CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 settembre 2018, n. 22184
Improcedibilità del ricorso – Mancata comparizione all’udienza e deposito della copia notificata del ricorso – Difetto di regolare procura ad litem – Sottoscrizione della procura non recante l’autentica in calce
Rilevato che
la Corte d’Appello di Roma, con sentenza n. 1067/2012, ha dichiarato inammissibile l’appello proposto da J.K. avverso la sentenza di primo grado del locale Tribunale che aveva dichiarato improcedibile la domanda dispiegata dal medesimo e ciò a causa della mancata comparizione all’udienza di discussione e del mancato deposito della copia notificata del ricorso introduttivo;
la Corte territoriale riteneva inammissibile il gravame per difetto di regolare procura ad litem in quanto la sottoscrizione di essa ad opera della parte non recava l’autentica in calce, mentre nel retro del foglio vi erano alcune scritte in lingua straniera ed alcuni timbri, che tuttavia non consentivano di stabilire se e da quale autorità la sottoscrizione fosse stata in ipotesi autenticata e, ancora più in generale, la riferibilità stessa degli scritti a tergo al conferimento del mandato; avverso la sentenza lo K. propone ricorso per cassazione con un unico articolato motivo, cui resiste l’I.N.P.S. con controricorso;
Considerato che
il motivo di ricorso denuncia, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 182 c.p.c., dell’art. 112 c.p.c. per essersi ritenuta nulla la procura alle liti in quanto prodotta in fotocopia e comunque per non essersi concesso termine ai sensi dell’art. 182 c.p.c. per la sanatoria dei vizi ravvisati dalla Corte;
il motivo è infondato;
va intanto escluso che abbia alcun rilievo la questione sulla produzione della procura in copia fotostatica/fotografica, in quanto non è su tale punto che si è incentrata la motivazione della Corte distrettuale, ma su quello in merito alla impossibilità di riferire gli scritti in lingua straniera a tergo della procura al documento (la procura) posto sull’altro lato del foglio e, più in generale, all’incertezza in ordine al consistere di tali scritti in una forma di autentica della sottoscrizione della parte rispetto alla predetta procura;
in proposito è senza dubbio acquisito il principio, pur nella disciplina anteriore alle modifiche introdotte dalla legge n. 69 del 2009, secondo cui l’art. 182 c.p.c. va inteso nel senso che il giudice, allorquando rilevi i difetti indicati dalla norma, «deve promuovere la sanatoria, in qualsiasi fase e grado del giudizio e indipendentemente dalle cause del predetto difetto, assegnando un termine alla parte che non vi abbia già provveduto di sua iniziativa, con effetti ex tunc, senza il limite delle preclusioni derivanti da decadenze processuali», (Cass., S.U., 19 aprile 2010, n. 9217) e che tale regime opera anche rispetto a vizi della procura alle liti (Cass. 4 novembre 2015, n. 22559);
tuttavia, il necessario coordinamento con i principi di economia processuale, impone di limitare la portata della norma ai casi in cui appunto, come testualmente affermato da essa, sia il giudice a rilevare il difetto o vizi della procura, mentre se il rilievo avviene su eccezione di parte, è lo stesso interessato a dover regolarizzare la propria posizione, se del caso, qualora i tempi dell’eccezione altrui non consentano un immediato rimedio, previa richiesta di termine a tal fine, provvedendo comunque, in proposito, quanto meno con l’ultima attività processuale utile prima che il giudice del grado sia chiamato a pronunciare definitivamente sulla ritualità della procura stessa; non si può infatti consentire che l’inerzia di una delle parti nel reagire diligentemente rispetto all’eccezione altrui trovi salvaguardia nella concessione officiosa di termini che, a quel punto, non si giustifica; consequenzialmente, non è fondato il motivo di ricorso con cui, nelle circostanza di cui sopra, si adduca la mancata concessione del termine ex art. 182 c.p.c., pretendendo su tale base la riforma o la cassazione della sentenza, al fine di realizzare una sanatoria che è mancata per negligenza della parte;
tale principio è stato già implicitamente affermato allorquando, nell’ambito della rappresentanza processuale, soggetta al medesimo regime di cui all’art. 182 c.p.c., si è ritenuto che «qualora il rilievo del vizio in sede di legittimità non sia officioso, ma provenga dalla controparte, l’onere di sanatoria del rappresentato sorge immediatamente, non essendovi necessità di assegnare un termine, che non sia motivatamente richiesto, giacché sul rilievo di parte l’avversario è chiamato a contraddire» (Cass., S.U., 4 marzo 2016, n. 4248; v. anche Cass. 28 maggio 2014, n. 11898);
nel caso di specie, poiché l’eccezione inerente l’autentica della procura, nei termini sopra detti, fu sollevata dall’I.N.P.S. con la memoria di costituzione in appello, era onere del ricorrente regolarizzare la propria posizione nell’ambito del giudizio di gravame, senza che il giudice dovesse a concedere termini ex art. 182 c. p.c.;
è del resto pacifico che «la procura speciale alle liti rilasciata all’estero (…) è nulla, agli effetti dell’art. 12 della legge 31 maggio 1995, n. 218, relativo alla legge regolatrice del processo, ove non sia allegata la traduzione dell’attività certificativa svolta dal notaio, e cioè l’attestazione che la firma sia stata apposta in sua presenza da persona di cui egli abbia accertato l’identità, vigendo pure per gli atti prodromici al processo il principio generale della traduzione in lingua italiana a mezzo di esperto» (Cass. 4 aprile 2018, n. 8174; Cass. 29 maggio 2015, n. 11165), con principio che trova qui applicazione, in quanto il vizio consiste appunto nel fatto che sono stati redatti in lingua straniera gli atti necessari alla autenticazione della sottoscrizione della procura;
la decisione in sede di appello risulta del tutto in linea con tale giurisprudenza e addirittura parte ricorrente neppure in questa sede ha fornito prova di quella originaria asserita autenticazione, avendo allegato nel ricorso per cassazione una nuova procura alle liti, palesemente inidonea a sanare ex tunc un vizio processuale ormai, secondo quanto finora precisato, consolidatosi; il ricorso va quindi respinto, con regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rifondere al controricorrente le spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 2.000,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
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