CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 dicembre 2018, n. 32164
Rapporto di lavoro – Atti persecutori e vessatori – Risoluzione consensuale – Accordo transattivo viziato con effetti di nullità o annullabilità
Rilevato che
1. con sentenza del 5.12.2016, la Corte di appello di Roma rigettava il gravame proposto da V. G. avverso la decisione del Tribunale capitolino che aveva respinto il ricorso proposto dal predetto per l’accertamento della sottoposizione ad atti persecutori e vessatori da parte della Confederazione Nazionale Coldiretti, presso la quale aveva prestato attività lavorativa, quale vicedirettore presso varie sedi sarde, e per la condanna della stessa al risarcimento dei danni anche per lesione all’immagine ed alla professionalità, oltre che alla restituzione di quanto rinunziato in conseguenza dell’accertamento della nullità del verbale di conciliazione del 18.11.2008 e delle rinunce in esso disposte;
2. la Corte osservava che non si era verificato alcun difetto di rappresentanza sindacale in sede conciliativa, essendo stato presente il rappresentante del lavoratore e non avendo quest’ultimo formulato specifiche doglianze con riguardo alle modalità dell’assistenza prestata o relativamente ad inadempienze capaci di rendere inidonea la difesa posta in essere in suo favore; riteneva, poi, la validità della transazione con la quale era stata convenuta la cessazione del rapporto di lavoro, a fronte di un incentivo all’esodo in favore del V., a conferma, peraltro, di quanto già conformemente pattuito in sede di risoluzione consensuale, nella precedente data del 8.9.2008, con atto non impugnato; aggiungeva che, essendosi la conciliazione realizzata nelle forme previste dagli artt. 185, 410 e 411 c.p.c., doveva ritenersi superata la presunzione di non libertà del lavoratore e che gravava su quest’ultimo l’onere di dimostrare che l’atto transattivo fosse viziato con effetti di nullità o annullabilità, onere nella specie non assolto;
3. una volta accertata la validità dell’atto transattivo ed esclusa ogni rilevanza in senso mobbizzante della vicenda conciliativa, doveva, quindi, secondo la Corte, ritenersi carente ogni altra prova di elementi atti a dimostrare il disegno vessatorio asseritamente posto in essere dal datore di lavoro;
4. di tale decisione domanda la cassazione il V., affidando l’impugnazione a quattro motivi, cui resiste, con controricorso, la società;
5. entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 380 bis. 1 c.p.c.
Considerato che
1. con il primo motivo, si denunzia violazione o falsa applicazione degli artt. 410, 411 c.p.c., dell’art. 2113 c.c., violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c., e dell’art. 111 Cost., per avere reso il giudice del gravame una motivazione apparente, altrimenti difetto assoluto di motivazione su fatti decisivi della controversia ed, in ogni caso, omessa motivazione su fatti controversi, decisivi in causa, con riferimento alla presenza in sede conciliativa di un membro della sottocommissione istituita ex lege presso le D.P.L. e non di un rappresentante del lavoratore;
2. con il secondo motivo, si lamenta omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c., rilevante ex art. 360 n. 4 c.p.c., altrimenti difetto assoluto di motivazione su fatti decisivi controversi, violazione dell’art. 132, n. 4, ed, in ogni caso, omessa motivazione su fatti controversi decisivi ex art. 360, n. 5, c.p.c., ritenendosi che il verbale di conciliazione sindacale del 18.11.2008 costituisca atto intraneo alla logica mobbizzante di Coldiretti, integrante aspetto del disegno vessatorio di essa;
3. violazione o falsa applicazione degli artt. 2729 c.c. e 115 c.p.c., del principio di non contestazione, nonché vizio di omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c. o, altrimenti, difetto assoluto di motivazione su fatto decisivo della controversia, violazione dell’art. 132, n 4, c.p.c. e, in ogni caso, omessa motivazione su fatti controversi decisivi di causa sono ascritti alla decisione impugnata nel terzo motivo, sostenendosi che nessuna delle circostanze allegate era stata fatta oggetto di contestazione, donde la violazione dell’art. 115 c.p.c. e che le stesse avrebbero potuto perciò ben costituire la base del ragionamento presuntivo;
4. con il quarto motivo, in relazione alla chiesta “revoca dell’ordinanza istruttoria (udienza del 16.5.2013) che ha rigettato la sollecitazione al C.t.u. fatta dal ricorrente e, previa disposizione di detta c.t.u.” ci si duole della violazione o falsa applicazione di norme di diritto ex 156 c.p.c. e, in ogni caso, della omessa pronuncia, ex art. 112 c.p.c., rilevante ex art. 360, n. 4, c.p.c., in ordine al rigetto delle istanze istruttorie richieste;
5. il primo motivo è destituito di giuridico fondamento, posto che la presenza di un rappresentante sindacale del lavoratore, asseritamente non garantita all’atto della conciliazione intervenuta tra le parti del presente giudizio è prevista dall’art 410 commi 6 e 7 c.p.c., nel testo vigente prima della l. 183/2010, con riferimento alla particolare fattispecie di conciliazione dinanzi alla DPL, nei seguenti termini: “In ogni coso per lo validità dello riunione è necessaria la presenza del presidente e di almeno un rappresentante dei datori di lavoro e di uno dei lavoratori. Ove la riunione dello commissione non sia possibile per la mancata presenza di almeno uno dei componenti di cui al precedente comma, il direttore dell’ufficio provinciale del lavoro certifica l’impossibilità di procedere al tentativo di conciliazione”. Ciò esclude la validità di quanto evidenzia il ricorrente, il quale richiama precedenti di questa Corte che attengono alla diversa fattispecie della conciliazione in sede sindacale, che differisce dall’ipotesi all’esame in cui è stato dato atto della presenza di un rappresentante del lavoratore. In ogni caso, si censura l’interpretazione dell’atto come effettuata dal giudice del merito, ritenendosi che il verbale di conciliazione contenesse clausole di stile e riferimento a “diritti acquirendi”, ciò che è stato escluso dalla Corte capitolina che ha bene evidenziato come l’accordo transattivo avesse ad oggetto reciproche concessioni, avesse un oggetto definito e coerentemente avesse previsto, a fronte della corresponsione di un incentivo, la risoluzione del rapporto e la rinuncia ad ogni pretesa che trovava titolo in rapporto già in precedenza risolto consensualmente;
