CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 febbraio 2021, n. 3543
Licenziamento per giusta causa – Violazione dell’obbligo di fedeltà o comunque di leale concorrenza – Responsabilità risarcitoria del dipendente receduto – Esclusione in mancanza di un patto di concorrenza – Accertamento
Rilevato che
1. con sentenza 20 giugno 2017, la Corte d’appello di Bologna rigettava le domande risarcitorie proposte da R. & P. s.p.a. nei confronti del dipendente M.B., in parziale accoglimento del suo appello incidentale, nel resto respinto ed integralmente quello principale della società avverso la sentenza di primo grado, così parzialmente riformata, che ne aveva invece accolto in parte la domanda risarcitoria nei confronti del lavoratore receduto, per violazione dell’obbligo di fedeltà (o comunque di leale concorrenza), che aveva pure condannato, esclusa la giusta causa del suo recesso, al pagamento dell’indennità di mancato preavviso, così come la società datrice al ricalcolo degli emolumenti retributivi, anche differiti (tredicesima e quattordicesima mensilità, ferie e permessi non goduti e T.f.r.), tenendo conto della retribuzione corrispostagli in natura;
2. a motivo della decisione, la Corte territoriale escludeva la responsabilità risarcitoria del dipendente receduto, in mancanza di un patto di concorrenza cui fosse tenuto dopo la cessazione del rapporto, avendo compiuto l’attività di acquisizione per la nuova società di brokeraggio assicurativo in epoca ad essa successiva, argomentando dalla natura obbligatoria del preavviso (comportante la cessazione immediata del rapporto di lavoro, con l’esclusivo obbligo di pagamento dell’indennità di mancato preavviso, in quanto non lavorato), per sé sola non integrante illecito extracontrattuale, in assenza di altri necessari elementi contrari alla correttezza professionale (quali la denigrazione del precedente datore o altre condotte fraudolente), neppure allegati;
3. essa ribadiva poi, sulla scorta delle risultanze istruttorie scrutinate, l’insussistenza di una giusta causa di recesso del lavoratore e la spettanza, in suo favore, del suddetto ricomputo, integrato dall’effettiva misura della retribuzione corrispostagli, inclusiva della concessione in uso, anche privato, dell’autovettura aziendale, con limitazione ad una condanna generica, come richiesto dalla stessa parte;
4. con atto notificato il 23 agosto 2017, la società ricorreva per cassazione avverso la sentenza con cinque motivi, cui il lavoratore resisteva con controricorso e memoria ai sensi dell’art. 380bis 1 c.p.c;
Considerato che
1. la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 2043, 2598 e 2600 c.c., applicati agli artt. 2118, 2104, 2105 c.c. ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, per la violazione dal lavoratore dell’obbligo di preavviso in via strumentale all’esercizio dell’attività infedele di sottrazione di clienti della società datrice, già preparata in corso di rapporto ma resa operativa dopo la lettera del 5 maggio 2008 di improvvisa interruzione del periodo di preavviso, inizialmente lavorato dopo le dimissioni rassegnate il 15 aprile 2008, con il rifiuto del passaggio di consegne al nuovo incaricato della cura dei clienti già da lui seguiti, (primo motivo); omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti e violazione e falsa applicazione degli artt. 2104, 2105 c.c., in riferimento a comportamenti infedeli, nella prospettiva suindicata, tenuti anche prima della cessazione del rapporto di lavoro, come in particolare l’acquisizione dell’elenco dei clienti seguiti con i riferimenti personali di ognuno e la successiva cancellazione di tali dati dal proprio computer in Outlook, così rendendone più gravosa e lunga l’attività di recupero dalla società, al fine di ricontattarli (secondo motivo); omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti e violazione e falsa applicazione degli artt. 2104, 2105 c.c., in riferimento all’avvio dell’attività di storno di clientela da parte di M.B. già prima della cessazione del rapporto in favore di una società concorrente (con la quale aveva apertamente rappresentato a R. & P. l’intenzione di instaurare un nuovo rapporto di lavoro), posta concretamente in atto con la repentina interruzione del periodo di preavviso lavorato (terzo motivo);
2. essi, congiuntamente esaminabili per ragioni di stretta connessione, sono fondati;
