CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 giugno 2020, n. 11215
Tributi – Importazioni – Accertamento – Diritti doganali – Coincidenza tra valore dichiarato nelle bollette doganali e prezzo effettivamente pagato al fornitore – Applicazione sistema Me.R.C.E. – Esclusione
Rilevato che
Dall’esposizione in fatto della pronuncia censurata si evince che: l’Agenzia delle dogane aveva emesso nei confronti della società contribuente tre avvisi di rettifica del valore dichiarato nelle bollette doganali di merce importata sul presupposto che il valore dichiarato in dogana non era attendibile ed aveva, quindi, rideterminato i diritti doganali relativi alle dichiarazioni di importazione; avverso i suddetti atti impositivi la contribuente ha proposto ricorso, deducendo di avere fornito prova documentale della corrispondenza del valore dichiarato in dogana con il prezzo effettivamente pagato al fornitore e che il sistema MERCE non poteva essere utilizzato quale presupposto dell’accertamento in quanto privo di valore probatorio; la Commissione tributaria provinciale di Salerno aveva rigettato il ricorso; avverso la suddetta pronuncia la contribuente aveva proposto appello; la Commissione tributaria regionale della Campania, sezione staccata di Salerno, ha accolto l’appello, in particolare ha ritenuto che la documentazione prodotta dalla contribuente in sede di contraddittorio endoprocedimentale era completa, sicché non poteva ritenersi che sussistesse una sottofatturazione nelle operazioni commerciali oggetto di contestazione; l’utilizzo del sistema Me.R.C.E., ai fini della rettifica delle dichiarazioni doganali, non poteva costituire l’unico parametro di riferimento in assenza di ulteriori elementi a supporto e, comunque, poteva trovare applicazione solo dopo che era stata provata, dall’amministrazione doganale, la non corrispondenza del valore dichiarato in dogana con il prezzo corrisposto;
avverso la suddetta pronuncia ha proposto ricorso l’Agenzia delle dogane affidato a tre motivi di censura, cui ha resistito la società con controricorso; ,
L’Agenzia delle Dogane, in nota del 23.7.2019, ha contestato l’applicabilità alla controversia della disciplina agevolativa;
Considerato che
preliminarmente, va disattesa l’istanza della controricorrente, depositata in data 19 febbraio 2019, di sospensione del processo in quanto la stessa intende avvalersi della disposizione di cui all’art. 6 del decreto-legge n. 119/2018, convertito dalla legge n. 136/2018; va precisato, in primo luogo, che, con l’ordinanza dell’8 marzo 2019, questa Corte aveva assegnato alle parti termine di giorni trenta dalla comunicazione per il deposito di osservazioni sulla questione dell’applicabilità al caso di specie della disciplina agevolativa sopra indicata e che, nel medesimo termine, non risulta depositata alcuna memoria in merito di parti della controricorrente va, quindi, osservato che la presente controversia ha ad oggetto la pretesa dell’Agenzia delle dogane di pagamento dei diritti doganali in conseguenza della rideterminazione del valore di transazione della merce importata dalla contribuente;
l’art. 6, decreto-legge n. 119/2018, limita l’applicabilità della disciplina introdotta alle sole controversie in cui è parte l’Agenzia delle entrate, escludendo dall’ambito di applicazione le controversie relative al pagamento di diritti doganali in cui è parte, come nel caso di specie, l’Agenzia delle dogane, sicché la stessa non può trovare applicazione nel presente giudizio;
ancora preliminarmente, va disattesa l’eccezione della controricorrente di inammissibilità del ricorso, ai sensi dell’art. 360 bis, cod. proc. civ., atteso che, diversamente da quanto eccepito, parte ricorrente ha, di volta in volta, riportato i passaggi motivazionali della sentenza oggetto di censura e chiaramente individuato le previsioni normative di riferimento, prospettando le ragioni sulle cui basi sono stati formulati gli specifici motivi di ricorso, consentendo, in tal modo, a questa Corte di apprezzare i profili da esaminare e valutare;
