CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 10 febbraio 2021, n. 3253
Tributi – Accertamento – Fatture per acquisti relativi ad operazioni inesistenti – Presunzione – Onere di prova contraria a carico del contribuente
Rilevato che
La E.G.E. s.a.s di F.F. & C (cessata) e per essi i suoi soci L.L., G. e F. hanno proposto ricorso avverso la sentenza n. 88/49/2013, depositata l’11 luglio 2013 dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia, con la quale è stato rigettato l’appello dei ricorrenti avverso gli avvisi di accertamento, notificati alla società e ai suoi soci, relativamente all’anno d’imposta 1994.
La controversia trae origine da una verifica condotta sulla società, e, sulla base del processo verbale di constatazione redatto al suo esito, dalla emissione di quattro avvisi di accertamento, notificati ai fini Ilor alla società e ai fini Irpef nei confronti dei soci. Introdotti distinti giudizi, essi erano stati riuniti e decisi dalla Corte di cassazione con sentenza n. 734 del 2010, che aveva rinviato il processo (per mancato rispetto del litisconsorzio necessario) dinanzi al giudice di primo grado.
Con le successive decisioni n. 7/01/2012 della Commissione tributaria provinciale di Milano e n. 88/49/2013 della Commissione tributaria regionale della Lombardia, ora impugnata dinanzi a questa Corte, le doglianze dei contribuenti erano state rigettate. Per quanto qui d’interesse il giudice d’appello ha considerato che negli atti impositivi, che con motivazione per relationem rinviavano all’allegato processo verbale di constatazione, fossero segnalate incongruenze in numerose fatture ed autofatture della società, emergendo operazioni inesistenti che rendevano inattendibile la dichiarazione fiscale della società. Ha quindi disatteso le ragioni difensive dei contribuenti, in ordine al preteso onere dell’Amministrazione finanziaria di dare prova analitica dell’inattendibilità di ciascuna fattura, rigettando pertanto il loro ricorso.
La sentenza è censurata con due motivi:
con il primo per violazione e falsa applicazione degli artt. 2945 e 2312 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., per non essersi pronunciati sulla avvenuta dichiarazione di cancellazione della società dal registro delle imprese e non aver tenuto conto delle conseguenze della suddetta cancellazione;
con il secondo per violazione e falsa applicazione dell’art. 75 (ora art. 109) d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, dell’art. 54, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, dell’art. 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., per non aver tenuto conto del diritto della società alla detrazione dei costi sostenuti ai fini della determinazione del reddito.
Ha dunque chiesto la cassazione della sentenza, con ogni consequenziale decisione.
Si è costituita l’Agenzia delle entrate, che contestando le ragioni del ricorso, ne ha chiesto il rigetto.
Considerato che
Esaminando il primo motivo, con esso i contribuenti si dolgono della mancata pronuncia del giudice d’appello sulla avvenuta cancellazione della società dal registro delle imprese e sulle conseguenze dell’estinzione della società. Da ciò, deducono i ricorrenti, doveva derivare l’improcedibilità del procedimento <<con conseguenziale ed indotta nullità dell’avviso di accertamento intestato alla società e degli avvisi di accertamento notificati ai Soci>>.
Il motivo, quando voglia escludersene l’inammissibilità, è infondato.
Innanzitutto non è del tutto comprensibile se con la censura i contribuenti abbiano voluto denunciare una omessa pronuncia, della quale però non vi è alcun riferimento nell’epigrafe del motivo, mancando un qualunque richiamo all’art. 112 cod. proc. civ. o al vizio processuale denunciabile in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., oppure se, come da conclusioni, si è voluta censurare l’erroneità della decisione, sotto il profilo del vizio di interpretazione della norma, per non aver dichiarato l’improcedibilità del giudizio con declaratoria di nullità di tutti gli avvisi di accertamento.
In ogni caso le critiche mosse alla decisione sono del tutto infondate. Intanto la cancellazione della società dal registro delle imprese, accadimento sulla cui collocazione temporale la difesa nulla dice -ma ad un tempo afferma che per alcuni gradi del giudizio era stata la società a promuovere l’avviso di accertamento e ad impugnare le decisioni sfavorevoli, è fatto certamente avvenuto dopo la notifica dell’atto impositivo, sicché non è dato comprendere perché da esso doveva conseguire la nullità dell’avviso di accertamento indirizzato alla società e degli atti impositivi notificati ai soci.
Ciò precisato, questa Corte ha affermato che la cancellazione dal registro delle imprese di una società di persone, analogamente a quanto avviene con riferimento ad una società di capitali, determina l’estinzione del soggetto giuridico e la perdita della sua capacità processuale. Ne consegue che, nei processi in corso, anche se essi non siano interrotti per mancata dichiarazione dell’evento interruttivo da parte del difensore, la legittimazione sostanziale e processuale, attiva e passiva, si trasferisce automaticamente, ex art. 110 cod. proc. civ., ai soci, che, per effetto della vicenda estintiva, divengono partecipi della comunione in ordine ai beni residuati dalla liquidazione o sopravvenuti alla cancellazione, e, se ritualmente evocati in giudizio, parti di questo, pur se estranei ai precedenti gradi del processo (Cass., 6/06/2012, n. 9110; 23/07/2012, n. 12796; 5/11/2014, n. 23574; 4/08/2017, n. 19580).