3. è indubbia la natura non già reale dell’indennità di preavviso (comportante, in mancanza di accordo tra le parti circa la cessazione immediata del rapporto, il diritto alla prosecuzione del rapporto stesso e di tutte le connesse obbligazioni fino alla scadenza del termine), ma obbligatoria: con la conseguenza che, nel caso in cui una delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato, il rapporto si risolve altrettanto immediatamente, con l’unico obbligo della parte recedente di corrispondere l’indennità sostitutiva e senza che da tale momento possano avere influenza eventuali avvenimenti sopravvenuti, a meno che la parte recedente, nell’esercizio di un suo diritto potestativo, acconsenta, avendone interesse, alla continuazione del rapporto lavorativo, protraendone l’efficacia sino al termine del periodo di preavviso (Cass. 4 novembre 2010, n. 22443; Cass. 30 settembre 2013, n. 23222; Cass. 6 giugno 2017, n. 13988; Cass. 26 ottobre 2018, n. 27294);
3.1. neppure è controverso che la violazione del dovere di fedeltà sancito dall’art. 2105 c.c., il quale si sostanzia nell’obbligo del lavoratore di astenersi da attività contrarie agli interessi del datore di lavoro, senza necessità che esse siano idonee ad integrare una concorrenza sleale, a termini degli artt. 2592, 2593 e 2598 c.c. (Cass. 5 aprile 1990, n. 2822; Cass. 30 gennaio 2017, n. 2239), riguardi la concorrenza che il prestatore possa svolgere non già, dopo la cessazione del rapporto, nei confronti del precedente datore di lavoro, ma quella che egli abbia svolto illecitamente nel corso del rapporto di lavoro, attraverso lo sfruttamento di conoscenze tecniche e commerciali acquisite per effetto del rapporto stesso (Cass. 19 luglio 2004, n. 13394; Cass. 29 agosto 2014, n. 18459);
3.2. sussiste la violazione di legge denunciata di diligenza, quale specifica declinazione del principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto, da intendere in senso oggettivo in quanto enunciante un dovere di solidarietà, fondato sull’art. 2 Cost., che, operando come un criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio, il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge (Cass. 11 febbraio 2005, n. 2855; Cass. 7 giugno 2006, n. 13345; Cass. s.u. 25 novembre 2008, n. 28056; Cass. 22 gennaio 2009, n. 1618; Cass. 20 novembre 2010, n. 22819);
3.3. come noto, l’error in iudicando è integrato dalla deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge, implicante un problema interpretativo; diversamente dall’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerente alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155; Cass. 5 febbraio 2019, n. 3340): ovviamente nei limiti del novellato testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c.;
3.3. la Corte territoriale non ha correttamente applicato gli enunciati principi di diritto regolanti la materia, perché ha omesso l’esame del fatto storico, rappresentato dalla disponibilità, inizialmente accordata dal lavoratore all’atto del recesso, a prestare il periodo di preavviso (fissato contrattualmente in quattro mesi) ed effettivamente lavorato per la durata di venti giorni (come accertato dalla sentenza del Tribunale, nella trascrizione al secondo capoverso di pg. 32 del ricorso), poi improvvisamente ritirata, “a distanza di pochi giorni dalla comunicazione del preavviso, … senza plausibili motivazioni …, senza ottemperare alla redazione della scheda clienti, senza fissare gli appuntamenti con gli stessi, cancellando anzi ogni riferimento “commerciale” relativo alle aziende avute in gestione ed iniziando subito, praticamente senza soluzione di continuità, a lavorare per la concorrenza” (come da trascrizione della sentenza citata a pg. 33 del ricorso);
3.4. orbene, dalla semplice inferenza della natura obbligatoria del preavviso e della “pacifica insussistenza di un patto di non concorrenza”, la Corte territoriale ha ritenuto “che l’eventuale mero proporre, dopo la fine del rapporto di lavoro, una novazione soggettiva dei rapporti contrattuali con il proprio nuovo datore non configuri di per sé solo un illecito extracontrattuale in concorso, essendo necessari altri elementi, contrari alla correttezza professionale, nella specie nemmeno allegati (denigrazione del pregresso datore o altre condotte fraudolente, proposte di prezzi integranti una forma di dumping e così via” (così all’ultimo capoverso di pg. 3 della sentenza): senza alcun esame del suindicato fatto, che radica la condotta di violazione degli obblighi di diligenza e di fedeltà, a carico di M.B., non già (come legittimo, in assenza di un patto di non concorrenza successivo) dopo la cessazione del rapporto di lavoro, ma ancora nel suo corso;