sempre in via preliminare, va disattesa l’eccezione di parte controricorrente di giudicato esterno formatosi in relazione a identici accertamenti emessi dall’Agenzia delle dogane per l’anno 2011 a seguito del passaggio in giudicato della sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, sezione staccata di Salerno, n. 2508/12/2015;
secondo il costante indirizzo giurisprudenziale di questa Corte, il giudicato si forma su tutto ciò che ha costituito oggetto della decisione, anche ove ne sia solo il necessario presupposto logico (Cass. civ., 16 maggio 2002, n. 7140);
tale indirizzo giurisprudenziale richiede che entrambe la cause, tra le stesse parti, abbiano ad oggetto un medesimo negozio o rapporto giuridico ed una di esse sia stata definita con sentenza passata in giudicato: in tal caso, infatti, l’accertamento compiuto in merito ad una situazione giuridica o la risoluzione di una questione di fatto o di diritto incidente su un punto decisivo comune ad entrambe le cause o costituente indispensabile premessa logica della statuizione contenuta nella sentenza passata in giudicato, precludono l’esame del punto accertato e risolto, anche nel caso in cui il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che costituiscono lo scopo ed il “petitum” del primo (Cass. civ., 16 maggio 2006 n. 1365);
tanto premesso, va rilevato che difetta, nella concreta fattispecie sottoposta all’esame della Corte, l’identità del titolo o del rapporto dal quale derivano le pretese fatte valere nelle due cause, attesa la oggettiva autonomia dei rapporti giuridici tributari, tra le stesse parti, che hanno costituito, rispettivamente, oggetto del giudizio nel quale si sarebbe formato il giudicato interno, ed oggetto della presente controversia;
i due giudizi attengono, infatti, a distinti provvedimenti impositivi e si riferiscono ad obbligazioni tributarie che, se presentano caratteri comuni quanto al tipo di dazio applicato ed alla contestazione formulata dall’Ufficio finanziario, sono tuttavia originate da situazioni fattuali diverse (differenti operazioni di importazioni della merce nel territorio doganale della UE) non riconducibili ad un medesimo fatto generatore di imposta, rimanendo esclusa, pertanto, contrariamente a quanto ipotizzato dalla società contribuente, la “identità oggettiva del rapporto giuridico”, dedotto in entrambi i giudizi, che unicamente consente di ravvisare quella unitarietà della “causa petendi” che soltanto può giustificare la esigenza di evitare contrasti in ordine a questioni giuridiche che costituiscono il necessario presupposto logico-giuridico comune ad entrambe le decisioni;
con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza, ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ., per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, consistente nella circostanza che l’Agenzia delle dogane aveva richiesto alla società, mediante determinazioni direttoriali, di produrre determinati documenti necessari al fine di determinare il corretto valore imponibile ai fini doganali; il motivo è infondato;
la ragione di censura prospettata non tiene conto della ratio deciderteli posta a base della decisione impugnata e si palesa, pertanto, priva di rilevanza;
il giudice del gravame, invero, ha tenuto conto, al fine di pervenire alla considerazione della insussistenza di una situazione di sottofatturazione prospettata dall’Agenzia delle entrate, della complessiva documentazione prodotta in sede di contraddittorio endoprocedimentale dalla contribuente ed ha ritenuto che la suddetta documentazione era valida e completa, così che non consente di presumere alcuna sottofatturazione nelle operazioni commerciali oggetto di contestazione, onde nessuna censura è addebitabile alla società sul punto;
inoltre, ha altresì affermato che, rispetto a tale documentazione, non era stata mossa alcuna specifica contestazione anche sotto il profilo della non idoneità probatoria della medesima documentazione, essendosi l’Agenzia delle entrate limitata ad affermazioni generiche e rappresentando che, da quanto depositato non vi era la certezza che le operazioni controllate corrispondessero alla realtà dei fatti;
