CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 13 febbraio 2019, n. 4209
Tributi – IRES e IRAP – Cessione di capannone industriale – Prezzo di vendita inferiore al valore catastale determinato ai sensi dell’art. 15 del D.L. n. 41/1995 – Determinazione plusvalenza tassabile – Differenza tra valore catastale e valore residuo da ammortizzare
Ritenuto in fatto
1. L’Agenzia delle Entrate emetteva a carico della E. s.r.l., per l’anno 2004, avviso di accertamento di maggiori Ires, Irap e IVA, rispettivamente, per € 112.590,00, € 123,00 ed € 186.100,00, con sanzioni ed interessi per complessivi € 89.197,00, esponendo, per quanto ancora qui rileva, che: in data 7-12-2004 la contribuente aveva ceduto alla Ipe s.r.l. un capannone industriale per il corrispettivo dichiarato di € 230.000,00, con una plusvalenza registrata in contabilità per € 103.496,00; il prezzo di vendita era incongruo in quanto inferiore al valore catastale del bene, determinato ai sensi dell’art. 15 del d.l. 41/1995, convertito in legge 23 marzo 1995, n. 85; rettificato in tal guisa il corrispettivo della cessione, veniva determinata una maggiore plusvalenza di € 338.307,00, pari alla differenza tra il valore catastale del cespite (€ 464.811,00) ed il valore residuo da ammortizzare (€ 126.504,00).
2. La Commissione tributaria provinciale di Rieti accoglieva in parte il ricorso della contribuente, procedendo alla quantificazione in maniera equitativa del maggior reddito imponibile.
3. La sentenza veniva separatamente impugnata dalla società – per la quale la Commissione provinciale aveva rideterminato il valore dell’immobile, applicando un valore intermedio tra quelli riportati nelle perizie di stima depositate da entrambe le parti, senza esporre le ragioni della propria decisione – e dall’Agenzia delle entrate, che instava per la conferma dell’avviso di accertamento impugnato.
4. Con due diverse sentenze la CTR rigettava l’appello della società (sentenza 142/38/2011) e accoglieva quello proposto dall’Agenzia (sentenza 143/38/2011).
5. La E. s.r.l., che ha anche presentato memoria, ha proposto distinti ricorsi contro entrambe le decisioni (proc. N. 12432/2012 R.G. e proc. N. 12434/2012 R.G).
6. L’Agenzia delle Entrate resiste con autonomi controricorsi.
Considerato in diritto
1. Preliminarmente, in applicazione dell’art. 274 c.p.c., si dispone la riunione al ricorso n. 12432/2012 del ricorso iscritto al n. 12434/2012, in quanto proposti contro due sentenze emesse in esito a giudizi formalmente distinti, ma all’evidenza connessi, stante l’unitarietà sostanziale e processuale della controversia, riguardando appelli autonomamente interposti dalle parti avverso la medesima pronuncia della Commissione tributaria provinciale (vedi Cass., sez. un., nn. 18050/2010 e 1521/2013, nonché Cass. nn. 27550 e 31273/2018).
2. Sempre in via preliminare va rilevato che non può tenersi conto delle memorie presentate dalla ricorrente in quanto tardivamente depositate l’11 gennaio 2019, ovverosia oltre dieci giorni prima dell’adunanza in camera di consiglio, in violazione di quanto disposto al riguardo dall’art. 380-bis.1 c.p.c.
3. Con il primo motivo del ricorso n. 12432/2012, la società deduce “nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. (in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.)”, in quanto la Commissione regionale, con la sentenza 142/38/2011, ha accolto un appello mai proposto dalla Agenzia delle Entrate.
3.1. Pur in disparte l’acquisito profilo di inammissibilità per sopravvenuta carenza di interesse in seguito alla disposta riunione in questa sede dei due procedimenti, il motivo è comunque privo di fondamento.
Vero è che, facendo confusione tra i due procedimenti chiamati alla stessa udienza del 23 febbraio 2011 ma non riuniti, la CTR, nella parte motiva della cennata sentenza, ha erroneamente “accolto” l’appello dell’Agenzia in realtà proposto con separato atto dall’Agenzia e deciso dai giudici regionali con la sentenza 143/38/2011. Tuttavia, è pacifico che nel dispositivo della sentenza impugnata con il ricorso de quo è scritto soltanto: “rigetta l’appello del contribuente”.
Non si può neanche parlare di contrasto tra motivazione e dispositivo, che, peraltro, per giurisprudenza consolidata, importa nullità della sentenza solo se incida sulla idoneità del provvedimento, considerato complessivamente nella totalità delle sue componenti testuali, a consentire l’individuazione del concreto comando giudiziale e, conseguentemente, del diritto o bene riconosciuto. Nella specie, l’erroneo riferimento in parte motiva all’accoglimento dell’appello autonomamente interposto dall’Agenzia è chiaramente riconducibile a semplice errore materiale che non inficia per nulla la conoscibilità del contenuto concreto della resa statuizione giudiziale.
