CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 febbraio 2020, n. 3425
Tributi – Accertamento – Studi di settore – Cessazione dell’attività di impresa individuale – Estinzione giuridica del soggetto – Esclusione
Rilevato che
La società contribuente ha impugnato un avviso di accertamento relativo all’anno di imposta 2004, per maggior reddito imponibile conseguente all’applicazione, come risulta dagli atti, dello studio di settore SG96U;
che la CTP di Salerno ha rigettato la domanda della società contribuente e la CTR della Campania, Sezione Staccata di Salerno, con sentenza in data 5 maggio 2013, ha rigettato l’appello del contribuente, ritenendo che il contribuente non ha addotto in sede di contraddittorio alcuna giustificazione idonea a giustificare lo scostamento tra i ricavi dichiarati e quelli accertati dall’amministrazione rilevando, ulteriormente, come l’applicazione di un nuovo studio di settore confermi le incongruità dei ricavi del contribuente;
che propone ricorso per cassazione parte contribuente affidato a cinque motivi, resiste con controricorso l’Ufficio;
Considerato che
con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 12 d. lgs. 31 dicembre 1992 n. 546 e dell’art. 24 Cost., per non avere il giudice di appello, nel rigettare il gravame, rilevato che il ricorso di primo grado fosse stato sottoscritto personalmente dal contribuente, con conseguente inammissibilità dello stesso, circostanza che avrebbe onerato il giudice di primo grado a concedere un termine al ricorrente per munirsi di un difensore a termini dell’art. 12, comma 5, d. lgs. n. 546/1992; che la questione è inammissibile, posto che – come risulta dallo stesso ricorso – la questione è stata dedotta dall’Ufficio in primo grado e sulla stessa questione la CTP ha omesso qualunque pronuncia; non avendo il ricorrente censurato tale questione in grado di appello, su tale questione si è formato il giudicato;
che non può, invero, il ricorrente, dolersi del fatto che la CTR non ha pronunciato su una specifica doglianza formulata dall’Ufficio in appello, sia in forza della suddetta preclusione processuale, sia in forza del fatto che la deduzione è stata articolata dalla parte odierna controricorrente, rispetto al cui rigetto (ancorché per omessa pronuncia) il ricorrente non ha interesse a dolersene;
che, pertanto, la questione dedotta dal ricorrente in sede di legittimità (oltre che coperta dal giudicato), si rivela del tutto nuova per la parte che la solleva e, quindi, inammissibile;
che con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2495 cod. civ., per non avere il giudice del merito considerato che l’avviso di accertamento era stato notificato a un soggetto giuridicamente inesistente, ovvero l’impresa individuale P.M., cancellata dal Registro delle Imprese in data 30 giugno 2008, con conseguente difetto di legittimazione passiva dell’odierno ricorrente;
che il motivo, il quale potrebbe prestarsi a una declaratoria di inammissibilità – non essendo tale questione tracciata nella sentenza impugnata, per cui la questione si sarebbe dovuta dedurre nelle forme dell’omessa pronuncia e della conseguente nullità della sentenza – è destituito di fondamento, posto che la disciplina di cui all’art. 2495 cod. civ. non è estensibile alle vicende estintive della qualità di imprenditore individuale (Cass., Sez. III, 23 settembre 2013, n. 21714; Cass., Sez. VI, 7 gennaio 2016, n. 98), posto che l’imprenditore individuale non si distingue dalla persona del proprio titolare (Cass., Sez. I, 4 maggio 2011, n. 9744); né alla cessazione della attività di impresa è connesso alcun fenomeno di estinzione giuridica (né, tanto meno successoria) in relazione alla persona del titolare dell’impresa cessata;
con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 39, comma 1, lett. d) d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e 62 -bis, 62 -sexies d.l. 30 agosto 1993, n. 331, conv. con I. 29 ottobre 1993, n. 427, nella parte in cui la sentenza impugnata ha confermato la sentenza impugnata in assenza di un effettivo contraddittorio con parte contribuente; evidenzia il ricorrente la centralità del contraddittorio ai fine di ritenere la pregnanza degli elementi indiziari addotti dall’amministrazione finanziaria sulla base degli studi di settore quanto alla riclassificazione dei ricavi dichiarati; deduce, in particolare, come l’Ufficio pur avendo provocato il contraddittorio, non ha preso in esame le ragioni del contribuente, né ha preso posizione sulle deduzioni di parte contribuente, né – infine – ha acquisito l’ulteriore documentazione che il ricorrente si era riservato di produrre;
che il motivo è inammissibile, in quanto il ricorrente non ritrascrive l’avviso di accertamento, allo scopo di verificare se e in che termini l’avviso di accertamento non abbia esaminato le censure di parte contribuente, né allega l’avviso al ricorso;
che con il quarto motivo si deduce violazione di legge in relazione all’art. 62-bis e 62-sexies d.l. n. 331/1993, per non avere il giudice di appello adeguatamente valutato la rielaborazione dello studio di settore prodotta dal contribuente sulla base di una versione evoluta dello studio di settore, più adeguata alla realtà aziendale in cui operava il ricorrente;
che il motivo in oggetto, articolato sotto il profilo della violazione di legge, è infondato, avendo la sentenza accertato, con accertamento non specificamente censurato, che «l’appellante fondava la propria difesa su di un nuovo studio di settore, all’uopo elaborato, da applicare all’attività svolta dal medesimo [..] Sul punto deve osservarsi come anche il suddetto studio disveli delle incongruità nella posizione contributiva complessiva del Procida»;
che con il quinto motivo si deduce omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio a termini dell’art. 360, comma 1, n. 5 cod. proc. civ., in relazione alla non appropriatezza dello studio di settore applicato, con riferimento al fatto che il contribuente operasse in regime di subappalto, nonché in relazione al fatto che l’Ufficio avesse ridotto per l’annualità successiva i ricavi accertati, nonché (infine) alla cessazione dell’attività di impresa;
che il motivo è inammissibile, posto che l’attuale formulazione della disposizione normativa in oggetto (art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ.), concerne l’omesso esame di un fatto storico, anche solo secondario, che risulti dal testo della sentenza, che abbia formato oggetto di discussione tra le parti e che abbia carattere decisivo, per cui il ricorrente deve illustrare logicamente come l’esame di tale fato storico avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053), indicazioni che vanno esposte sotto pena di inammissibilità del motivo e che nella specie fanno difetto;
che il ricorso va, pertanto, rigettato, con spese regolate dal principio della soccombenza e con raddoppio del contributo unificato;
P.Q.M.
rigetta il ricorso, condanna P.M. al pagamento delle spese processuali del giudizio di legittimità in favore dell’Agenzia delle entrate, che liquida in complessivi € 2.300,00, oltre spese prenotate a debito; dà atto che sussistono i presupposti processuali, a carico del ricorrente, ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17 della I. 24 dicembre 2012, n. 228, per il versamento degli ulteriori importi a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per ciascuno dei ricorsi proposti, se dovuti.
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