CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 settembre 2018, n. 22196
Assistenza al familiare disabile – Congedo straordinario – Requisiti – Licenziamento – Dimora in località diversa dal parente
Rilevato che
con sentenza depositata ril.10.2016 la Corte di Appello di Roma, confermando la sentenza del Tribunale della medesima sede, ha dichiarato legittimo il licenziamento intimato l’1.12.2014 dalla società P.I. s.p.a. a F.P. ritenendo, sotto il profilo formale, correttamente comunicato il recesso ai sensi dell’art. 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 (come novellato dall’art. 1, comma 37, della legge n. 92 del 2012) e, dal punto di vista sostanziale, insussistenti i requisiti richiesti dall’art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001 per fruire del congedo straordinario ottenuto per il periodo 23.7.2014 – 21.6.2016, avendo la società accertato (tramite indagini investigative da ritenersi adeguate all’obiettivo prefissato) che la lavoratrice dimorava in località diversa dal parente, affetto da grave handicap, da assistere; avverso tale sentenza la lavoratrice ha proposto ricorso affidato a quattro motivi; la società ha resistito con controricorso; entrambe le parti hanno depositato memoria;
Considerato che
la ricorrente deduce, con il primo motivo, violazione e falsa applicazione dell’art. 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 come novellato dall’art. 1, comma 37, della legge n. 92 del 2012 (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.), avendo, la Corte territoriale, errato nel ritenere che la comunicazione di licenziamento potesse richiamare per relationem la lettera di contestazione disciplinare nonostante la chiara indicazione della novella legislativa della contestualità dell’indicazione dei motivi;
con il secondo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001 (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.), avendo, la Corte territoriale confuso la natura tipica del congedo straordinario equiparandolo agli altri istituti del congedo ordinario e dei permessi, dovendo, di contro, ritenersi il rapporto di lavoro caduto in uno stato di quiescenza con conseguente impossibilità del datore di lavoro di controllare la legittima concessione del beneficio in considerazione dell’erogazione del trattamento economico non più da parte del datore di lavoro bensì dall’INPS;
con il terzo motivo si deduce vizio di motivazione (ex art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ.), avendo, la Corte territoriale, erroneamente esaminato la documentazione prodotta, ed in particolare i due certificati di residenza prodotti avanti al Tribunale dai quali emergeva la residenza della P. nel Comune di Sant’Arpino insieme allo zio disabile;
con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1, e 23 del d.lgs. n. 196 del 2003, anche in relazione all’art. 42, comma 5-bis del d.lgs. n. 151 del 2001 (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ.) dovendo ritenersi illegittimamente acquisito l’elaborato investigativo usato dal datore di lavoro per inoltrare la contestazione disciplinare, in quanto eccessivamente invasiva l’attività investigativa compiuta;
il primo motivo è inammissibile, in quanto censura solamente una delle rationes decidendi poste dalla Corte di merito a fondamento del rigetto del reclamo proposto dalla lavoratrice, in particolare, non investendo l’affermazione contenuta nella impugnata sentenza della dimostrata effettiva allegazione della lettera di contestazione disciplinare alla lettera di licenziamento (pag. 4 della sentenza);
la statuizione di questa Corte richiamata dal ricorrente (Cass. n. 17589 del 2016) non si attaglia al caso di specie (ossia ad un licenziamento disciplinare), avendo fornito una interpretazione dell’art. 2, comma 2, della legge n. 604 del 1966 come modificato dalla legge n. 92 del 2012 con riguardo ad una ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, fattispecie che non soggiace, pertanto, all’iter previsto dall’art. 7 della legge n. 300 del 1970, ed in particolare, alla preventiva contestazione disciplinare (requisito pacificamente rispettato dalle P.I.), che, ove effettuata, – al pari dei casi in cui il lavoratore chiedeva la specifica comunicazione dei motivi nella vigenza dell’art. 2 precedente la novella del 2012 (cfr. Cass. n. 454 del 2003, Cass. n. 15986 del 2016) – deve ritenersi esentare il datore di lavoro da un’ulteriore comunicazione contestuale alla lettera di licenziamento;
il secondo motivo è infondato, avendo questa Corte ripetutamente riconosciuto la facoltà del datore di lavoro – durante i periodi di sospensione del rapporto (ad es. nel corso di una malattia, cfr. Cass. n. 25162 del 2014, Cass. n. 12810 del 2017; in ordine alla fruizione dei permessi ex legge n. 104 del 1992, Cass. n. 9217 del 2016) – di prendere conoscenza di comportamenti del lavoratore, che, pur estranei allo svolgimento dell’attività lavorativa, siano rilevanti sotto il profilo del corretto adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro (che permane nonostante la sospensione);
è stato, altresì, affermato che il controllo, demandato dal datore di lavoro ad un’agenzia investigativa, non può ritenersi illegittimo ove non riguardi l’adempimento della prestazione lavorativa, essendo effettuato al di fuori dell’orario di lavoro, ma un comportamento disciplinarmente rilevante del lavoratore, sicché esso non può ritenersi precluso ai sensi degli artt. 2 e 3 della legge n. 300 del 1970 (cfr. Cass. n. 4984 del 2014);
le condizioni per fruire del congedo previsto dall’art. 42, comma 5, del d.lgs. n. 151 del 2001 non possono certamente ritenersi sottratte al controllo, vietato dalle norme ora citate, dell’attività lavorativa, neppure a volerle qualificare (anche) come inadempimento degli obblighi contrattuali, consistendo indubbiamente in un’attività illegittima, svolta al di fuori dell’orario di lavoro e fonte di danni per il datore di lavoro (oltre che per la collettività ed il bilancio pubblico);
il controllo di agenzie investigative, come si è detto del tutto lecito, non può che avvenire attraverso forme di controllo sui comportamenti e spostamenti del lavoratore, rientrando nel potere del datore di lavoro di verificare la correttezza, sotto il profilo dell’effettività, della richiesta di un congedo per l’assistenza a parente convivente in situazione di grave handicap, effettività smentita in pieno dalla verifica effettuata;
il terzo ed il quarto motivo sono inammissibili in quanto diretti a censurare apprezzamenti del materiale istruttorio da parte del giudice di merito, peraltro nel regime di cui al novellato n. 5 dell’art. 360 cod.proc.civ.
le censure, invero, non consistono nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge (vizio di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa) né configurano un omesso esame di un fatto storico decisivo, avendo la Corte territoriale ampiamente esaminato i fatti controversi ed accertato che le indagini, da parte dell’agenzia investigativa, sono state effettuate in modo dettagliato, in un arco di tempo sufficiente per verificare la sussistenza dei presupposti per l’ottenimento del beneficio richiesto;
in conclusione il ricorso va rigettato e le spese di lite sono regolate secondo il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.;
sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013);
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
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