CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 10 marzo 2020, n. 6750
Demansionamento – Risarcimento del danno biologico subito dal lavoratore – Danno alla professionalità
Rilevato
che il Tribunale di Roma, con sentenza n. 18666 del 20-1-2011, ha accolto parzialmente la domanda di G.D.T., volta al ristoro dei danni subiti per effetto del demansionamento (consistente nel non essere stato reintegrato, all’esito dell’accertamento giudiziale della illegittimità del suo pregresso licenziamento, nella posizione di direttore di agenzia in precedenza rivestita), fino al 2006, respingendo la domanda volta al ristoro del danno biologico;
che la Corte di appello di con la sentenza impugnata, in parziale accoglimento dei gravami formulati dal D.T., ha invece condannato la banca al risarcimento del danno biologico subito dal lavoratore, mentre (accogliendo parzialmente l’appello incidentale ed in riforma della prima pronuncia) ha respinto la sua domanda volta al ristoro del danno alla professionalità e le ulteriori domande risarcitorie; che a fondamento del decisum, la Corte territoriale ha ritenuto, quanto al danno alla professionalità, che nonostante fosse stato accertato il demansionamento anche dopo il 2006, non potesse trovare accoglimento la domanda relativa, poiché il lavoratore non avrebbe allegato i pregiudizi subiti alla professionalità per effetto dell’accertato demansionamento (cfr. pag. 4 primo capoverso); che, invece, la corte ha accolto la domanda di risarcimento del danno biologico sul rilievo della corretta deduzione, da parte dell’appellante, dell’inadempimento del datore che lo aveva costretto – una volta riammesso in servizio – a una sostanziale inattività, delle patologie contratte e del nesso di causalità tra esse e l’intervenuto demansionamento;
che avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione il D.T., affidato a quattro motivi;
che la Banca Monte dei paschi di Siena ha resistito con controricorso, proponendo altresì ricorso incidentale affidato a due motivi;
che il P.G. non ha formulato richieste scritte
che sono state depositate memorie illustrative dalla controricorrente.
Considerato
che, con il ricorso principale per cassazione, in sintesi, si censura:
1) ai sensi dell’art. 360 co. 1 nn. 3 e 5 c.p.c. la violazione e falsa applicazione dell’art. 334 c.p.c. in relazione agli artt 327 e 329 c.c. nonchè l’omesso esame circa la spontanea acquiescenza prestata, senza aver formulato riserva di appello, dalla datrice di lavoro, alla pronuncia di primo grado, per la parte relativa alla liquidazione equitativa del danno alla professionalità;
sul punto, in particolare si duole il ricorrente che avrebbe errato la sentenza di appello nel riformare la pronuncia, dal momento che la banca aveva dato spontanea esecuzione alla sentenza di primo grado, aveva posto in essere comportamenti incompatibili con la volontà di impugnare, ed aveva corrisposto al lavoratore la somma che in primo grado era stata accertata sia pure in base a valutazione equitativa a titolo risarcitorio;
2) ai sensi dell’art 360 comma 1, nn. 3 e 5 c.p.c. la violazione e falsa applicazione degli artt. 2909, 2103 c.c., dell’art. 18 in relazione all’art 25 della legge n 300 del 1970, nonché l’omesso esame di fatti decisivi per la controversia oggetto di discussione tra le parti; la corte territoriale avrebbe erroneamente circoscritto l’oggetto del contendere all’accertato demansionamento, mentre avrebbe dovuto esaminare l’inadempimento alla pronuncia giurisdizionale di reintegra nella precedente posizione lavorativa, delle cui conseguenze la banca avrebbe dovuto rispondere a titolo risarcitorio;
3) ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 e 5 c.p.c. la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 132, n. 4. c.p.c. in relazione all’art. 111 Cost., nonché l’omesso esame della vicenda della “emarginazione” del lavoratore da qualsiasi attività bancaria, emersa dall’istruttoria processuale; la contraddittorietà della motivazione di rigetto del danno alla professionalità, poiché la corte, nel dare atto della fondatezza del primo motivo dell’appello principale con il quale il ricorrente rivendicava l’estensione dell’indennizzo anche il periodo dal 1 gennaio 2007 al 31 marzo 2008, avrebbe poi rigettato la domanda volta al risarcimento di tale danno, accogliendo solo quella relativa al danno biologico, nonostante il D.T. avesse allegato di essere stato lasciato senza svolgere alcuna mansione;
4) ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 e 5 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 1226, 2043, 2087 e 2103 c.c., degli artt, 416, ultimo comma e 167 cpc in relazione agli artt 1, 2.3, 4, 35 e 41 cost, nonche degli art. 115 c.p.c. e 2769 cc, ed omesso esame di fatti decisivi.