3.5. tale omissione è pertanto decisiva, nel senso della sua idoneità, qualora invece la Corte territoriale non fosse in essa incorsa, a determinare un diverso esito della controversia (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 29 ottobre 2018, n. 27415), per la ragione detta;
4. la ricorrente deduce poi violazione e falsa applicazione degli artt. 2099, 2121 c.c. ed omessa pronuncia su un capo di impugnazione, per la mera conferma dalla Corte territoriale della statuizione del Tribunale di spettanza al lavoratore di inclusione del benefit dell’autovettura nelle retribuzioni differite, senza considerare le specifiche contestazioni della società datrice, con particolare riferimento (specialmente per le mensilità aggiuntive, i ratei di ferie e i permessi retribuiti) alle previsioni contrattuali collettive, in assenza di disposizioni normative, come invece per il T.F.R. (quarto motivo);
5. esso è inammissibile sotto plurimi profili;
6. la questione giuridica, che implica un accertamento di fatto in ordine alla natura del benefit, non è stata trattata in alcun modo nella sentenza impugnata ed è dunque nuova: salvo che il ricorrente, che la deduca, assolva all’onere dell’allegazione di averla già proposta dinanzi al giudice di merito, indicando, a pena di inammissibilità, l’atto del giudizio precedente nel quale lo abbia fatto, per consentire alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione (Cass. 13 dicembre 2019, n. 32804; Cass. 31 agosto 2020, n. 18098); ma a ciò non ha provveduto l’odierna ricorrente;
6.1. d’altro canto, è noto che l’accertamento della natura retributiva (qualora il beneficio si riferisca a spese effettuate dal lavoratore per adempiere, sia pur indirettamente, agli obblighi della prestazione lavorativa, risolvendosi in un adeguamento della retribuzione) ovvero risarcitoria (ove l’attribuzione si riferisca a spese che il lavoratore sia tenuto a sopportare nell’esclusivo interesse del datore di lavoro, costituendo la reintegrazione di una diminuzione patrimoniale collegata alle modalità della prestazione lavorativa svolta) del trattamento economico aggiuntivo attribuito ad un dirigente con il riconoscimento di determinati benefit (quali, tra gli altri, l’uso dell’autovettura) sia riservato al giudice di merito, restando incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato (Cass. 24 giugno 2009, n. 14835);
6.2. sicché, anche a voler ritenere la deduzione con il mezzo in esame di un vizio motivo, ai sensi del novellato testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. (solo vizio denunciabile in sede di legittimità in ordine al suddetto accertamento, operato dal Tribunale e recepito dalla Corte territoriale), ricorre l’ipotesi di cd. “doppia conforme” prevista dall’art. 348ter, quinto comma c.p.c., non avendo la parte ricorrente, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui al novellato testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., indicato le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrandone la diversità (Cass. 10 marzo 2014, n. 5528; Cass.22 dicembre 2016, n. 26774; Cass. 31 agosto 2020, n. 18098);
7. infine, la ricorrente deduce omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti e violazione e falsa applicazione dell’art. 18 I. 300/1970, per il laconico rigetto dell’appello della società, per il solo accoglimento dell’appello del lavoratore, in assenza di valutazione dei fatti decisivi suindicati e così pure in merito alla statuizione sulle spese (quinto motivo);
8. esso è assorbito;
9. per le suesposte ragioni i primi tre motivi di ricorso devono essere accolti, essendo il quarto inammissibile e il quinto assorbito, con la cassazione della sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti e rinvio, anche in relazione alla regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Bologna in diversa composizione;
P.Q.M.
accoglie i primi tre motivi di ricorso, inammissibile il quarto, assorbito il quinto; cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche in relazione alla regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Bologna in diversa composizione.