CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 10 luglio 2019, n. 18557
Nocività lavorazioni svolte – Danni subiti – Accertamento in sede penale – Prescrizione azioni proposte
Rilevato che
1. la Corte di Appello di Roma, con sentenza del 5 giugno 2017, ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva respinto le domande dei ricorrenti in epigrafe, quali ex dipendenti della S. Spa (poi A. Srl in liquidazione) o congiunti di ex dipendenti deceduti, volte ad ottenere il risarcimento dei danni subiti in relazione alla nocività delle lavorazioni svolte presso gli stabilimenti societari sino ai primi anni ’90, come definitivamente accertato in sede penale da Cass. n. 8641 del 2010 che aveva reso definitiva la condanna di F.T., già legale rappresentante di S.;
2. la Corte territoriale ha innanzitutto affermato il difetto di legittimazione passiva di A.M.P.G., originariamente convenuta in giudizio quale erede del T., non avendo le parti attrici fornito la prova di tale qualità;
3. ha poi giudicato prescritte la gran parte delle azioni proposte, per decorrenza del termine decennale (ovvero di 12 o 14 anni per le morti successive al 2005), dalla data di verificazione dei singoli eventi dannosi (morte o lesioni), non potendosi il dies a quo far decorrere dalla conclusione del processo penale sopra menzionato – come richiesto dagli attori – “giacché, ai fini della decorrenza della prescrizione, basta la consapevolezza della citata rapportabilità causale, e non occorre la certezza della responsabilità degli autori del danno, tanto meno della loro responsabilità penale”;
4. limitatamente ai congiunti dei lavoratori deceduti M., R. e C., la Corte romana ha ritenuto non prescritto il loro diritto al risarcimento del danno ma, espletata consulenza tecnica d’ufficio in grado d’appello, ha ritenuto non provato il nesso di derivazione causale tra le mansioni espletate dai lavoratori e le malattie che avevano condotto costoro alla morte;
5. i ricorrenti in epigrafe hanno proposto ricorso per la cassazione di tale sentenza con 6 motivi, cui ha resistito con controricorso la sola P.G. mentre le due società intimate non hanno svolto attività difensiva;
6. il P.G. ha comunicato le sue conclusioni di rigetto del ricorso, cui hanno replicato i ricorrenti con memoria;
Considerato che
1. con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione degli artt. 115, 167 e 437 c.p.c. e, “relativamente all’accettazione dell’eredità per decadenza del beneficio di inventario essendovi stata disposizione dei beni della successione prima della rinuncia alla eredità medesima” da parte della P.G., degli “artt. 493 c.p.c.e ss.” (così nella rubrica del motivo di ricorso); si lamenta, in ordine alla affermata carenza di legittimazione passiva della vedova T., che il Collegio giudicante non avrebbe “adeguatamente esaminato la documentazione in atti” atteso che la P.G. avrebbe invece “tacitamente accettato l’eredità” e che, “stante la contumacia della Sig.ra P. in primo grado, si deve necessariamente ritenere provato l’assunto attoreo”;
il motivo non merita accoglimento;
in disparte la manifesta infondatezza dell’assunto circa l’operatività del principio di non contestazione in caso di contumacia, principio che l’art. 115 c.p.c. limita “alla parte costituita” e che le Sezioni unite di questa Corte hanno altresì escluso in caso di contestazioni, da parte del convenuto, della titolarità del rapporto controverso (Cass. SS.UU. n. 2951 del 2016), la censura non evidenzia affatto un error in iudicando ma piuttosto critica l’apprezzamento di fatto compiuto dalla Corte di merito – insindacabile in questa sede – in ordine all’accettazione o meno dell’eredità da parte della successibile, per di più facendo riferimento a documenti di cui non viene riportato neanche l’esatto contenuto di modo che resta impedita qualsiasi possibilità di apprezzarne la decisività;
2. il secondo motivo denuncia violazione dell’art. 652 c.p.p. e dell’art. 2947, co. 3, c.c., criticando la sentenza impugnata per avere dichiarato la prescrizione dei diritti di gran parte dei lavoratori o dei loro congiunti, nonostante costoro, fino al momento del passaggio in giudicato della sentenza della Cassazione penale del 2010, non potessero avere “alcuna certezza giudiziaria in ordine al nesso di causalità tra gli eventi lesivi ed il contatto con le sostanze cui erano esposti i dipendenti S.”;