Si duole, in particolare, il ricorrente, che la corte non abbia correttamente applicato il ragionamento presuntivo, di cui al 115 c.p.c., accogliendo del danno alla professionalità, sulla base delle allegazioni fornite (inquadramento pregresso, pregresse funzioni di direttore di agenzia con più di nove dipendenti, emarginazione dall’attività produttiva e danno alla professionalità ed esistenziale) a fronte della omessa prova contraria da parte del datore; che con il ricorso incidentale in sintesi, si censura -ai sensi dell’art 360, comma 1, n. 3 la violazione e falsa applicazione art. 7 L.300/1970, dell’art. 2103 c.c. nonché dell’art. 41 cost., in cui sarebbe incorsa la sentenza, allorché, nel valutare la domanda di risarcimento del danno biologico, afferma che il datore di lavoro per evitare responsabilità risarcitorie conseguenti al demansionamento del dipendente, sarebbe tenuto a disporre il suo trasferimento di imperio e/o ad esercitare il potere disciplinare in caso di rifiuto opposto da questi a ricoprire una posizione lavorativa conforme alle mansioni rivestite;
– ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 la violazione e falsa applicazione dell’art 13 del d.lgs. 20 febbraio 2000 n 38 nonché dell’art. 10 del d.p.r. 1124/1965, in cui sarebbe incorsa la corte che avrebbe riconosciuto il danno biologico nonostante il lavoratore non avesse correttamente formulato la relativa domanda; in particolare non indicando la specifica misura di sicurezza violata, nè il fatto reato commesso dal datore di lavoro, agendo in giudizio per il risarcimento dell’intero danno biologico e non del mero danno differenziale, che è l’unico che incombe al datore di lavoro, senza dedurre di aver chiesto indennizzo INAIL, e risultando del tutto inconferente il rilievo formulato dalla corte territoriale secondo cui il danno biologico sarebbe stato valutato in misura inferiore al minimo indennizzabili dall’INAIL.
che, il ricorso e il ricorso incidentale devono essere rigettati che il primo motivo di ricorso è infondato; dalla documentazione allegata al controricorso e ivi richiamata (pag. 18 e ss.) emerge, infatti, che l’adempimento avvenne con riserva di impugnazione; ciò esclude, quindi, il dedotto effetto preclusivo dell’adempimento stesso, essendone state chiarite le ragioni, e risultando, peraltro obbligatorio e non significativo in termini di acquiescenza, in ragione del regime di esecutività della sentenza di primo grado, ai sensi dell’art. 282 c.p.c.; che il secondo, il terzo e quarto motivo, i quali per ragioni di connessione logico-giuridica possono essere trattati congiuntamente, sono inammissibili;
che il nuovo testo dell’art. 360 co. 1 n. 5 cpc, applicabile in causa ratione temporis, invero, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Al compito assegnato alla Corte di Cassazione resta dunque estranea una verifica della sufficienza e della razionalità della motivazione sulle quaestiones facti che implichi un raffronto tra le ragioni del decidere espresse nella sentenza impugnata e le risultanze del materiale probatorio sottoposto al vaglio del giudice di merito.
Il ricorrente, nel caso di specie, pur formalmente deducendo violazioni di legge, non si duole del mancato esame di un fatto storico ma, in sostanza, della valutazione di merito in ordine ai fatti esaminati in sentenza, non sindacabile – per quanto sopra detto – da questa Corte.
In particolare, la gravata sentenza, ha evidenziato, nel negare riconoscimento al danno alla professionalità, che il lavoratore non ha allegato, per il periodo considerato, i pregiudizi scaturenti dall’accertato demansionamento; (cfr. pag. 4 primo capoverso), con la conseguenza che, fermo l’inadempimento del datore di lavoro ad adibire il lavoratore alle mansioni precedenti, non possa trovare ingresso il risarcimento del danno ulteriore, a meno di non volere, inammissibilmente, ritenere coincidente il mero demansionamento con il danno alla professionalità (cfr. Cass. S.U. 26972/2008, n. 5067/2010, n. 24143/2010).