4. Con il secondo motivo del ricorso n. 12432/2012 e il primo motivo del ricorso n. 12434/2012 la ricorrente denuncia la “Violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto (artt. 54, comma 2, d.p.r. 633/1972 – 2727 e ss. c.c. e 2697 c.c.), in relazione all’art. 360 n 3 c.p.c.”, per avere la CTR ritenuto legittimo l’accertamento dell’Agenzia delle entrate esclusivamente basato sulla presunzione legale di corrispondenza tra il prezzo incassato e quello accertato in via definitiva in sede di applicazione dell’imposta di registro, laddove tale presunzione era ormai venuta meno con la legge comunitaria n. 88/2009, sicché l’Ufficio avrebbe dovuto semmai utilizzare presunzioni semplici munite dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.
5. Con il terzo motivo del ricorso n. 12432/2012 e il secondo motivo del ricorso n. 12434/2012 si denuncia la “violazione dell’art. 2729 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c”, in quanto la Commissione regionale ha ravvisato un elemento presuntivo della incongruità del prezzo nella parziale identità soggettiva dei rispettivi soci delle due società contraenti (E. s.r.l. e Ipe s.r.l.) e nella parentela tra essi esistente. Deduce in contrario la ricorrente, per un verso, che la ipotizzata riconducibilità di entrambe le società a P. E. – titolare del 50 % delle partecipazioni sociali (nonché amministratore unico) della E. s.r.l. e del 10% delle quote di Ipe s.r.l. – non era né certa né probabile, detenendo la di lui madre, Luciani Carmina, il 70 % delle quote societarie della Ipe s.r.l., a sua volta partecipante al 50% del capitale sociale della E. s.r.l.; e, per altro verso, che tali elementi ben giustificavano la vendita dell’immobile a un prezzo inferiore rispetto al suo valore reale.
6. I su riportati motivi vanno esaminati congiuntamente e ritenuti infondati non cogliendo, peraltro, il nucleo essenziale della statuizione.
6.1. Premesso che la controversia riguarda la determinazione della plusvalenza e non propriamente l’individuazione del valore reale del bene venduto, non risultano, anzitutto, del tutto pertinenti ratione temporis i ridondanti richiami al lungo iter normativo che ha modificato nel tempo gli artt. 39 d.p.r. 600/1973 e 54 d.p.r. 633/1972, e in particolare al d.l. 04/07/2006, n. 223 (art.35), convertito nella legge n.248/2006, priva di efficacia retroattiva, posto che l’anno di imposta oggetto di accertamento è il 2004.
Piuttosto, è senz’altro vero che, come di recente affermato da questa Corte, “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’art. 5, comma 3, del d.lgs. n. 147 del 2015 – che, quale norma di interpretazione autentica, ha efficacia retroattiva – esclude che l’Amministrazione finanziaria possa ancora procedere ad accertare, in via induttiva, la plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione di immobile o di azienda solo sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro” (Cass. nn. 27614/2018, 12265/2017, 11543/2016).
Tuttavia, neanche tale principio tratto dallo ius superveniens vale a surrogare, con ragioni rilevabili ex officio, la accertata inconducenza di quelle addotte dalla ricorrente, dal momento che la Commissione regionale non ha affatto ritenuto legittimo il recupero effettuato dall’Agenzia con l’avviso di accertamento in quanto basato esclusivamente sulla differenza tra il prezzo dichiarato e il valore determinato in sede di applicazione dell’imposta di registro, poggiando la ratio decidendi della pronuncia sulla sussistenza di presunzioni gravi, univoche e concordanti intese a evidenziare la grave incongruità del prezzo dichiarato in contratto dai contraenti.
6.2. Al riguardo, occorre ricordare come questa Corte abbia da tempo precisato che l’art. 54 del d.p.r. 22 dicembre 1986 n. 917, dopo aver definito come plusvalenza tassabile quella realizzata con la cessione a titolo oneroso di un bene relativo all’impresa (primo comma lett. a), stabilisce che la plusvalenza medesima è costituita dalla differenza fra il “corrispettivo” conseguito, al netto degli oneri accessori di diretta imputazione, ed il costo non ammortizzato. Sulla scorta dell’inequivoco significato della parola corrispettivo, la norma non lascia dubbi circa l’influenza soltanto del maggiore ammontare del ricavato della vendita rispetto al costo d’acquisto, cioè dell’entità della monetizzazione dell’incremento patrimoniale, e, di riflesso, non autorizza revisioni dell’imponibile in base al semplice riscontro dell’inferiorità di detto ricavato rispetto al valore di mercato, lasciando aperta soltanto la facoltà dell’ufficio di dedurre e dimostrare l’eventuale divergenza del prezzo effettivamente riscosso rispetto a quello enunciato nel contratto di vendita, se del caso avvalendosi degli elementi presuntivi offerti dal valore venale (Cass. nn. 14448/2000, 7689/2003, 16700/2005).
