CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 13 giugno 2018, n. 15485
Tributi – Imposta di registro – Cessione d’azienda da madre a figlio – Farmacia – Determinazione del valore imponibile dell’avviamento – Deduzione della quota imputata al figlio collaboratore nell’impresa familiare – Esclusione
Fatto
1. G.Z. e L.S. impugnavano l’avviso con cui l’Ufficio aveva rettificato il valore della cessione della farmacia compravenduta liquidando l’imposta di registro, contestando il criterio adottato dall’Agenzia ed assumendo di aver considerato nella determinazione del prezzo di cessione, il credito maturato dal figlio – acquirente nei confronti della madre – alienante, per un’attività prestata nell’impresa familiare.
La CTP di Ferrara accoglieva il ricorso con sentenza che veniva impugnata dinanzi alla C.T.R., dall’Agenzia delle Entrate.
La C.T.R. di Bologna respingeva l’appello, sul presupposto che il valore di avviamento dichiarato risultava quasi doppio rispetto al criterio di cui al D.P.R. 460/96, che, sebbene abrogato, è normalmente utilizzato dall’Ufficio, il quale aveva invece adottato il criterio del moltiplicatore della media dei ricavi – accertando un valore tre volte superiore a quello dichiarato – che doveva essere supportato da valide motivazioni.
Avverso detta sentenza l’Ufficio propone ricorso per cassazione svolgendo due motivi di ricorso.
Resistono con controricorso i contribuenti, illustrato anche con memorie ex art. 380 bis c.p.c., insistendo sulla inammissibilità del ricorso.
Considerato che
2. Con il primo motivo del ricorso, si lamenta insufficiente motivazione in relazione ad un fatto decisivo e controverso ex art. 360 n. 5 c.p.c., censurando l’impugnata pronuncia per aver fondato la ratio decidendi sulla circostanza che il criterio adottato aveva determinato un notevole scostamento da quanto dichiarato, al contrario del criterio normativo abrogato normalmente utilizzato, che avrebbe determinato comunque un valore inferiore a quello dichiarato; e sul rilievo che l’accertamento non era fondato su elementi probatori ed ulteriori riscontri, ritenendo inidonei il raffronto analogico con altre cessioni di aziende similari, perché riferiti a zone e periodi diversi da quella di riferimento.
3. Con il secondo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 51, 52 DPR 131/1986, degli artt. 230 bis, 1372, 2704, 2423 ter e 2424 c.c. ex art. 360 n. 3 c.p.c., criticando la motivazione nella parte in cui ha ritenuto la non imponibilità del valore della quota di euro 350.000 imputata al figlio collaboratore dell’impresa familiare, atteso che i crediti tra acquirenti ed alienanti (figlio-madre) sono irrilevanti nei confronti del Fisco, ai fini della determinazione del valore dell’avviamento, anche perché non risultanti dalle scritture contabili obbligatorie e da atti aventi data certa.
4. Si può soprassedere sull’eccezione di inammissibilità del ricorso dedotta dai contribuenti, poiché il ricorso è stato presentato per la notifica l’ultimo giorno utile, il 14.11.2011.
5. La prima censura è infondata.
La doglianza relativa alla insufficiente motivazione relativa ad un fatto controverso si riassume nella discrasia tra l’affermata inattendibilità dei dati allegati dall’ufficio all’atto di appello e relativi ad accertamenti del valore di avviamento di farmacie cedute in epoche contigue e la validità del metodo adottato dall’amministrazione.
La commissione tributaria regionale ha rilevato – con valutazione fattuale non sindacabile nella presente sede di legittimità – che l’amministrazione finanziaria, sulla quale gravava il relativo onere, nella sua veste di attrice in senso sostanziale, non aveva fornito la prova del maggior valore accertato, rispetto a quello dichiarato dalle parti contraenti. In particolare, si desume dal ragionamento del giudice di appello che tale prova era stata, nell’avviso, ‘offerta’ dall’amministrazione finanziaria attraverso la comparazione di valore con cessioni asseritamente similari.
Tuttavia, tale prova, ad avviso del decidente, non poteva sortire alcun effetto dimostrativo a sostegno della rettifica di valore, in quanto le cessioni prese a comparazione e riferimento non potevano oggettivamente ritenersi in condizione analoga raffrontabile con quella dell’azienda dedotto in giudizio. Ciò, segnatamente, a causa del fatto che quest’ultimo – a differenza degli altri atti assunti a comparazione dall’agenzia delle entrate – era ubicato in zona geografica diversa ed era stato concluso in epoca diversa. Inoltre, lo scostamento, secondo i giudici territoriali, tra quanto accertato dall’ufficio e il valore di avviamento attributo dai contribuenti avrebbe dovuto essere sostenuto da valide motivazioni già con l’avviso impugnato, non potendo assumere alcuna rilevanza le prove documentali relative a cessioni di farmacie definite “similari”.
