CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 ottobre 2021, n. 27775
Tributi – Disciplina società non operative – Cessione di immobile strumentale – Riqualificazione ricavo di vendita in plusvalenza – Mancato superamento del test di operatività – Diniego rimborso credito IVA
Fatti di causa
Considerato che:
la Commissione Tributaria Provinciale respingeva il ricorso della parte contribuente avverso il diniego espresso opposto dall’Ufficio all’istanza di rimborso avente ad oggetto somme a titolo di credito IVA per l’anno d’imposta 2015;
la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia respingeva l’appello della parte contribuente osservando da un lato che, nell’ipotesi, come nel caso di specie, di tributi armonizzati, non occorre il contraddittorio preventivo in assenza di indicazione da parte dell’appellante di un concreto vulnus al proprio diritto di difesa e dall’altro che i proventi realizzati da una compravendita di un immobile – acquistato nel 1990 – avvenuta nel 2015 devono essere considerati plusvalenze e non ricavi dal momento che l’immobile stesso è stato legittimamente considerato patrimonio della società in quanto iscritto nel registro cespiti, ossia nel registro in cui vanno annotati tutti i beni acquistati dall’azienda e iscritti a bilancio fra le immobilizzazioni, l’immobile è stato considerato strumentale all’attività d’impresa in quanto il suo indirizzo coincide con quello della sede sociale della società e gli immobili destinati alla vendita avrebbero dovuto essere indicati tra le rimanenze finali e le esistenze iniziali, mentre nel quadro RG della dichiarazione della società non risulta essere dichiarato alcun dato: pertanto, anche in considerazione del lungo termine trascorso tra l’acquisto e la vendita dell’immobile, sono sufficienti a qualificare la differenza attiva di cessione quale plusvalenza e quindi a ritenere fondato il diniego al rimborso.
Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione la parte contribuente affidandosi a due motivi di impugnazione e in prossimità dell’udienza depositava memoria insistendo per l’accoglimento del ricorso. L’Agenzia delle Entrate si è costituita con controricorso.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo di impugnazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la parte contribuente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 7, 10 e 12 della legge n. 212 del 2000 nonché 3, 24, 53 e 97 Cost. nella parte in cui non ha accertato la nullità del provvedimento di diniego alla richiesta di rimborso del credito IVA emesso in assenza del preventivo contraddittorio.
Con il secondo motivo di impugnazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la parte contribuente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 30 della legge n. 724 del 1994 in quanto la sentenza impugnata ha erroneamente accertato la correttezza dell’operato dell’Agenzia delle entrate che ha disconosciuto al provento della compravendita immobiliare de quo la qualifica di ricavo, riqualificandolo come plusvalenza, circostanza che ha determinato il mancato superamento del c.d. test di operatività e quindi il diniego del rimborso del credito IVA richiesto dalla parte contribuente.
Il primo motivo di impugnazione è infondato.
Secondo questa Corte infatti:
in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, nell’ipotesi di tributi “armonizzati”, l’Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa (Cass. n. 25598 del 2020; Cass. n. 27420 del 2018; Cass. SU n. 24823 del 2015).
La Commissione Tributaria Regionale si è attenuta ai suddetti principi là dove – osservando che, nell’ipotesi, come nel caso di specie, di tributi armonizzati, non occorre il contraddittorio preventivo in assenza di indicazione da parte dell’appellante di un concreto vulnus al proprio diritto di difesa – ha rilevato che per i tributi armonizzati il contribuente avrebbe dovuto dimostrare – cosa che nel caso di specie non ha fatto – che se fosse stato invitato in fase stragiudiziale dall’Ufficio avrebbe dedotto circostanze non pretestuose che ben avrebbero potuto determinare un esito diverso del procedimento.
Il secondo motivo è parimenti infondato.
