CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 10 dicembre 2018, n. 31925
Lavoro – Licenziamento disciplinare – Codice di comportamento dell’Agenzia delle Entrate – Accesso abusivo ai dati personali dei contribuenti
Rilevato in fatto
che, con sentenza depositata il 18.9.2017, la Corte d’appello di Roma ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva rigettato l’impugnativa promossa da R.P. avverso il licenziamento disciplinare intimatogli dall’Agenzia delle Entrate per aver eseguito abusivamente numerosi accessi ai dati personali di vari contribuenti;
che avverso tale pronuncia R.P. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo due motivi di censura;
che l’Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso;
che è stata depositata proposta ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio;
Considerato in diritto
che, con il primo motivo, il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 97 Cost. per avere la Corte di merito ritenuto proporzionata la sanzione espulsiva nonostante che ad altri dipendenti, responsabili di analoghe infrazioni disciplinari, fossero state comminate sanzioni conservative;
che, con il secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione del Codice di comportamento dell’Agenzia delle Entrate emanato il 16.9.2015, per avere la Corte territoriale ritenuto che esso, nella parte in cui vieta ai dipendenti di utilizzare gli strumenti informatici a loro disposizione al di fuori delle prescritte autorizzazioni, fosse applicabile anche a fatti anteriori alla sua entrata in vigore;
che il primo motivo è palesemente inammissibile, atteso che il giudizio di proporzionalità è stato impugnato in questa sede dal ricorrente non già per essersi la Corte di merito discostata dagli standard valutativi esistenti nella realtà sociale, ma per avere a suo dire errato nell’accertamento della concreta ricorrenza degli elementi fattuali che integrano il parametro normativo della parità di trattamento ex art. 97 Cost., la qual cosa, oltre ad essere normalmente riservata al giudice di merito (cfr. da ult. Cass. n. 7426 del 2018), non è in specie denunciabile in questa sede nemmeno ex art. 360 n. 5 c.p.c., vertendosi in ipotesi di c.d. doppia conforme di merito ex art. 348-ter c.p.c. e non avendo parte ricorrente dimostrato che le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello sono tra loro diverse (Cass. nn. 5528 del 2014, 19001 e 26774 del 2016);
che parimenti inammissibile è il secondo motivo, non avendo parte ricorrente mosso alcuna censura all’affermazione della sentenza secondo cui i fatti contestatigli sarebbero «in chiarissimo contrasto con l’art. 65 cali di settore (obblighi del dipendente)», secondo il quale, tra l’altro, «il dipendente deve in particolare non utilizzare a fini privati le informazioni di cui disponga per ragioni di ufficio» (così la sentenza impugnata, pagg. 3-4), ed essendosi chiarito che, qualora la sentenza del giudice di merito si fondi su più ragioni autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente idonea a sorreggere la decisione, l’omessa impugnazione, con ricorso per cassazione, anche di una soltanto di tali ragioni determina l’inammissibilità, per difetto di interesse, anche del gravame proposta avverso le altre, in quanto l’eventuale accoglimento del ricorso non inciderebbe sulla ratio decidendi non censurata, con la conseguenza che la sentenza impugnata resterebbe, pur sempre, fondata su di essa (cfr. fra le tante Cass. nn. 3951 del 1998, 5902 del 2002, 8990 del 2005, 22753 del 2011, 4293 del 2016);
che il ricorso, pertanto, va dichiarato inammissibile, provvedendosi come da dispositivo sulle spese del giudizio di legittimità, giusta il criterio della soccombenza;
che, in considerazione della declaratoria d’inammissibilità del ricorso, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso;
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in €, 4.200,00, di cui € 4.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
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