CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 maggio 2022, n. 15210
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Illegittimità – Violazione dell’obbligo di repechage – Impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore
Rilevato che
1. all’esito della fase sommaria del procedimento ex lege n. 92 del 2012 introdotto da M.L. nei confronti di A. S.A.I. Spa per l’impugnativa del licenziamento comunicato il 24 giugno 2016, il Tribunale di Milano, in accoglimento parziale del ricorso, accertò “la non ricorrenza degli estremi del giustificato motivo oggettivo del licenziamento intimato alla ricorrente” per violazione dell’obbligo di repechage e, per l’effetto, dichiarò “risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento”, con “il diritto della ricorrente ad un’indennità risarcitoria pari a 24 mensilità della retribuzione globale di fatto (al tallone mensile di € 1756,68)”; stante l’intervenuta ammissione della società all’amministrazione straordinaria, il giudice dichiarò altresì “improseguibile la domanda di condanna al pagamento di tale somma”;
2. propose opposizione avverso tale ordinanza la sola L., censurandola sotto diversi profili e, in particolare, in ragione della mancata applicazione del rimedio previsto dai commi 1 e 2 dell’art. 18 citato o, comunque, della tutela reintegratoria stabilita dal combinato disposto dei commi 7 e 4 del medesimo art. 18; si costituì la società “contestando la fondatezza del ricorso in opposizione e chiedendo la conferma dell’ordinanza resa al termine della fase sommaria”; il Tribunale adito rigettò l’opposizione della lavoratrice;
3. in seguito a reclamo proposto ancora dalla sola L., la Corte territoriale competente, in parziale riforma della sentenza impugnata, ha accertato il diritto della medesima “alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento a quella dell’effettiva reintegrazione, oltre interessi e rivalutazione, fino a un massimo di 12 mensilità”, confermando nel resto la sentenza impugnata;
4. la Corte, in sintesi, constatato che la società non aveva fatto opposizione all’ordinanza di prime cure che aveva ritenuto l’illegittimità del licenziamento, né aveva proposto reclamo avverso la sentenza che l’aveva confermata, ha esplicitamente condiviso la giurisprudenza di legittimità in base alla quale “qualora risulti in modo manifesto” la violazione dell’obbligo di repechage ricorrono gli estremi per l’applicazione della tutela prevista dal quarto comma dell’art. 18 novellato; ha quindi argomentato: “il presupposto di legittimità del recesso, costituito dall’adempimento dell’obbligo di ricollocazione della lavoratrice, risulta insussistente in modo ormai incontroverso e, come tale, certamente manifesto ai fini indicati dalla citata giurisprudenza”;
4. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso A. S.A.I. Spa in amministrazione straordinaria con 3 motivi; ha resistito con controricorso la L.;
parte ricorrente ha comunicato memoria;
Considerato che
1. con il primo motivo del ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 329 c.p.c., sostenendo che la Corte d’Appello avrebbe errato “nel ravvisare l’aperta acquiescenza della datrice di lavoro all’accertata violazione dell’obbligo di repechage”;
col secondo motivo si lamenta che la Corte territoriale avrebbe omesso di esaminare una precisa controdeduzione sollevata dall’odierna ricorrente, ovverosia la asserita violazione dell’obbligo di repechage, invocando l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.;
2. i motivi, congiuntamente esaminabili per connessione, non meritano accoglimento;
il primo perché evoca il vizio di violazione di una regola processuale non pertinente rispetto al decisum, in quanto la Corte territoriale – come ricordato nello storico della lite – non ha applicato l’art. 329 c.p.c. in punto di tutela applicabile quale conseguenza del licenziamento illegittimo, che era l’unica questione devoluta dall’impugnazione proposta dalla sola L., ma ha semplicemente valutato la condotta della società, anche processuale, al fine di valutare la manifesta insussistenza della ragione giustificatrice del recesso per motivo oggettivo;
il secondo motivo è inammissibile;
il n. 5 dell’art. 360 c.p.c. non può essere dedotto per omesso esame di un fatto processuale bensì per un fatto storico decisivo, principale o secondario, precedente all’instaurazione della controversia, peraltro nel rispetto degli enunciati posti dalle Sezioni unite di questa Corte con le sentenze nn. 8053 e 8054 del 2014 che, nella specie, non sono stati adeguatamente osservati nella formulazione della censura; inoltre, la circostanza che la società avesse violato l’obbligo di repechage non poteva essere riesaminata dal giudice del secondo grado in mancanza di specifico reclamo della soccombente in primo grado;
3. con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 18 l. n. 300/1970, commi 5 e 7, deducendo che “dalla mancata prova da parte del datore di lavoro del mancato assolvimento dell’onere di repechage […] deriva la conseguenza sanzionatoria di cui al comma 5 dell’art. 18 l. n. 300/70 (meramente indennitaria), anziché quella di cui al comma 7 (reintegratoria)”; inoltre si sostiene che nel caso ricorrerebbe una ipotesi di “insufficienza probatoria”, piuttosto che di manifesta infondatezza della causa giustificatrice del licenziamento;
la censura è in parte infondata e in parte inammissibile;
infondata perché la sentenza della Corte territoriale è conforme al principio consolidato secondo cui “la verifica del requisito della ‘manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento concerne entrambi i presupposti di legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, sia le ragioni inerenti all’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa sia l’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore” (per tutte: Cass. n. 10435 del 2018);
è inammissibile perché, secondo l’arresto di questa Corte appena richiamato, l’apprezzamento che, sul piano probatorio, registri l’assenza di uno dei presupposti giustificativi del licenziamento tale da indurre il convincimento circa “la chiara pretestuosità del recesso, (è) accertamento di merito demandato al giudice ed incensurabile, in quanto tale, in sede di legittimità” (Cass. n. 10435/2018 cit.; v. poi Cass. n. 32159 del 2018 e Cass. n. 29102 del 2019);
4. pertanto il ricorso deve essere respinto; le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo;
ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente società al pagamento delle spese liquidate in euro 5.000,00, oltre euro 200,00 per spese, accessori secondo legge e rimborso spese generali al 15%.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
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