la censura non può trovare accoglimento;
fermo il principio sancito dalle Sezioni unite di questa Corte, secondo cui “il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre, a norma degli artt. 2935 e 2947, c. 1, c.c., non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione che produce il danno altrui o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, ma dal momento in cui viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l’ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche” (sent. n. 576 del 2008), il motivo, nel proporre quale dies a quo della decorrenza del termine di prescrizione quello della sentenza penale cassazionale che ha definito il procedimento a carico del rappresentante legale dell’azienda presso cui avevano lavorato gli istanti, evidentemente propone una diversa ricostruzione dei fatti storici in ordine al momento in cui costoro avessero percepito o avessero potuto percepire la malattia come conseguenza del comportamento di un terzo, mentre la Corte territoriale ha plausibilmente ritenuto che, già al momento dell’insorgenza della malattia, vi fosse tale consapevolezza, “posto che, per ammissione stessa degli appellanti, la pericolosità delle sostanze impiegate e la loro attitudine a provocare malattie (e la morte) erano antecedentemente ben note (almeno dalla fine degli anni ’90) alla letteratura scientifica”; sicché – continua la Corte di Appello – “gli appellanti (o i loro danti causa), se diligenti, avrebbero potuto avere contezza dell’eziologia professionale sin dalla data di conclamazione delle loro patologie”;
pertanto, come condivisibilmente osservato dalla Procura Generale, la censura si muove “sul terreno della valutazione squisitamente di merito”, non riguardando profili di legittimità ma piuttosto richiedendo un diverso apprezzamento delle circostanze fattuali già prese in considerazione dai giudici di appello, per di più partendo dall’errato presupposto che i danneggiati dovessero attendere la sentenza della Cassazione per avere “certezza giudiziaria in ordine al nesso di causalità tra gli eventi lesivi ed il contatto con le sostanze cui erano esposti i dipendenti S.” onde potere far valere il loro diritto;
3. con il terzo mezzo si denuncia violazione dell’art. 195, co. 3, c.p.c., con conseguente nullità della CTU, relativa ai lavoratori deceduti, per non essere stata trasmessa alle parti costituite la bozza di relazione ma solo un “verbale di riunione peritale” nel quale il consulente significava dì non poter svolgere l’incarico senza entrare in possesso di “ulteriore documentazione relativa ai casi dei tre periziandi”; si lamenta che il Collegio d’appello avrebbe prima autorizzato e poi revocato l’ordinanza con cui aveva concesso al consulente di acquisire ulteriore documentazione, criticando altresì l’operato del medesimo CTU che non avrebbe svolto “ogni opportuno accertamento”, chiedendo agli ospedali “le cartelle cliniche” dei deceduti, senza neanche esaminare “tutti i documenti allegati al fascicolo di parte”;
il motivo risulta inammissibile in quanto non sono riportati in esso i contenuti testuali degli atti processuali e dei documenti indispensabili al fine di delibare la fondatezza del gravame, precludendo a questa Corte di effettuare il dovuto controllo sulla decisività dei fatti, anche processuali, da provare;
inoltre la critica prospetta un errore di attività del giudice ma le contestazioni sollevate ad una la consulenza tecnica d’ufficio dalle parti possono riguardare il procedimento, oppure il contenuto di essa (cfr. Cass. n. 30139 del 2018); nel primo caso integrano eccezioni di nullità e si inquadrano nell’ambito di applicazione degli art. 156-157 c.p.c., mentre le seconde costituiscono argomentazioni difensive, sebbene non di carattere tecnico-giuridico, le quali non soggiacciono a detto rigoroso termine di decadenza (cfr. Cass. n. 15418 del 2016); in particolare laddove l’alterazione procedimentale determini un pregiudizio del diritto di difesa, essa si traduce, per consolidata