CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 settembre 2018, n. 21979
Licenziamenti per giusta causa – Rifiuto di svolgere un’attività lavorativa – Violazione del principio della proporzionalità
Rilevato
Che il Tribunale di Ravenna, in accoglimento della domanda proposta da C.L. – impiegato di terzo livello con mansioni di analista nel settore ambientale – nei confronti di P.I. s.r.l. (già A. s.r.l.), aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamenti per giusta causa intimatigli l’11 e 16 aprile 2014, perché fondati su fatti inidonei a legittimare la risoluzione del rapporto, disponendo la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro;
che la Corte di Appello di Bologna, in riforma della sentenza del giudice di primo grado, rilevato che dovevano ritenersi sussistenti i fatti disciplinari posti a fondamento della prima intimazione (rifiuto di svolgere un’attività lavorativa che in precedenza era stata pacificamente prestata dal lavoratore), ma doveva comunque ritenersi illegittimo il recesso intimato, stante la violazione del principio della proporzionalità, in parziale riforma della sentenza di primo grado, determinava nella misura di venti mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto l’indennità risarcitoria omnicomprensiva dovuta al lavoratore;
che avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore sulla base di due motivi;
che la società si è costituita con controricorso;
che la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ., è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio non partecipata;
che con il primo motivo il ricorrente deduce omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, rappresentato dalla volontà del datore di lavoro di stipulare un contratto di collaborazione e di cessare il rapporto di lavoro subordinato, desumibile da circostanze precedenti alle contestazioni disciplinari e illuminanti l’intera vicenda;
che con il secondo motivo deduce omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (il lavoratore aveva più volte evidenziato alcune questioni afferenti al rapporto di lavoro e aveva richiesto risposte, mai pervenute dall’azienda). Osserva che da circa un anno e mezzo prima delle contestazioni disciplinari il C. aveva evidenziato al datore di lavoro, tra le altre, le questioni relative al recupero del monte ore straordinario, alla mancata formazione fornita ai dipendenti e alle attività extracontratto, cioè non ricomprese nelle mansioni del lavoratore. Da tali circostanze doveva desumersi che il datore di lavoro aveva eluso per anni le richieste del lavoratore, per poi utilizzarle ai fini delle contestazioni disciplinari scaturenti dal licenziamento;
che il primo motivo è inammissibile poiché, secondo l’insegnamento delle Sezioni Unite (Sez. U. n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629831), il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5), denunciato con il motivo, introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). I richiamati parametri non risultano rispettati nel caso in esame, riguardando la censura non un fatto storico, ma, piuttosto, una deduzione desumibile da fatti, quale la volontà del datore di lavoro di pervenire alla stipula di un rapporto di collaborazione;
che del pari inammissibile è il secondo motivo, posto che i fatti di cui si assume sia stato omesso l’esame sono stati presi in considerazione, nella sostanza e per i punti salienti, dalla decisione. Ed invero risulta dal tenore della sentenza che era insorto un contrasto tra le parti, atteso che il C. riteneva che alcuni compiti di consulenza non fossero compresi nel rapporto di lavoro subordinato, nonostante egli li avesse continuativamente svolti in precedenza, ancorché tali circostanze non fossero state ritenute dalla Corte territoriale idonee a sminuire la rilevanza dei contestati fatti disciplinari;
che, inoltre, con riferimento alle circostanze che si assumono trascurate in entrambi i motivi, non si evince la decisività delle stesse, poiché né l’eventuale dimostrazione dell’assunto di cui alla prima censura, né l’esame dei fatti indicati nella seconda censura valgono ad elidere le condotte di insubordinazione contestate al lavoratore e poste a fondamento delle contestazioni disciplinari;
che per le ragioni indicate il ricorso va dichiarato inammissibile;
che le spese del presente giudizio di cassazione seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo;
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 4.000,00, di cui € 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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