CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 aprile 2019, n. 10238
Lavoro – Dimissioni per giusta causa – Risoluzione del rapporto – Violazione da parte del lavoratore del patto di non concorrenza
Rilevato che
L.I. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Parma la M.I. s.r.l. chiedendo accertarsi la risoluzione del rapporto inter partes a seguito delle rassegnate dimissioni per giusta causa, nel rispetto del patto di non concorrenza, con conseguente condanna della società al pagamento della somma di euro 16.750,89 quale corrispettivo per detta pattuizione.
Costituitasi, la M.I. s.r.l. chiedeva in via riconvenzionale condannarsi il lavoratore al pagamento della penale contrattualmente prevista.
Il giudice adito, respinto il ricorso principale, accoglieva la domanda riconvenzionale proposta dalla società.
Detta pronuncia veniva riformata dalla Corte distrettuale che con sentenza resa pubblica il 5/2/2016, esclusa, in base alle scrutinate risultanze istruttorie, la violazione da parte del lavoratore del patto di non concorrenza, condannava la M.I. s.r.l. al pagamento della somma di euro 14.000,00 oltre accessori di legge, nonché alla rifusione delle spese del grado liquidate in euro 1.900,00.
La cassazione di tale decisione è domandata dalla società soccombente sulla base di tre motivi.
Considerato che
1. Con il primo motivo si prospetta nullità della sentenza ex art. 360 comma primo n. 4 c.p.c.
Si deduce che il dispositivo della sentenza di appello letto in udienza, con riferimento alla regolazione delle spese, prevedeva la condanna della M.I. alla rifusione delle spese di lite del doppio grado “liquidate in complessivi euro 4.000,00…quanto al primo grado ed in complessivi euro 2.000,00…” quanto al giudizio di gravame; nella motivazione della sentenza impugnata veniva invece disposta condanna della soccombente al pagamento delle spese del grado di appello liquidate nella misura di euro 1.900,00, condanna in tali termini riproposta nel dispositivo apposto in calce alla motivazione della sentenza.
Si prospetta, quindi, un insanabile contrasto fra il dispositivo letto in udienza e quello riprodotto in sentenza tale da rendere nulla la sentenza impugnata.
2. Il motivo è privo di fondamento.
Secondo l’insegnamento di questa Corte, in tema di processo del lavoro, il dispositivo letto in udienza e depositato in cancelleria ha una rilevanza autonoma poiché racchiude gli elementi del comando giudiziale che non possono essere mutati in sede di redazione della motivazione e non è suscettibile di interpretazione per mezzo della motivazione medesima, sicchè le proposizioni contenute in quest’ultima e contrastanti col dispositivo devono considerarsi come non apposte e non sono suscettibili di passare in giudicato od arrecare un pregiudizio giuridicamente apprezzabile (vedi Cass. 26/10/2010 n. 21885, cui adde Cass. 17/11/2015 n. 23463).
Nel contrasto tra i due dispositivi, prevale, quindi, quello portato a conoscenza delle parti mediante lettura in udienza, potendosi ravvisare nullità solo nel caso di insanabile contrasto tra il dispositivo letto in udienza e la motivazione della sentenza, laddove, ove la motivazione sia coerente con il dispositivo letto in udienza, quello difforme trascritto in calce alla sentenza è emendabile con la procedura di correzione degli errori materiali (vedi Cass. 12/5/2008, n. 11668; Cass. 9/8/2013, n. 19103).
Nello specifico, alla luce dei principi sinora esposti, deve escludersi ricorra l’ipotesi di nullità della sentenza prospettata dall’odierna ricorrente; non può infatti configurarsi un insanabile contrasto fra il dispositivo letto in udienza e la motivazione della sentenza impugnata, essendo chiara in tale contesto, l’applicazione del principio di soccombenza quale corollario della riforma della sentenza di primo grado da parte della Corte di merito, per l’effetto di una diversa valutazione delle risultanze istruttorie acquisite.
Appare, invece, delineata un’ipotesi di divergenza in senso lato quantitativa fra le statuizioni di condanna previste nei dispositivi (cfr. Cass. 7/7/03, n. 10653; Cass. 18/6/04, n. 11432; Cass. 14/5/07, n. 11020), che risulta emendabile, per quanto sinora detto, mediante il ricorso al procedimento di correzione di errore materiale.
3. Con la seconda critica si denunzia omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 comma primo n. 5 c.p.c. e (per quanto occorrer possa) violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c.
Ci si duole che la Corte di merito abbia omesso di pronunciarsi sulla circostanza decisiva della costituzione da parte di L.I. di una società di consulenza tecnica relativa ad impianti idraulici e termici, nel periodo di vigenza del patto di non concorrenza contenuto nel suo contratto di lavoro con la società datoriale.
4. Il terzo motivo concerne, del pari, l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 comma primo n. 5 c.p.c., in riferimento allo svolgimento da parte dello I. ed in favore di M. s.n.c., cliente storica di M.I. s.r.I., di una attività di consulenza tecnica concorrenziale, ampiamente suffragata dalla espletata istruttoria orale e documentale.
5. I motivi, che possono congiuntamente trattarsi per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, presentano evidenti profili di inammissibilità. Non può infatti tralasciarsi di considerare che le censure presentino un difetto nella enunciazione del protocollo deduttivo, in assenza di specifica indicazione in particolare del “come” e del “quando” la circostanza dello svolgimento di attività di consulente tecnico per esterni sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti, oltre che della sua “decisività” (vedi Cass. 17/3/16, n. 5310, Cass. S.U. 7/4/2014 n. 8053; Cass. S.U. 22/9/2014 n. 19881).
Esse in ogni caso si traducono in una sostanziale contestazione della valutazione probatoria del giudice del gravame, con sollecitazione ad una rivisitazione del merito eccedente i rigorosi limiti del sindacato di legittimità imposti dal novellato testo di cui al n.5 dell’art. 360 comma primo c.p.c. (vedi ex aliis, Cass. 9/8/07, n. 17477; Cass. 4/8/17 n. 19547).
Ed invero, non potendosi più censurare, dopo la riforma di cui alla legge 7 agosto 2012, n. 134, la motivazione relativamente al parametro della sufficienza, residua il controllo di legittimità sulla esistenza e sulla coerenza del percorso motivazionale del giudice di merito (cfr., tra le molte, Cass. 27/4/2017 n. 10416); nella specie, l’iter argomentativo è stato condotto dalla Corte territoriale con argomentazioni logico-giuridiche del tutto congrue in ordine alla insussistenza di alcuna violazione da parte dello I. del patto di non concorrenza nei due anni successivi alla cessazione del rapporto di lavoro inter partes, stante la diversità – attestata alla stregua delle deposizioni testimoniali raccolte – dell’attività di direzione lavori espletata in favore di imprese che non rientravano nel novero dei clienti della M.I. s.r.I., rispetto a quella in precedenza espletata in favore di quest’ultima.
6. Né appare condivisibile il richiamo disposto alla violazione dell’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c. soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni, e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. 17/6/13, n. 15107; Cass. 29/5/18, n. 13395).
In definitiva, al lume delle sinora esposte considerazioni, il ricorso va respinto.
In ragione della soccombenza, il ricorrente va condannata al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità nella misura in dispositivo liquidata.
Occorre infine dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente, ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115/2002, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115/2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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