoro, che eccepisce l’aliunde perceptum assumendo il relativo onere probatorio, a dovere provare quanto non risulta dalle stesse dichiarazioni della controparte. Ne consegue che il giudice del merito non ha attribuito efficacia probatoria privilegiata ad un atto dì parte; piuttosto ha ritenuto provato l’aliunde perceptum nei limiti in cui era stato riconosciuto dal lavoratore con un atto (la dichiarazione dei redditi) a sé sfavorevole.
Restano da considerare le censure mosse al giudice dell’appello per avere ritenuto non provato il reddito ulteriore.
Sul punto è decisivo osservare che il giudice dell’appello allorché afferma che gli elementi offerti dal datore di lavoro – (a prescindere dalla tempestività delle allegazioni) – non costituivano prova di un maggior reddito conseguito esprime un giudizio di merito. L’apprezzamento del peso e della rilevanza dei mezzi istruttori e la scelta tra essi di quelli più idonei a rappresentare i fatti in discussione sono infatti rimessi esclusivamente al giudice del merito e non sono sindacabili in questa sede di legittimità, tanto più in vigenza del nuovo testo dell’articolo 360 nr. 5 cod.proc.civ., che ha limitato la deducibilità del vizio di motivazione all’ipotesi dell’omesso esame di un fatto storico potenzialmente decisivo.
che la censura mossa con il ricorso incidentale è fondata;
che la liquidazione delle spese del grado da parte del giudice dell’appello è avvenuta in violazione dei parametri minimi previsti dal DM 55/2014, applicabile ratione temporis, avuto riguardo al valore della causa risultante dalla somma attribuita alla parte vittoriosa; benché i parametri generali non siano vincolanti, dovendo riconoscersi al giudice il potere di scendere anche al di sotto delle massime percentuali di scostamento, tale possibilità può essere infatti esercitata solo sulla base di apposita e specifica motivazione (Cass. sez. Ili 14 febbraio 2018 nr. 3590; sez VI 31 luglio 2018 nr. 20183), nella specie totalmente carente;
che, pertanto, la causa può essere definita con ordinanza in camera di consiglio ex articolo 375 cod.proc.civ., in difformità, quanto al ricorso incidentale, dalla proposta del relatore, con cassazione della sentenza impugnata limitatamente alla pronuncia sulle spese del grado d’appello;
che la causa va rinviata ad altro giudice, che si indica nella Corte d’Appello di Roma in diversa composizione, affinché provvedeva ad una nuova pronunzia sulle spese del grado d’appello, emendata dal vizio rilevato;
che il giudice del rinvio provvederà altresì alla liquidazione delle spese del presente grado di legittimità;
che, trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1 co. 17 L. 228/2012 (che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 DPR 115/2002) – della sussistenza dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale; accoglie il ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e rinvia – anche per le spese- alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione.
Ai sensi dell’art. 13 co. 1 quater del DPR 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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