6. né si contesta sul piano interpretativo il contenuto di detto accordo attraverso il richiamo alla violazione delle regole ermeneutiche di cui agli artt. 1362 e ss, c.c., il che preclude ogni doglianza, posto che è risultato idoneamente accertato, sulla base dell’interpretazione del documento e per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili “aliunde” (precedente risoluzione consensuale del rapporto), che la volontà transattiva è stata espressa con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi (cfr., tra le altre, Cass. 17.5.2006 n. 11536);
7. quanto alla doglianza formulata nel secondo motivo, va osservato che nel corpo del motivo non si indica dove e come nelle fasi del merito sia stato specificamente allegato e, successivamente provato, il carattere “intraneo” al disegno mobbizzante del verbale di conciliazione, essendo in termini generali la ricostruzione del giudice del merito non sindacabile, ove, come nella specie, siano stati esclusi, ai fini della prova della sussistenza del disegno persecutorio e comunque vessatorio, la gravità e la durata dell’inadempimento, il riflesso negativo della pretesa dequalificazione in ambito lavorativo e sulle abitudini di vita del ricorrente, secondo la Corte capitolina non supportati da adeguate richieste di mezzi istruttori;
8. quanto alla contestazione del ragionamento presuntivo ed all’assunta violazione del principio di non contestazione, dedotte nel terzo motivo, è sufficiente osservare che il giudice del gravame ha al riguardo affermato: “Una volta accertata la validità dell’atto transattivo e correlativamente esclusa ogni rilevanza in senso mobbizzante della vicenda conciliativa nel suo complesso, non può che convenirsi con il primo giudice circa l’assoluta mancanza di prova di ulteriori elementi specifici atti a dimostrare, pur nell’ottica presuntiva del danno, il disegno vessatorio posto in essere dal datore. … L’effettività dello scarto retributivo non è circostanza in sé rilevante, trovando giustificazione nel più ampio contesto transattivo”;
9. in tema di presunzioni di cui all’art. 2729 c.c., la denunciata mancata applicazione di un ragionamento presuntivo che si sarebbe potuto e dovuto fare, ove il giudice di merito non abbia motivato alcunché al riguardo (e non si verta nella diversa ipotesi in cui la medesima denuncia sia stata oggetto di un motivo di appello contro la sentenza di primo grado, nel qual caso il silenzio del giudice può essere dedotto come omissione di pronuncia su motivo di appello), non è deducibile come vizio di violazione di norma di diritto, bensì solo ai sensi e nei limiti dell’art. 360, co. 1, n. 5 c.p.c., cioè come omesso esame di un fatto secondario (dedotto come giustificativo dell’inferenza di un fatto ignoto principale), purché decisivo (Cass. 6.7.2018 n. 17720). Nella specie, a parte la considerazione assorbente che si verte in ipotesi di “doppia conforme”, che preclude la deducibilità del vizio di cui all’art. 360, n 5, c.p.c., vale, comunque osservare che, in tema di presunzioni, ove si assuma, poi, che il giudice di merito abbia sussunto erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione (gravità, precisione e concordanza) fatti concreti che non sono invece rispondenti a quei requisiti, il relativo ragionamento è censurabile in base all’art. 360, n. 3, c.p.c. (e non già alla stregua del n. 5 dello stesso art. 360), competendo alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione di nomofilachia, controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta, lo sia stata anche sotto il profilo dell’applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta (Cass. 19485/2017);
10. tuttavia, nell’ipotesi considerata, al di là dei rilievi contenuti nel motivo di ricorso, la motivazione della sentenza si fonda sulla mancanza di prova in ordine agli elementi tipici del mobbing, che evidentemente non sono stati ritenuti coincidenti con quelli dedotti in ricorso e non contestati. Peraltro, nella specie si adduce che, nel contesto complessivo, asseritamente rilevante ai fini della prova della condotta mobbizzante, assuma rilievo decisivo la mancanza di rappresentanza del lavoratore in sede di verbale di conciliazione, il che è da escludere in base a quanto si è detto in relazione alle censure formulate con il primo motivo;
11. infine, quanto alla doglianza espressa nell’ultimo motivo, la sua infondatezza discende dalle considerazioni da ultimo esposte, atteso che la richiesta ammissione di c.t.u. non poteva supplire alla accertata deficienza delle allegazioni e prove offerte;
12. in conclusione, non essendo la ricostruzione complessiva della vicenda lavorativa dell’istante scalfita dalle censure di cui al ricorso, quest’ultimo va rigettato;
13. le spese del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo;
14. sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d. P.R. 115 del 2002;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi, euro 3500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese forfetarie in misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art.13, comma l bis, del citato D.P.R.
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