CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 aprile 2019, n. 10343
Licenziamento per giusta causa – Contestazioni disciplinari – Gravità delle mancanze ascritte al lavoratore – Pregiudizio a carico del datore – Compromissione del vincolo fiduciario
Rilevato che
La Corte d’Appello di Roma confermava la pronuncia del giudice di prima istanza che aveva rigettato il ricorso proposto da M.S. nei confronti della Banca P.B. volto a conseguire la declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa irrogatogli in data 17/1/2012.
A fondamento del decisum ed in estrema sintesi, il giudice del gravame argomentava in ordine alla insussistenza, nello specifico, di alcuna violazione del principio del ne bis in idem, giacchè le contestazioni disciplinari formulate dall’istituto di credito nel febbraio e nel dicembre 2011 nei confronti del dipendente – vicedirettore reggente della filiale di Tivoli – in relazione alle innumerevoli irregolarità riscontrate, non erano del tutto sovrapponibili né sotto il profilo oggettivo, né sotto il profilo soggettivo.
Ritenuta la tempestività della contestazione disciplinare in data 14/12/2011, la Corte distrettuale rimarcava la gravità delle mancanze ascritte al dipendente, suffragate da ampio corredo probatorio, e consistite nell’esecuzione ed autorizzazione di almeno 37 operazioni irregolari (mutui a catena concessi sul medesimo immobile, sovente frazionati per importi riconducibili ad un unico gruppo familiare per non superare il tetto massimo erogabile, operazioni di back office irregolari, distinte di versamento con firme non conformi allo specimen siglate dal ricorrente…), dalle quali era derivato un imponente pregiudizio a carico della società (valutato in 5 milioni di euro), oltre che un evidente vulnus all’immagine dell’istituto, con chiara compromissione del vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro inter partes.
Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione il S. affidato a sette motivi ai quali resiste con controricorso la banca intimata.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 380 bis c.p.c.
Considerato che
1. Deve preliminarmente respingersi l’istanza formulata da parte ricorrente, di trattazione della causa in pubblica udienza, non sussistendo il presupposto della particolare rilevanza delle questioni di diritto sulle quali pronunciare ex art. 375 c.p.c.
1.2 Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 7 L. 300/1970 in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c..
Si critica la statuizione emessa dalla Corte di merito in tema di tempestività della contestazione e della sanzione disciplinare. Si deduce che la cognizione da parte datoriale, delle irregolarità perpetrate nella filiale di Tivoli, era stata acquisita sin dal 7/2/2011 (data della prima contestazione disciplinare formulata all’esito della procedura ispettiva), avendo ad oggetto una serie di condotte risalenti agli anni 2009-2010. Ci si duole che la società abbia atteso quasi un anno prima di procedere alla seconda contestazione disciplinare avvenuta il 14/12/2011; nell’ottica descritta, la contestazione formulata dall’istituto, che per stessa ammissione del datore di lavoro riguardava le medesime irregolarità tecniche, operative e comportamentali in precedenza riscontrate, andava qualificata in termini di tardività da cui discendeva, quale corollario, l’illegittimità della sanzione inflitta.
2. Il motivo va disatteso.
In via di premessa va rammentato che il principio dell’immediatezza della contestazione disciplinare, la cui “ratio” riflette l’esigenza dell’osservanza della regola della buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, non consente alla parte datoriale di procrastinare la contestazione medesima in modo da rendere difficile la difesa del dipendente o perpetuare l’incertezza sulla sorte del rapporto, mirando a tutelare il legittimo affidamento del prestatore – in relazione al carattere facoltativo dell’esercizio dei potere disciplinare, nella cui esplicazione il datore di lavoro deve comportarsi in conformità ai canoni della buona fede – sulla mancanza di connotazioni disciplinari del fatto incriminabile.
In tal senso l’immediatezza della contestazione è stata configurata dalla giurisprudenza di questa Corte, quale elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro (vedi ex plurimis, Cass. 25/01/2016 n. 1248, Cass. 10/9/2013 n. 20719).
Peraltro, non va sottaciuto che il criterio di immediatezza va inteso in senso relativo, dovendosi tener conto della specifica natura dell’illecito disciplinare, nonché del tempo occorrente per l’espletamento delle indagini, che è tanto maggiore quanto più è complessa l’organizzazione aziendale; la relativa valutazione del giudice di merito è poi insindacabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione adeguata e priva di vizi logici (cfr. Cass. 26.6.18, n. 16841, Cass. 12.1.16, n. 281, Cass. cit. n. 1248/2016).