in sostanza, con la pronuncia in esame, il giudice di appello ha valutato se, rispetto agli elementi presuntivi fondanti la pretesa e relativi alla sussistenza dei fondati dubbi per procedere alla rettifica della dichiarazione doganale, parte contribuente aveva fornito, a propria volta, elementi di prova idonei a condurre alla valutazione della correttezza del valore di transazione dichiarato al momento dell’importazione, ed ha ritenuto che la prova documentale fornita dalla contribuente fosse idonea a tal fine;
la questione, quindi, della mancata valutazione delle determinazioni direttoriali, va considerata irrilevante, in quanto già l’intero complesso documentale posto all’attenzione del giudicante è stato ritenuto sufficiente ai fini dell’assolvimento dell’onere della prova gravante sulla contribuente;
con il secondo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell’art. 2697, cod. civ., e dell’art. 178 del Reg – Cee n. 2454/1993, per avere ritenuto che la documentazione prodotta dalla contribuente era completa, nonostante la stessa avesse l’onere di fornire tutta la documentazione richiesta dall’amministrazione doganale; il motivo è infondato;
la valutazione della completezza della documentazione prodotta ai fini probatori è attività propria del giudice del merito, sindacabile in questa sede solo sotto il profilo del vizio motivazionale, il quale, in sede processuale, è tenuto prendere in considerazione il materiale probatorio a disposizione e verificare se questo sia idoneo a provare un fatto posto a fondamento della pretesa della parte ovvero della contestazione della controparte; la circostanza che l’amministrazione doganale aveva ritenuta non idonea la documentazione prodotta dalla contribuente, attivando il potere di richiedere ulteriori informazioni e prove documentali, non è pertanto preclusivo del successivo potere di valutazione, da parte del giudice del merito, circa la non necessità di ulteriore documentazione, valutando, proprio nel rispetto dell’art. 2697, cod. civ., l’avvenuto assolvimento dell’onere probatorio gravante sulla contribuente;
con il terzo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell’art. 2697, cod. civ., dell’art. 181 – bis, Reg. Cee n. 2454/1993 e degli artt. 20-30, Reg. Cee n. 2913/1992, per avere ritenuto che il sistema Me.R.C.E. non può costituire l’unico parametro di riferimento, ai fini della rettifica delle dichiarazioni doganali, in assenza di ulteriori elementi a supporto, non sussistenti nel caso in esame; il motivo è infondato;
in linea generale, va precisato che “il valore in dogana delle merci importate è il valore di transazione, cioè il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci quando siano vendute per l’esportazione a destinazione del territorio doganale della Comunità, previa eventuale rettifica effettuata conformemente agli artt. 32 e 33…” (art. 29, CDC);
dunque, l’unico valore rilevante ai fini dell’obbligazione doganale è il valore in dogana; e il valore in dogana coincide di norma col valore di transazione, ossia col prezzo effettivamente pagato o da pagare (Corte giust. 12 dicembre 2013, causa C-116/12, Christodoulou e a., punto 28);
una tale disciplina ha una ben precisa ratio, che è quella di stabilire un sistema equo, uniforme e neutro, che esclude l’impiego di valori in dogana arbitrari o fittizi, rispondendo alla necessità di certezza della prassi commerciale (tra varie, Corte giust. in causa C-116/12, cit., punto 44; 15 luglio 2010, Gaston Schul, causa C-354/09, punto 27; 28 febbraio 2008, causa C-263/06, Carboni e derivati s.r.l., punto 60);
in questo quadro normativo unionale, il codice doganale comunitario ha stabilito, con gli artt. 29, 30 e 31, una rigida sequenza di regole di determinazione del valore doganale e il regolamento attuativo del codice ha predisposto una apposita disciplina, regolata dall’art. 181-bis, qualora le autorità doganali abbiano “fondati dubbi che il valore dichiarato rappresenti l’importo totale pagato o da pagare ai sensi dell’art. 29 codice doganale” (Cass. civ., 4 aprile 2013, n. 8323; Cass. civ., 13 settembre 2013, n. 20931);