Secondo questa Corte infatti: in tema di Iva, nel caso in cui sussistano le condizioni soggettive e oggettive di applicabilità della disciplina relativa alle società di comodo di cui alla l. n. 724 del 1994 in ragione del mancato superamento del c.d. test di operatività, il contribuente è tenuto a fornire la prova contraria, dimostrando, ai sensi dell’art. 30, comma 4-bis, della l. n. 724 citata, la presenza di quelle oggettive condizioni che hanno impedito il conseguimento dell’ammontare minimo di ricavi, dell’incremento di rimanenze, di proventi e di reddito o non hanno consentito di effettuare operazioni rilevanti ai fini Iva, così da consentire la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive (nella specie, la Cassazione, nel confermare la sentenza impugnata, ha ritenuto che, in linea con i principi espressi dalla Corte di Giustizia, non fosse sufficiente dimostrare che l’inoperatività era dipesa dalla mancata conclusione dell’immobile da utilizzare per lo svolgimento dell’attività, dovendosi altresì provare che il ritardo era stato determinato da ragioni estranee al contribuente e non riconducibili a sua volontà: Cass. n. 34642 del 2019);
in tema di società di comodo, l’art. 30 della l. n. 724 del 1994, al comma 1, prevede una presunzione legale relativa, in base alla quale una società si considera “non operativa” se la somma di ricavi, incrementi di rimanenze e altri proventi (esclusi quelli straordinari) imputati nel conto economico è inferiore a un ricavo presunto, calcolato applicando determinati coefficienti percentuali al valore degli “asset” patrimoniali intestati alla società (cd. “test di operatività dei ricavi”), senza che abbiano rilievo le intenzioni e il comportamento dei soci, ma poi, al successivo comma 4-bis, consente la presentazione dell’istanza di interpello (chiedendo la disapplicazione delle “disposizioni antielusive”), in presenza di situazioni oggettive (ossia non dipendenti da una scelta consapevole dell’imprenditore), che abbiano reso impossibile raggiungere il volume minimo di ricavi o di reddito di cui al precedente comma 1, così rispondendo all’esigenza di dare piena attuazione al principio di capacità contributiva, di cui la disciplina antielusiva è espressione, lasciando nel contempo spazio al diritto di difesa del contribuente, sufficientemente garantito dagli strumenti del contraddittorio e dalla necessità di una motivazione puntuale della condotta elusiva nell’avviso di accertamento (Cass. n. 9852 del 2018).
La Commissione Tributaria Regionale si è attenuta ai suddetti principi là dove – osservando che i proventi realizzati da una compravendita (avvenuta nel 2015) di un immobile (acquistato nel 1990) devono essere considerati plusvalenze e non ricavi dal momento che l’immobile stesso è stato legittimamente considerato patrimonio della società in quanto iscritto nel registro cespiti, ossia nel registro in cui vanno annotati tutti i beni acquistati dall’azienda e iscritti a bilancio fra le immobilizzazioni, l’immobile è stato considerato strumentale all’attività d’impresa in quanto il suo indirizzo coincide con quello della sede sociale della società e gli immobili destinati alla vendita avrebbero dovuto essere indicati tra le rimanenze finali e le esistenze iniziali, mentre nel quadro RG della dichiarazione della società non risulta essere dichiarato alcun dato: pertanto, anche in considerazione del lungo termine trascorso tra l’acquisto e la vendita dell’immobile, sono sufficienti a qualificare la differenza attiva a seguito della cessione quale plusvalenza e quindi a ritenere fondato il diniego al rimborso – ha ragionevolmente ritenuto trattarsi di una plusvalenza e non di un ricavo e, ritenendo conseguentemente non superato il c.d. test di resistenza, ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi in tema di società di comodo: per il resto le doglianze della parte ricorrente, pur formalmente volte a denunciare una violazione di legge, là dove sono surrettiziamente volte a considerare il provento della compravendita come immobile come ricavo e quindi a contestare la qualificazione della compravendita come plusvalenza (come ragionevolmente affermato dalla Commissione Tributaria Regionale, con un ragionamento che ha analizzato coerentemente tutti gli elementi del caso di specie a sua disposizione) investono il merito della lite e sono pertanto insuscettibili di poter essere valutate in Cassazione, in quanto con il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito poiché la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità (Cass. n. 29404 del 2017; Cass. n. 5811 del 2019; Cass. n. 27899 del 2020).
Pertanto, ritenuti infondati entrambi i motivi di impugnazione, il ricorso va conseguentemente rigettato; le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in euro 5.000, oltre a spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1- bis dello stesso articolo 13, se dovuto.