3. Nel caso in esame la motivazione che innerva l’impugnata sentenza, appare congrua, logicamente coerente e puntualmente riferita a tutti gli elementi del giudizio. Il giudice del gravame ha infatti ampiamente argomentato sul punto, rimarcando che i fatti contestati nella loro oggettiva gravità, erano emersi nell’ottobre-novembre 2011 e che in tale prospettiva era da ritenersi assolutamente tempestiva la contestazione disciplinare formulata il 14/12/2011: infatti, dopo il procedimento disciplinare iniziato nel febbraio 2011, si erano verificate ulteriori irregolarità oggetto di specifiche segnalazioni da parte di clienti che avevano indotto la Banca ad eseguire una seconda verifica della gestione della filiale di Tivoli, sia in via documentale che attraverso l’audizione di tre operatori addetti alla stessa..
In tale prospettiva, doveva ragionevolmente escludersi che la Società avesse colpevolmente dilatato i tempi di indagine per fatti già appresi in occasione dei primi accertamenti del gennaio-febbraio 2011 giacchè la successiva contestazione del 14/12/2011 atteneva a comportamento non venuti alla luce all’esito della prima ispezione.
Le esposte argomentazioni si presentano del tutto congrue sotto il profilo logico, e corrette sul versante giuridico perché elaborate nel rispetto dei principi di diritto innanzi enunciati, nella assenza di alcuna lesione della tutela del legittimo affidamento del lavoratore (Cass. 8.6.09 n. 13167), onde resistono alla censura all’esame.
4. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 7 L. 300/1970 in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.
Stigmatizza l’impugnata sentenza per aver ritenuto non violato il principio del ne bis in idem benchè emergesse ex actis che il datore di lavoro aveva irrogato la massima sanzione disciplinare all’esito di un rinnovato scrutinio de medesimi fatti valutati in occasione del primo procedimento disciplinare del febbraio 2011.
5. Anche questo motivo palesa innanzitutto profili di inammissibilità.
Appare, infatti, innegabile il difetto di specificità che lo connota, atteso che non viene riportato il tenore delle contestazioni oggetto di censura, in violazione delle regole poste dal codice di rito per la proposizione e lo svolgimento del ricorso per cassazione secondo le prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4.
Sotto altro versante, neanche vengono enunciate specifiche argomentazioni volte a dimostrare le ragioni della contrarietà delle affermazioni in diritto della sentenza rispetto alle norme asseritamente violate (cfr. Cass. 17.3.2005 n. 11501) venendo ad atteggiarsi la critica quale mera contrapposizione di una interpretazione dell’atto rispetto a quella operata dal giudice del gravame che involge una questione di merito non sindacabile nella presente sede di legittimità.
Va rimarcato al riguardo che la Corte distrettuale ha bene posto in rilievo la diversità dei fatti oggetto di contestazione, osservando che la prima atteneva, ex plurimis, a specifiche operazioni di finanziamento o Mutui ipotecari posti in essere in violazione dei limiti imposti dai poteri delegati alla filiale ovvero a fronte di garanzie ipotecarie inferiori all’importo finanziato; a varie irregolarità nella attività istruttoria e al perfezionamento delle pratiche di fido; a comportamenti non conformi alla normativa in materia di antiriciclaggio.
La seconda addebitava invece al S. la costituzione con il capo ufficio ed un terzo estraneo all’istituto la cui presenza in filiale era consentita comunque dalla direzione, una compartecipazione finalizzata a favorire determinati soggetti ed a realizzare operazioni bancarie irregolari, oltre ad una serie cospicua di operazioni di sportello o di back office irregolari sollecitate o avallate dal ricorrente.
La questione delibata risulta, dunque, correttamente affrontata dalla Corte con argomentazioni congrue sotto il profilo logico e corrette sul versante giuridico; la fattispecie richiamata non è infatti sussumibile nell’ambito della violazione del principio di ne bis in idem (vedi Cass. 22.10.14, n. 22388, Cass. 30/10/2018 n. 27657), nè in quello della consumazione del potere disciplinare (Cass. 27.3.09, n. 7523) che si configura allorquando il datore di lavoro, una volta esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti costituenti infrazioni disciplinari, abbia esercitato una seconda volta, per quegli stessi fatti, il detto potere, ormai consumato, essendogli consentito soltanto di tener conto delle sanzioni eventualmente applicate, entro il biennio, ai fini della recidiva, nonché dei fatti non tempestivamente contestati o contestati ma non sanzionati – ove siano stati unificati con quelli ritualmente contestati – ai fini della globale valutazione, anche sotto il profilo psicologico, del comportamento del lavoratore e della gravità degli specifici episodi addebitati.