proprio in relazione alla sussistenza di “fondati dubbi”, per potersi discostare dalla regola del valore di transazione, l’autorità doganale deve chiedere informazioni complementari e sollecitare il contraddittorio, prima di decidere di non determinare il valore in dogana delle merci importate in base alla regola generale fissata dall’art. 29, con la conseguenza che, nel seguire la rigida scansione delle regole fissate dal codice doganale comunitario, quando il valore in dogana non possa essere determinato mediante ricorso al valore di transazione delle merci importate, la valutazione doganale si dovrà attenere alle disposizioni dell’art. 30 codice, applicando, in sequenza, i metodi previsti alle lettere da a) a d) del paragrafo 2 di quest’ultimo articolo (Corte giust. in causa C-116/12, cit., punto 41), e soltanto quando non sia possibile determinare il valore in dogana delle merci importate neppure sulla base dell’art. 30 codice doganale, si opererà la valutazione in dogana in misura conforme alle disposizioni dell’articolo 31 di tale codice (sentenza in causa C-116/12, punto 42; 20 dicembre 2017, causa C-529/16, Hamamatsu Photonics Deutschland GmbH c. Hauptzollamt Meinchen);
il valore di transazione resta comunque il metodo prioritario di determinazione, in quanto è considerato il più adatto ed il più frequentemente utilizzato e, per disattenderlo, occorre che: l’amministrazione abbia fondati dubbi che esso sia inattendibile; i dubbi persistano, anche dopo una richiesta di ulteriori informazioni o complementi di documentazione e dopo aver fornito all’interessato una ragionevole possibilità di far valere il proprio punto di vista riguardo ai motivi sui quali sono fondati tali dubbi; l’amministrazione ricorra in primo luogo ai metodi di valutazione immediatamente sussidiari, ossia a quelli stabiliti, in successione, dall’art. 30 codice doganale comunitario;
al contribuente, dunque, è riconosciuta la possibilità di far valere, già in sede di contraddittorio endoprocedimentale, elementi di prova che consentano di contrastare la sussistenza di elementi di prova presuntiva sulla cui base l’amministrazione doganale ritiene di dovere basare la sussistenza di fondati dubbi in ordine al fatto che il valore delle merci dichiarato non sia quello effettivo; è in questo contesto che va, quindi, considerata la statuizione del giudice del gravame, laddove ha tenuto conto della documentazione fornita dalla contribuente al fine di provare la correttezza del valore di transazione dichiarato, e, conseguentemente, accertato, con una valutazione di merito non sindacabile in questa sede, che la stessa era valida e completa, precisando che i documenti come prodotti e non contestati devono ritenersi prove documentali valide a consentire la verifica del valore dichiarato in dogana con il prezzo pattuito e pagato, con la conseguenza che deve ritenersi che la società abbia fornito adeguata prova;
con i suddetti passaggi motivazionali, dunque, il giudice del gravame ha valutato complessivamente gli elementi di prova adottati sia dall’amministrazione doganale, ai fini della sussistenza dei fondati dubbi, sia della contribuente, procedendo, quindi, ad una verifica della inferenza probabilistica della prova presuntiva dedotta dall’amministrazione doganale, e, ragionando su di essa, in confronto con quella dedotta dalla contribuente, ha ritenuto che a quest’ultima dovesse attribuirsi capacità probatoria idonea a interferire con la valenza presuntiva dei dati statistici fondanti la pretesa;
sotto tale profilo, quindi, non sussiste la violazione dello schema normativo in materia di onere probatorio e della disciplina unionale di riferimento;
in conclusione, i motivi sono infondati, con conseguente rigetto del ricorso e condanna della ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore della controricorrente.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese di lite del giudizio che si liquidano in complessive euro 2.000,00, oltre spese forfettarie nella misura del quindici per cento e accessori di legge.
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