6. Orbene, in tale situazione appare corretta la decisione del giudice territoriale di annullare l’avviso di accertamento opposto; e ciò per la fondamentale ragione che l’amministrazione finanziaria non era legittimata a mutare, in fase contenziosa, i presupposti della maggiore imposizione, così come indicati nell’atto impugnato. E’ vero che il giudizio tributario non ha natura esclusivamente impugnatoria e di legalità formale, bensì di impugnazione-merito’; con la conseguenza che spetta al giudice tributario il potere (dovere) di stabilire i limiti quantitativi di fondatezza della pretesa impositiva emergenti in giudizio, così da adottare – se del caso – una pronuncia sostitutiva sulla sussistenza ed entità dei presupposti del rapporto tributario. Va però considerato che quest’attività di valutazione nel merito trova fondamento e limite – da un lato – nell’atto impositivo impugnato (non può il giudice tributario prendere in esame elementi diversi da quelli dedotti dall’amministrazione finanziaria, a sostegno della propria pretesa, in tale atto); e – dall’altro – nella regola generale dell’onere della prova e nei caratteri di indipendenza e terzietà che deve connotare la giurisdizione tributaria (non può il giudice tributario ricercare d’ufficio prove in luogo della parte che ne sarebbe onerata, e nemmeno può sostituirsi all’amministrazione nella individuazione degli elementi costitutivi del rapporto d’imposta; v. Cass. 2018 n. 1728).
La motivazione dell’avviso di accertamento o di rettifica, presidiata dall’art. 7 della legge 27 luglio 2002, n. 212, ha la funzione di delimitare l’ambito delle contestazioni proponibili dall’Ufficio nel successivo giudizio di merito e di mettere il contribuente in grado di conoscere I’ “an” ed il “quantum” della pretesa tributaria al fine di approntare una idonea difesa, sicché il corrispondente obbligo deve ritenersi assolto con l’enunciazione dei presupposti adottati e delle relative risultanze, mentre le questioni attinenti all’idoneità del criterio applicato in concreto attengono al diverso piano della prova della pretesa tributaria( Cass. 2014 n. 9810).
7. Peraltro, insistendo, nel quadro dell’illustrazione del motivo, nel riportare ciascuna considerazione, esposta nel giudizio di merito, volta a riaffermare l’attendibilità della citata indagine, l’Ufficio mira ad ottenere dal giudice di legittimità, ciò che è ad esso precluso, vale a dire un diverso apprezzamento delle medesime circostanze di fatto sulle quali la sentenza impugnata si è pronunciata. Laddove, infatti, il giudizio sulla congruità del valore dell’avviamento sia sufficientemente motivato, la scelta da parte del giudice di merito del criterio prescelto per la relativa determinazione sfugge al controllo di legittimità nel quadro del disposto dell’art. 360 n. 5 c.p.c. nella sua formulazione applicabile ratione temporis (cfr. Cass. civ. sez. V 6 maggio 2015, n. 9075).
Del resto, i criteri di cui all’art. 2, D.P.R. 460 del 1996, determinano valori minimali d’avviamento, in funzione dell’accertamento con adesione, sicché la loro applicazione integra un indizio a favore dell’Amministrazione (Cass. n. 9089/2017, 27 luglio 2007, che richiama Cass. n. 16705/2007), tanto che questa può impiegare un criterio diverso solo dando conto della maggiore affidabilità specifica (Cass. n. 4931/2012; Cass. n. 10341/2007)
8. Il secondo motivo è invece fondato.
Questa Corte, con riferimento ad analoga questione (imposizione concernente atto di cessione d’azienda a fronte della costituzione, in favore del cedente, di una rendita vitalizia di valore anche inferiore a quello dei bene ceduti) ha già avuto modo di affermare il principio secondo cui in tal caso il valore dichiarato nell’atto è legittimamente controllato dall’Ufficio con riferimento al valore complessivo dei beni che compongono l’azienda, al netto delle passività risultanti dalle scritture contabili obbligatorie, ai sensi dell’art. 51 4° comma del D.P.R. n. 131/1986, che non pone deroghe al criterio, dettato in generale al secondo comma del medesimo articolo, dell’accertamento del valore secondo il parametro del “valore venale in comune commercio” di cui al 2° comma del citato art. 51 del D.P.R. n. 131/1986. Ciò nel senso che non sussiste alcun vincolo riguardo alle scritture contabili, se non con riferimento alle eventuali passività di cui l’Ufficio finanziario deve tener conto (cfr. Cass. civ. sez. V 7 maggio 2007, n. 10341 e, in senso conforme, Cass. civ. sez. V 30 luglio 2008, n. 20691).
Detto orientamento va in questa sede ribadito, essendo evidente il vizio di fondo del ragionamento addotto dai contribuenti, che finisce col confondere la causa del negozio (cessione d’azienda farmacia) con la modalità estintiva dell’obbligazione del cessionario, diversa dal mero pagamento del prezzo quale corrispettivo della cessione.
La decisione impugnata si pone in contrasto il principio di diritto enunciato ragion per cui la sentenza impugnata deve essere cassata con riferimento alla seconda censura e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, con il rigetto della domanda dei contribuenti di escludere dall’imponibile la quota di euro 350.000 imputata al figlio collaboratore nell’impresa familiare.
In conclusione, il ricorso deve essere accolto con riferimento al secondo motivo.
La non univocità dei precedenti giurisprudenziali sul punto, prima dell’introduzione del presente ricorso giustifica la compensazione delle spese dell’intero giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso con riferimento al secondo motivo; rigetta il primo motivo; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda dei contribuenti di escludere dall’imponibile la quota di euro 350.000 imputata al figlio collaboratore nell’impresa familiare.
Compensa le spese dell’intero giudizio.
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