6. Il terzo motivo prospetta nullità della sentenza per omessa motivazione o motivazione apparente ex art. 132 c. 1 n. 4 c.p.c. ed art. 118 disp. att. in relazione all’art. 360 comma primo n. 4 c.p.c. Si deduce l’erroneità dei statuizione con cui è stata esclusa l’incapacità a testimoniare di taluni testimoni (due dei quali addetti al servizio ispettivo, ed un terzo oggetto di provvedimento disciplinare conservativo), in relazione ai quali si prospetta l’esistenza di un interesse personale, concreto ed attuale, che li coinvolgeva nel rapporto controverso.
7. Il motivo è privo di fondamento.
Ed invero, secondo i principi affermati da questa Corte, che vanno qui ribaditi, la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da “error in procedendo”, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla cor le più varie, ipotetiche congetture (vedi ex aliis, Cass. S.U. 3.11.2016 n. 22232).
Orbene, nello specifico, detto vizio non è riscontrabile. La Corte distrettuale ha infatti escluso la dedotta incapacità a testimoniare dei testi di parte appellata (due dei quali addetti al servizio auditing della Banca che avevano condotto la procedura ispettiva, ed il terzo, personalmente coinvolto nei fatti oggetto di contestazione disciplinare) facendo richiamo a specifico precedente giurisprudenziale concernente i dettami di cui all’art. 246 c.p.c.
Ha quindi mostrato di conoscere e condividere il principio ivi espresso, in base al quale l’incapacità a deporre prevista da tale disposizione si verifica solo quando il teste è titolare di un interesse personale, attuale e concreto, che lo coinvolga nel rapporto controverso, alla stregua dell’interesse ad agire di cui all’art. 100 cod. proc. civ., sì da legittimarlo a partecipare al giudizio in cui è richiesta la sua testimonianza, con riferimento alla materia che ivi è in discussione, non avendo, invece, rilevanza l’interesse di fatto a un determinato esito del giudizio stesso, né un interesse, riferito ad azioni ipotetiche, diverse da quelle oggetto della causa in atto, proponibili dal teste medesimo o contro di lui. (Cass. 8.6.12 n. 9353).
Detto iter argomentativo risulta assolutamente adeguato e conforme agli insegnamenti di questa Corte secondo cui in tema di provvedimenti giudiziali, la motivazione “per relationem” ad un precedente giurisprudenziale esime il giudice dallo sviluppare proprie argomentazioni giuridiche, purchè il percorso argomentativo consenta di comprendere la fattispecie concreta, l’autonomia del processo deliberativo compiuto e la riconducibilità dei fatti esaminati al principio di diritto richiamato (vedi Cass. 3.7.18, n. 17403).
8. Con la quarta censura si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 421 e 115 c.p.c. nonché dell’art. 111 Cost. in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c. Si critica la pronuncia della Corte di merito laddove ha ritenuto che il giudice di prime cure aveva esercitato correttamente il potere di direzione del procedimento e di ammissione della prova testimoniale, avendo questi formulato capitoli di prova “motu proprio” ritenendo di dover escutere solo un teste di parte ricorrente rispetto altre indicati dalla Banca.
9. Il motivo palesa innanzitutto un difetto di specificità, per la mancata trascrizione dei capitoli di prova dedotti dalle parti, in guisa tale da poterne apprezzare l’estraneità rispetto a quelli ammessi dal Tribunale (Cass. 3.7.10 n. 17915; Cass. 10.8.17, n. 19985) in violazione della prescrizione dell’art. 366, primo comma, n. 4 e n. 6 c.p.c.,
Non può in ogni caso, tralasciarsi di considerare che nel rito del lavoro, stante l’esigenza di contemperare il principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale, allorché le risultanze di causa offrono significativi dati di indagine, il giudice, anche in grado di appello, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, può in via eccezionale ammettere, anche d’ufficio, le prove indispensabili per la dimostrazione o la negazione di fatti costitutivi dei diritti in contestazione, sempre che tali fatti siano stati puntualmente allegati o contestati e sussistano altri mezzi istruttori, ritualmente dedotti e già acquisiti, meritevoli di approfondimento (Cass. 4.5.12, n. 6753; Cass. 28.3.18, n. 7694). L’esercizio di poteri istruttori rivolge un giudizio di opportunità rimesso ad un apprezzamento meramente discrezionale, che può essere sottoposto al sindacato di legittimità come vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., qualora la sentenza di merito non adduca un’adeguata spiegazione dell’esercizio (o mancato esercizio) di tale potere (cfr. Cass. 25.06.10 n. 12717, Cass. 15.5.2014 n. 10662, Cass. 4.4.2017 n. 8752).
