CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 13 luglio 2018, n. 18651
Imposte indirette – IVA – Accertamento – Riscossione – Cartella di pagamento – Regime d’importazione – Veicoli usati
Rilevato che
la sentenza impugnata ha esposto, in punto di fatto, che: l’Agenzia delle entrate di Lucca aveva emesso diversi avvisi di accertamento e successive cartelle di pagamento nei confronti della società A. s.p.a. con i quali aveva proceduto, per gli anni di imposta 2001, 2002 e 2003, al recupero IVA per indebita utilizzazione del regime del margine nell’importazione di veicoli usati di provenienza comunitaria e per avere utilizzato fatture per operazioni soggettivamente inesistenti; la Commissione tributaria provinciale di Lucca aveva respinto il ricorso proposto dalla società contribuente; avverso la pronuncia della Commissione tributaria provinciale aveva proposto appello la società contribuente deducendo, per quanto riguardava la contestazione della illegittima applicazione del regime del margine, che la responsabilità dei controlli da eseguire ricadeva sull’importatore che, peraltro, aveva offerto ogni garanzia sulla legittimità dell’operazione e, per quanto riguardava la contestazione relativa alla fatturazione per operazioni soggettivamente inesistenti, la mancanza di motivazione circa la sussistenza di una frode fiscale e comunque la propria estraneità dalla stessa; l’Agenzia delle entrate, costituendosi in appello, aveva eccepito che la società contribuente non aveva provveduto a verificare che i libretti di circolazione delle autovetture recavano quale primo intestatario una società che, quale soggetto di imposta, usualmente detraeva l’IVA di acquisto e, inoltre, quanto alle operazioni soggettivamente inesistenti, di avere accertato che l’acquisto delle autovetture era stato compiuto mediante l’interposizione di imprese “cartiere” che non versavano l’IVA a prezzi inferiori rispetto a quelli praticati dai cedenti stranieri; la Commissione tributaria regionale della Toscana ha parzialmente accolto l’appello della società contribuente, rigettando il motivo di appello relativo all’applicazione del regime del margine e accogliendo il motivo di appello relativo alla ripresa per la realizzazione di operazioni soggettivamente inesistenti; l’A. s.p.a. ricorre con due motivi per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Toscana in epigrafe;
si è costituita l’Agenzia delle entrate depositando controricorso, contestando i motivi di ricorso principale, proponendo ricorso incidentale con cui ha censurato la pronuncia impugnata con unico motivo di ricorso;
l’A. s.p.a. ha depositato controricorso al ricorso incidentale; in primo luogo, vanno esaminati i motivi di ricorso principale proposti dalla società A. s.p.a.; considerato che:
con il primo motivo di ricorso principale la società A. s.p.a. censura la sentenza impugnata per violazione o falsa applicazione dell’art. 6, comma 8, del decreto legislativo n. 471/97, dell’art. 38 del decreto-legge 30 agosto 1993, n. 331, dell’art. 36 del decreto-legge 23 febbraio 1995, n. 41, degli artt. 2697, 2727 e 2729 cod. civ., in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., in quanto, nella fattispecie, sussistevano tutte le condizioni per l’applicazione della disciplina del regime speciale del margine in occasione dell’acquisto delle autovetture da essa effettuato dall’importatore italiano che, a propria volta, aveva acquistato dal cedente comunitario, non potendo la stessa sindacare e controllare le valutazioni giuridiche espresse dalla ditte importatrici nelle fatture di vendita e nelle dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà dall’emittente delle fatture, né verificare se e in che misura i precedenti intestatari delle autovetture, peraltro immatricolate in altro Paese UE, avessero fatto uso delle medesime né se l’IVA fosse stata detratta o meno; ha, inoltre, evidenziato che le autovetture, pur provenienti da una società, anche di autonoleggio, avrebbero potuto essere usate in diversi modi e che nei Paesi di prima immatricolazione delle autovetture non esiste l’obbligo di apporre sul certificato di proprietà i successivi e eventuali passaggi di cessione, sicché il mezzo, pur essendo intestato a una società, potrebbe essere stato ceduto da un privato senza risultare dal libretto di circolazione; il motivo è infondato;
la pronuncia impugnata ha ben chiarito quali siano le previsioni normative di riferimento per l’applicabilità della disciplina speciale del margine, individuandone correttamente i presupposti normativi, ed ha altresì precisato che costituiva elemento presuntivo il fatto che il primo intestatario delle autovetture risultava essere, dai libretti di circolazione, una società che usualmente detraeva L’IVA al momento dell’acquisto (circostanza che la società contribuente avrebbe potuto verificare essendo operatore ben introdotto nel settore), mentre, d’altro lato, nessuna prova contraria era stata offerta dalla medesima società;