In altri termini, in tema di Imposte sul redditi d’impresa, per la determinazione della plusvalenza realizzata con la vendita di un Immobile, al sensi dell’art. 54 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, è valsa sempre la regola per cui occorre avere riguardo alla differenza fra il prezzo di cessione e quello di acquisto, e non, come per l’imposta di registro, al valore di mercato del bene, essendo i principi relativi alla determinazione del valore di un bene, che viene trasferito, diversi a seconda dell’imposta da applicare. Ne consegue che, in presenza di contabilità formalmente regolare, per procedere all’accertamento previsto dall’art. 39, primo comma, lettera d), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, le valutazioni effettuate dall’UTE se non sono di per sé sufficienti a giustificare una rettifica in contrasto con le risultanze contabili, possono tuttavia essere vagliate nel contesto della situazione contabile ed economica dell’impresa, e, ove concorrano con altre indicazioni documentali o presuntive gravi, precise e concordanti (quale – di per sé – l’assoluta sproporzione tra corrispettivo dichiarato e il valore di mercato dell’immobile), costituire elementi validi per la determinazione dei redditi da accertare (Cass. nn. 24054/2014, 245/2014). Quindi, qualora sia contestata una plusvalenza patrimoniale realizzata da un’impresa a seguito di cessione a titolo oneroso di un’unità immobiliare, l’onere di fornire la prova che l’operazione è (quanto al prezzo di vendita) parzialmente simulata, spetta all’Amministrazione finanziaria, la quale adduca l’esistenza di maggiori ricavi, e può essere adempiuto, ai sensi dell’art. 39, primo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, anche sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti.
6.3. Orbene, nella fattispecie in esame, la Commissione ha fatto corretta applicazione della normativa vigente e si è in concreta attenuta ai principi riportati nel punto precedente.
Invero, oltre al dato indiziario – avente i requisiti previsti dall’art. 2729 c.c. – costituito dall’assoluta incongruenza del prezzo dichiarato rispetto al valore catastale del bene oggetto di vendita nonché al valore attribuito dall’UTE nella perizia prodotta in giudizio dall’Ufficio, la CTR ha evidenziato un ulteriore elemento presuntivo idoneo (per gravità, precisione e concordanza) a far fondatamente ritenere che il corrispettivo ricavato fosse superiore rispetto al prezzo dichiarato nell’atto di compravendita.
In particolare, la sussistenza di elemento presuntivo di una difformità tra il prezzo di vendita dell’immobile e il corrispettivo effettivamente percepito dalla società cedente, viene nella sentenza desunto dalla parziale identità soggettiva delle compagini sociali di E. s.r.l. e Ipe s.r.l. e dai rapporti di stretta parentela sussistenti tra i rispettivi soci delle due società contraenti, le cui quote, pur formalmente in testa a soggetti diversi, erano sostanzialmente riconducibili a un unico centro di interessi. Non scalfiscono tale conclusione le contrapposte deduzioni contenute nel motivo, cui peraltro è facile obiettare che la detentrice della più rilevante partecipazione nella Ipe era pur sempre la madre di P.E. a sua volta titolare del 50 % delle partecipazioni sociali della E. s.r.l. e del 10% delle quote di Ipe s.r.l., amministratore unico della società cedente, nonché figlio del socio di maggioranza, fratello degli altri soci e marito della rappresentante legale della società cessionaria. E’, quindi, logicamente conseguente l’affermazione per cui entrambe le società facevano capo a un unico centro di interessi individuato nella famiglia Perozzi. Ne deriva come appaia legittima l’inferenza dell’infedeltà del corrispettivo dichiarato nell’atto di vendita dell’immobile, in quanto desunta, oltre che dal riferimento allo scostamento del prezzo di cessione del bene rispetto al relativo valore catastale e dalla perizia dell’UTE, anche dal predetto ulteriore indizio idoneo ad integrare la prova della pretesa, trattandosi di elementi presuntivi dotati, nella loro sintesi, dei caratteri della gravità, precisione e concordanza. Devesi, poi, rilevare che la ricorrente non ha impugnato la sentenza per vizio di motivazione, ma esclusivamente per violazione di violazione o falsa applicazione delle norme in tema di presunzioni ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., come detto rispettate dalla CTR, sicché non può censurare in questa sede di legittimità l’apprezzamento del giudice di merito circa la ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare gli elementi di fatto come fonti di presunzione, né il ragionamento presuntivo ed inferenziale del giudice che peraltro, secondo la giurisprudenza di legittimità, è incensurabile in sede di legittimità, sempre che la motivazione adottata al riguardo sia congrua dal punto di vista logico, immune da errori di diritto e rispettosa dei principi che regolano la prova per presunzioni (v., tra le altre, Cass. nn. 10135/2005 e 16831/2003).
7. Entrambi i ricorsi come sopra riuniti vanno pertanto rigettati.
8. Le spese del giudizio di legittimità vanno interamente compensate tra le parti in ragione della complessità della controversia, interessata da modifiche legislative e puntualizzazioni giurisprudenziali intervenute dopo la presentazione del ricorso.
P.Q.M.
Riunisce il ricorso 12436/2012 al ricorso 12432/2012 e li rigetta. Compensa interamente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.
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