La corte, oltre a puntualizzare la mancanza di ulteriori allegazioni, e la omessa descrizione delle mansioni svolte (cfr. pag. 5) in particolare, per respingere la domanda, senza incorrere in alcuna delle denunciate contraddizioni, ha richiamato le dichiarazioni dello stesso ricorrente, con le quali questi aveva assicurato come sarebbe stato in grado, al momento del rientro, di svolgere i compiti precedentemente assegnatigli, poiché “le procedure operative della Banca sono rimaste le medesime”, ed ha poi coerentemente escluso, sulla scorta delle medesime dichiarazioni, che i tre anni precedenti alla reintegra avessero comportato un danno alla professionalità, di carattere patrimoniale;
che, a fronte di tale motivazione le censure di cui al secondo, terzo e quarto motivo, pur dedotte quali violazioni di legge, formulano, invece, una motivazione alternativa e in disaccordo a quella logicamente sviluppata dalla corte di merito, proponendo un nuovo apprezzamento dei fatti e delle prove inammissibile in questa sede; né emerge alcun vizio di motivazione quale omesso esame di fatti decisivi, poiché la corte ha correttamente applicato (e richiamato) la costante giurisprudenza di questa corte quanto agli oneri di allegazione in caso di danno alla professionalità e ne ha escluso correttamente la sussistenza, che del pari infondato è il ricorso incidentale, che sostanzialmente censura il capo di sentenza che riconosce, in favore del ricorrente, il danno biologico, poiché tale pregiudizio appare correttamente accertato e liquidato dalla corte di appello conformemente ai principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità;
ed invero, al riguardo, la corte territoriale, ha correttamente dato conto della deduzione, da parte del ricorrente, del fatto storico dell’inadempimento datoriale, che lo aveva lasciato pressoché inattivo, della indicazione delle patologie contratte e del nesso di causalità tra esse e l’intervenuto demansionamento, nonché della produzione della documentazione medica attestante la malattia e la sua dipendenza dal dedotto demansionamento, chiarendo, in termini generali sulla scorta della giurisprudenza di questa corte (cfr. ex multis Cass. 14 ottobre 2016, n. 20807; vedi anche Cass. 10 aprile 2017, n. 9166; Cass. n. 27669 del 2017 e n. 25618 del 2018), come il mero indennizzo previdenziale non possa essere considerato esaustivo del diritto alla tutela integrale della salute, di matrice costituzionale, dovendosi ammettere risarcibilità integrale del danno biologico, e quindi accogliendo la domanda di risarcimento, liquidando il danno e ponendolo integralmente a carico del datore di lavoro poiché quantificabile – nel caso concreto – nella misura del 3% di invalidità accertata dal CTU (in un contesto normativo in cui risulta indennizzabile, dall’INAIL, solo il danno pari o superiore al 6% ed escludendo correttamente, pertanto, ogni questione di danno differenziale); il primo motivo, in particolare, con il quale la ricorrente incidentale censura le argomentazioni della corte relative all’utilizzo di misure quali il trasferimento d’ufficio o il potere disciplinare in alternativa alla adibizione a mansioni inferiori, appare inammissibile, poiché, per un verso, è incentrato su affermazioni di contorno, che non costituiscono il nucleo essenziale della pronuncia adottata dalla corte territoriale e non si confronta con la autentica “ratio decidendi” della pronuncia, fondata – come visto – sulla corretta applicazione e deduzione dell’art.2087 c.c., per altro verso denuncia, in sostanza (pur nella formale indicazione del vizio di violazione di legge) un vizio di motivazione, con conseguente inammissibilità del motivo, che travalica i limiti imposti ad ogni accertamento di fatto dal novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., come interpretato da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014; analogamente inammissibile il secondo motivo di ricorso incidentale; che contesta la valutazione operata dalla cote quanto alla liquidazione del danno biologico del 5%, interamente a carico del datore di lavoro, che risponderebbe del solo danno cd. differenziale; ed infatti, la corte ha correttamente evidenziato come il lavoratore abbia fornito tutte le allegazioni necessarie al risarcimento di un danno totalmente a carico del datore poiché inferiore, per come pacificamente accertato, all’area coperta dell’indennizzo previdenziale; che alla stregua di quanto esposto sia il ricorso principale che quello incidentale devono, pertanto, essere rigettati, con compensazione delle spese del giudizio di legittimità; che, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale. Compensa le spese Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e di quello incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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