CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 settembre 2018, n. 21981
Trattamento di maternità – Conguaglio della prestazione con i contributi dovuti all’Inps – Comportamento illecito del datore di lavoro
Rilevato che
1. M.A.B. chiedeva con ricorso del 2/12/2009 al Tribunale di Catania la condanna dell’Inps ad erogarle l’indennità di maternità per il periodo dal settembre 2005 all’ottobre del 2006.
Il Tribunale di Catania dichiarava la domanda inammissibile per intervenuta decadenza ai sensi dell’articolo 47 del d.p.r. numero 639 del 1970, considerato che la domanda amministrativa all’Inps era stata presentata in data 28.4.2006, mentre il ricorso giudiziario era stato proposto oltre il termine di un anno e 300 giorni previsto dalla norma.
La Corte d’appello confermava la sentenza di primo grado, argomentando che nessuna contestazione aveva mosso l’appellante alla ricostruzione dei fatti svolta dal primo giudice ai fini dell’individuazione del dies a quo e del computo dei termini decadenziali. Riteneva poi ininfluente il riferimento all’esistenza dell’obbligo del datore di lavoro fatto dalla ricorrente, che aveva agito in giudizio nei confronti dell’Inps.
2. Per la cassazione della sentenza M.A.B. ha proposto ricorso, affidato a tre motivi, illustrati anche con memoria ex art. 380 bis comma 2 c.p.c., cui ha resistito con controricorso l’Inps.
Considerato che
1. come primo motivo la ricorrente lamenta la nullità della sentenza per mancata integrazione del contraddittorio nei confronti del datore di lavoro;
2. come secondo motivo, deduce la violazione e falsa applicazione dell’articolo 47 del d.p.r. n. 639 del 1970 e dell’art. 1 della legge 29/2/1980 numero 33.
Argomenta di avere censurato già nel ricorso in appello l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 47 del d.p.r. n. 639 e sostiene che nel caso non era necessaria alcuna domanda amministrativa all’Inps, né poteva configurarsi alcuna decadenza, ma solo la prescrizione quinquennale per i crediti nei confronti del datore di lavoro. Riferisce che si era realizzato un comportamento illecito del datore di lavoro che, dopo avere corrisposto il trattamento di maternità per il primo periodo di assenza dal lavoro, aveva operato il conguaglio della prestazione con i contributi dovuti all’Inps, pur senza riconoscerla nel prosieguo alla lavoratrice, tanto che l’Ispettorato del Lavoro con nota del 17.3.2008 e la lavoratrice tramite il proprio legale avevano provveduto a chiederne il pagamento all’Inps, mentre il procedimento esecutivo nei confronti del datore di lavoro che faceva seguito al decreto ingiuntivo per il trattamento di maternità si era concluso con verbale di pignoramento negativo;
3. come terzo motivo, deduce l’ omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in particolare l’interruzione della prescrizione determinata dalla comunicazione del 17 del 2008 protocollo 1186, con la quale l’ Ispettorato del lavoro di Catania invitava l’Inps a provvedere alla diretta erogazione dell’indennità di maternità alla lavoratrice.
4. Il primo motivo di ricorso non è fondato: questa Corte ha infatti chiarito , nella stessa sentenza invocata dalla ricorrente (n. 1172 del 2015, dove peraltro la causa era stata proposta nei confronti del datore di lavoro e non dell’Inps) e nei precedenti conformi ivi richiamati, che ai sensi dell’art. 1 del d.l. n. 663 del 1979 (conv. in legge, con modificazioni, dalla I. n. 33 del 1980), l’unico soggetto obbligato ad erogare le indennità di malattia e maternità ex art. 74 della legge n. 833 del 1978, è l’Inps, mentre il datore di lavoro è tenuto ad anticiparle, salvo conguaglio con i contributi e le altre somme dovute all’Istituto.
Nel caso, nei confronti del datore di lavoro la B. ha proposto anteriori e separate azioni, mentre quella di cui si tratta è stata da lei proposta nei confronti dell’istituto previdenziale, sicché il meccanismo dell’anticipazione è venuto meno, essendo stata richiesta in giudizio la prestazione al diretto obbligato.
5. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile in quanto non è coerente con la ratio decidendi adottata dal giudice di merito.
La Corte territoriale, nell’ assolvere al suo compito di interpretare la domanda, ha ritenuto che essa fosse stata proposta solo nei confronti dell’obbligato principale, sicché non poteva darsi rilevanza alle argomentazioni ed alle circostanze fattuali relative alla posizione del datore di lavoro, obbligato solo in via di anticipazione. Tale argomentazione non è stata censurata, limitandosi la ricorrente a valorizzare la medesima situazione in fatto già prospettata in sede di merito, ma non il ragionamento del giudice territoriale che ha ritenuto che la stessa non avesse rilevanza.
6. Il terzo motivo non è fondato.
La richiesta stragiudiziale all’Inps non può valere ad interrompere il termine ex art. 47 del d.p.r. n. 639, che è di decadenza, considerato che “sanziona – a norma del D.P.R. n. 639 del 1970, art. 47, commi 2 e 3, nel testo di cui del D.L. n. 384 del 1992, art. 4, comma 1, convertito dalla L. n. 438 del 1992 – la mancata proposizione, entro termini computati in riferimento a determinati svolgimenti del procedimento amministrativo, dell’azione giudiziaria diretta al riconoscimento di determinate prestazioni previdenziali, è dettata a protezione dell’interesse pubblico alla definitività e certezza delle determinazioni concernenti erogazioni di spese gravanti su bilanci pubblici e, di conseguenza, è sottratta alla disponibilità delle parti” (v. da ultimo Cass. Cass. civ. Sez. VI – Lavoro, Ord., 29/02/2016, n. 3990, n. 8671 del 2016).
7. Per tali motivi, condividendo il Collegio la proposta del relatore, il ricorso, manifestamente infondato, va rigettato con ordinanza in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375, comma 1, n. 5, cod. proc. civ.
8. Le spese del giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
9. Sussistono i presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, previsto dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 1.500,00 per compensi, oltre ad € 200,00 per esborsi, rimborso spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.lgs. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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