giurisprudenza di legittimità (tra molte v. Cass. n. 1744 del 2013), in una nullità assoggettata al rigoroso limite preclusivo di cui all’art. 157 c.p.c. sicché tale nullità resta sanata se non eccepita nella prima istanza o difesa successiva al deposito; nel motivo in esame non si specifica il contenuto testuale dell’atto processuale (né si indica dove il medesimo sia esattamente reperibile nell’ambito del giudizio di legittimità) nel corpo del quale sia stata formalmente e tempestivamente eccepita la nullità procedimentale di violazione dell’art. 195 c.p.c. nella prima istanza o difesa successiva al deposito della consulenza viziata, sì da consentire a questa Corte di valutare, sulla base della sola lettura del ricorso per cassazione, che la pretesa nullità fosse stata o meno sanata;
4. con il quarto motivo si denuncia violazione degli artt. 421 e 437 c.p.c., in relazione al mancato utilizzo del potere-dovere del giudice del lavoro, anche in grado di appello, di attivare i suoi poteri officiosi, anche “perché oggetto di espresse richieste scritte e verbali della difesa dei ricorrenti”;
anche tale motivo non può trovare accoglimento in quanto privo della necessaria specificità, non essendo trascritti i contenuti degli atti processuali con cui i poteri officiosi sarebbero stati sollecitati né si indica dove tali documenti siano reperibili nell’ambito del giudizio di Cassazione; invero, secondo questa Corte, pur costituendo l’uso dei poteri istruttori da parte del giudice ex artt. 421 e 437 c.p.c. un potere-dovere del cui esercizio o mancato esercizio questi è tenuto a dar conto, tuttavia, al fine di censurare idoneamente in sede di ricorso per cassazione l’inesistenza o la lacunosità della motivazione sulla mancata attivazione di detti poteri, occorre dimostrare di averne sollecitato l’esercizio (cfr. Cass. n. 25374 del 2017 e Cass. n. 22534 del 2014);
nella specie parte ricorrente, pur consapevole di tale principio, si limita ad affermare più volte di aver formulato “richieste scritte e verbali” in tal senso, ma nel corpo del motivo non dettaglia il contenuto di tali richieste né specifica in quale sede processuale il documento risulti prodotto (per tutte v. Cass. SS.UU. n. 28547 del 2008); anzi, la sentenza impugnata chiarisce che le produzioni documentali sarebbero “intervenute addirittura dopo la chiusura (in secondo grado) delle operazioni peritali, senza che sia stata addotta alcuna ragione a giustificazione della pregressa inerzia” e tale motivazione non risulta in alcun modo adeguatamente censurata;
5. il quinto motivo denuncia “violazione di legge ex art. 360 c.p.c. in relazione alle normative nazionali ed europee concernenti le sostanze disinfestanti e anticrittogamiche che producono danni alla salute umana”; il sesto denuncia “violazione di legge ex art. 360 n. 3 c.p.c. in relazione alla declaratoria di ininfluenza del riconoscimento operato dal Liquidatore Giudiziale Bizzarri”;
i motivi sono congiuntamente esaminabili perché affetti dal medesimo vizio che rende i medesimi inammissibili;
infatti, con riferimento alla violazione e falsa applicazione di legge ex art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., il vizio va dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. n. 287 del 2016; Cass. n. 635 del 2015; Cass. n. 25419 del 2014; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012), mentre nella specie con il quinto motivo nella sostanza si deduce, in fatto, che sussisteva il nesso causale tra le lavorazioni svolte dai lavoratori deceduti e le malattie contratte e con il sesto mezzo si invoca, sempre in fatto, un diverso apprezzamento delle dichiarazioni rese dal liquidatore della S., con argomentazioni del tutto eccentriche rispetto al prospettato error in iudicando;
6. conclusivamente il ricorso deve essere respinto, con spese liquidate secondo soccombenza nei confronti A.M.P.G.; nulla invece in favore delle società intimate che non hanno svolto attività difensiva;
occorre inoltre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese liquidate in favore della controricorrente in euro 4.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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