Nello specifico, la Corte territoriale si è attenuta ai principi regolatori della materia sopra enunciati ed ha fornito dell’esercizio dei poteri istruttori da parte del giudice di prima istanza, adeguata motivazione (pagg.2 e 3 dell’impugnata sentenza); l’apparato argomentativo non incorre quindi nelle lacune che determinano l’intervento correttivo di questa Corte, secondo l’interpretazione del novellato art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. fornita dalle Sezioni Unite con le sentenze n. 8053 e 8054 del 2014.
10. La quinta censura concerne la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. Cost. in relazione all’art. 360 comma primo n.3 c.p.c. e si indirizza al giudizio di gravità delle mancanze ascritte espresso dalla Corte territoriale, in violazione del principio secondo cui la mancanza contestata al lavoratore dev’essere di entità tale che ogni altra risulti insufficiente a tutelare l’interesse della parte datoriale, sì da pregiudicare in modo irreversibile l’elemento fiduciario.
11. La censura presenta profili di inammissibilità.
Occorre rilevare, in via di premessa, come sia da escludere la configurabilità in astratto di qualsivoglia automatismo nell’irrogazione di sanzioni disciplinari, specie laddove queste consistano nella massima sanzione, permanendo il sindacato giurisdizionale sulla proporzionalità della sanzione rispetto al fatto addebitato (Cass. 1.12.2016 n.24574, C. Cost. n. 286 del 1999).
La proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto ai fatti commessi è, infatti, regola valida per tutto il diritto punitivo (sanzioni penali, amministrative) e risulta trasfusa per l’illecito disciplinare nell’art. 2106 c.c., con conseguente possibilità per il giudice di annullamento della sanzione “eccessiva”, proprio per il divieto di automatismi sanzionatori, non essendo, in definitiva, possibile introdurre, con legge o con contratto, sanzioni disciplinari automaticamente conseguenziali ad illeciti disciplinari.
Va, inoltre, considerato che secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Corte, al quale va data continuità, l’operazione valutativa, compiuta dal giudice di merito nell’applicare clausole generali come quella dell’art. 2119 c.c., è da effettuarsi con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla utilità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo (ex plurimis, vedi Cass. 1.12.2016 n. 24574, Cass. 26.9.2016 n. 18858).
Deve poi ribadirsi che la giusta causa di licenziamento, così come il giustificato motivo, costituiscono una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con disposizioni (ascrivibili alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineanti un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura di norma giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge.
L’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento, è quindi sindacabile in cassazione, a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (Cass. 15.4.16, n. 7568; Cass. 24.3.15, n. 5878; Cass. 26.4.12, n. 6498; Cass. 2.3.11, n. 5095).
Nella specie, tuttavia, non viene contestata una incoerenza della statuizione impugnata rispetto agli standard valoriali invalsi nella coscienza sociale, ma una diversa valutazione dei fatti emersi in sede istruttoria che rimanda ad un giudizio valutativo di merito; ed in proposito non può trascurarsi il richiamo ai principi affermati da questa Corte, che vanno qui condivisi, in base ai quali la valutazione della gravità dell’infrazione e della sua idoneità ad integrare giusta causa di licenziamento si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed incensurabile in sede di legittimità, se congruamente motivato (ex plurimis, vedi Cass. 3/1/2011 n. 35).
Orbene, la pronuncia impugnata, sul punto, risulta sorretta da motivazione assolutamente congrua, avendo espresso un giudizio di proporzionalità della sanzione adottata in ragione non solo del numero e della reiterazione delle operazioni irregolari poste in essere dal S., ma anche della peculiare posizione rivestita dal lavoratore nella compagine organizzativa in quanto vice preposto alla filiale, idonea a vulnerare indubbiamente lo specifico interesse datoriale al mantenimento di una affidabile e trasparente organizzazione del lavoro (vedi, con riferimento al licenziamento per giusta causa nel settore del credito Cass. 8.4.2016 n. 6901).
Anche siffatto motivo, per le ragioni esposte, va disatteso.
Dalla reiezione delle ragioni di doglianza che precedono, discende, poi, l’assorbimento della sesta e settima censura con le quale si critica la sentenza per aver ritenuto insussistenti nella specie i requisiti propri del licenziamento ingiurioso e per omessa pronuncia sulla domanda di riconoscimento del risarcimento del danno biologico ed alla vita di relazione.
12. Alla stregua delle superiori argomentazioni, il ricorso deve essere, conclusivamente, rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono il principio della soccombenza, liquidate come da dispositivo.
Essendo stato il presente ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art.1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 6.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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