Nel caso di specie, dopo la sentenza n. 734 del 2010, che, dopo aver riunito tutti i processi, cassò le pronunce impugnate per aver rilevato il mancato rispetto del contraddittorio, rinviando al giudice di primo grado, la causa fu riassunta quanto meno da tutti i soci; così accadde anche in sede d’appello. In tal modo si determinò una automatica successione di essi nella posizione processuale della società di persone, ai sensi dell’art. 110 cod. proc. civ., per cui risulta incomprensibile quale diversa decisione dovesse assumere la Commissione regionale, non potendo di certo neppure interrompere un giudizio ormai completo delle sue parti.
È altrettanto infondato il secondo motivo, con il quale i contribuenti hanno lamentato violazioni di norme di legge, perché con la decisione di rigetto dell’appello la Commissione regionale non avrebbe tenuto conto del diritto della società alla detrazione dei costi sostenuti ai fini della determinazione del reddito.
Nelle numerose pagine dedicate ad argomentare la censura i contribuenti si sono intrattenuti sulla portata interpretativa di alcune norme, in particolare sull’art. 74 del d.P.R. n. 633 del 1972 e sui ripetuti interventi modificativi del suo contenuto, per evidenziare principalmente gli obblighi riconducibili alla fatturazione e alla autofatturazione afferente determinate merci, nonché i principi che presidiano il diritto alla detrazione dell’imposta assolta. Hanno quindi criticato la decisione in ordine al governo del riparto dell’onere probatorio, lamentando che l’Amministrazione non può limitarsi ad affermare la fittizietà delle fatture, dovendo analiticamente dimostrare la non rispondenza della documentazione fiscale alle operazioni economiche in essa sottese.
La censura non coglie nel segno. La sentenza infatti, sia pur con motivazione sintetica, non inverte alcuno dei principi affermati dalla giurisprudenza in ordine al riparto dell’onere probatorio in materia di fatture emesse per operazioni ritenute inesistenti. È qui utile innanzitutto evidenziare che la sentenza d’appello ha fatto espresso riferimento alle risultanze apprezzate dal giudice di primo grado, nella cui motivazione, riportata in ricorso dai contribuenti medesimi, è dato evincere che in riferimento alle autofatture <<non vi era certezza sulla vera identità degli intestatari né della loro residenza…>>; quanto alle fatture emesse dalla CAM, società di cui si rileva l’assenza di qualunque struttura operativa, nella decisione del giudice di primo grado si afferma che <<non viene fornita alcuna prova in ordine alla effettività delle operazioni contestate, limitandosi il ricorrente a far valere la falsità soggettiva delle fatture.». È dunque palese che, al di là delle affermazioni difensive, si tratti di fatture afferenti ad operazioni oggettivamente inesistenti, circostanza su cui d’altronde insiste la difesa dell’Agenzia delle entrate.
Ebbene, a fronte delle evidenze emerse dalla verifica nei confronti della società, riportate nella sentenza del giudice di primo grado, cui mostra inequivocamente di rinviare il giudice d’appello (assenza di qualunque struttura operativa della società CAM emittente fatture, e assenza di elementi da cui risalire alla identità dei cedenti i rottami quanto alle autofatturazioni), il principio affermato dalla Commissione regionale, secondo cui <<l’esistenza o meno di operazioni portate quali componenti negative di reddito va dimostrata, anche per quanto riguarda l’inerenza rispetto all’attivitá svolta, dalla società contribuente>>, è rispettoso dei principi di diritto espressi da questa Corte (cfr. Cass., 5/07/2018, n. 17619, nella quale si afferma che una volta assolta da parte dell’Amministrazione finanziaria la prova – ad esempio, mediante la dimostrazione che l’emittente è una “cartiera” o una società “fantasma” – dell’oggettiva inesistenza delle operazioni, spetta al contribuente, ai fini della detrazione dell’IVA e/o della deduzione dei relativi costi, provare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate, senza che, tuttavia, tale onere possa ritenersi assolto con l’esibizione della fattura ovvero in ragione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, che vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia; cfr. anche 30/10/2018, n. 27554; 14/05/2020, n. 8919).
La pronuncia pertanto ha correttamente inquadrato la fattispecie, collocandola nell’alveo delle operazioni oggettivamente inesistenti, così come risulta coerente con i parametri normativi che regolamentano la distribuzione dell’onere della prova. Ne discende anche che in ordine alla deducibilità dei costi, su cui la difesa dei contribuenti pure si sofferma, è qui sufficiente rammentare che essa non può riconoscersi per costi riportati in fatture afferenti ad operazioni oggettivamente inesistenti. In tema di imposte sui redditi questa Corte ha infatti affermato che, l’art. 14, comma 4-bis, della l. 24 dicembre 1993, n. 537, anche nella formulazione introdotta con l’art. 8, comma 1, del d.l. 2 marzo 2012, n. 16, conv., con modif., dalla l. 26 aprile 2012, n. 44, l’acquirente dei beni può dedurre i costi relativi ad operazioni soggettivamente inesistenti, pur quando sia consapevole del loro carattere fraudolento – salvi i limiti derivanti, in virtù del d.P.R. n. 917 del 1986, dai principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità, mentre è comunque esclusa la deducibilità dei costi delle operazioni oggettivamente inesistenti (Cass., 7/12/2016, n. 25249; 19/12/2019, n. 33915).
Il ricorso va dunque rigettato e i ricorrenti vanno condannati alle spese del giudizio di legittimità, nella misura liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti alla rifusione in favore dell’Agenzia delle entrate delle spese processuali, che si liquidano nella misura di € 13.200,00, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis del medesimo articolo 13, se dovuto.
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