tale conclusione risulta in linea con l’orientamento di questa Corte (Sezioni Unite, sentenza 12 settembre 2017, n. 21105) secondo cui: «In tema di IVA, il c.d. regime del margine, previsto dall’art. 36 del d.l. 23 febbraio 1995, n. 41 (convertito dalla legge 22 marzo 1995, n. 85) e dagli articoli da 311 a 325 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006 (e, già, dall’art. 26 bis della sesta direttiva 77/388/CEE del Consiglio del 17 maggio 1977) per le cessioni, da parte di rivenditori, di beni d’occasione, di oggetti d’arte, da collezione o di antiquariato, costituisce un regime d’imposizione speciale, facoltativo e derogatorio, in favore del contribuente, del sistema normale dell’IVA: ne consegue che la sua disciplina va interpretata restrittivamente e applicata in termini rigorosi, nei limiti di quanto necessario al raggiungimento dello scopo dell’istituto. Con particolare riferimento alla compravendita di veicoli usati, il cessionario, al quale l’amministrazione finanziaria contesti, in base ad elementi oggettivi e specifici, tale fruizione, deve provare la propria buona fede, cioè di aver agito in assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale e di aver adoperato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto – secondo i criteri di ragionevolezza e di proporzionalità, in rapporto alle circostanze del caso concreto – al fine di evitare di essere coinvolto in una tale situazione, in presenza di indizi idonei a farne insorgere il sospetto. Rientra in tale condotta anche l’individuazione, nei limiti dei dati risultanti dalla carta di circolazione in suo possesso, eventualmente integrati da elementi di agevole e rapida reperibilità, dei precedenti intestatari del veicolo, al fine di accertare, sia pure solo in via presuntiva, se l’IVA sia stata, o no, già assolta a monte da altri, nell’ambito della catena di fornitura, senza possibilità di detrazione: in caso di esito positivo, il diritto di applicare il regime del margine deve essere riconosciuto, anche qualora l’amministrazione dimostri, attraverso indagini e controlli inesigibili dal contribuente, che in realtà l’imposta, per qualsiasi motivo, non era stata detratta. Nell’ipotesi, invece, in cui dalla verifica del contribuente emerga che i precedenti titolari svolgano tutti attività di rivendita, noleggio o leasing nel settore del mercato dei veicoli, opera la presunzione (contraria, in base al criterio di normalità probabilistica) dell’avvenuto esercizio del diritto alla detrazione dell’IVA assolta a monte per l’acquisto dei veicoli stessi, in quanto beni destinati ad essere impiegati nell’esercizio dell’attività propria dell’impresa, con conseguente negazione del diritto alla fruizione del trattamento fiscale più favorevole»;
pertanto, nella fattispecie, correttamente il giudice di appello ha fatto riferimento alla circostanza che dall’esame dei libretti di circolazione in possesso della contribuente poteva ricavarsi che precedenti intestatari dei veicoli fossero società che avevano, anche presuntivamente, detratto l’IVA, rientrando i beni nell’ambito della propria attività di impresa;
la circostanza, peraltro, dedotta nel presente motivo di ricorso, secondo cui sarebbe pacifico che solo una parte dei libretti di circolazione era intestata a società, mentre altrettanti erano intestati a persone fisiche, per cui almeno le vetture intestate a questi ultimi non dovevano essere escluse dal regime del margine, oltre che non essere riconducibile nell’ambito del motivo di ricorso formulato ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., è, in ogni caso, priva di assoluto riscontro, difettando di ogni riferimento specifico che possa consentire di ritenere soddisfatto il principio dell’autosufficienza;
con il secondo motivo di ricorso principale si censura la sentenza impugnata per violazione o falsa applicazione dell’art. 6, comma 8, dell’art. 112, 132 e 324 cod. proc. civ., 2909 cod. civ., 111, comma secondo, Cost., nonché per omessa motivazione, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3) e 5), cod. proc. civ., per non avere rilevato che, con riferimento al periodo di imposta 2000, la Commissione tributaria regionale, si era pronunciata, con sentenza n. 71/8/2008 passata in giudicato, per l’annullamento dell’avviso di accertamento n. R5T03T300975/2005, scaturito dalla medesima attività di indagine dell’Agenzia delle entrate da cui erano derivati anche i successivi avvisi di accertamento per gli anni 2001, 2002 e 2003, oggetto della presente controversia, avendo ritenuto sussistente la buona fede della società ricorrente;
il motivo è infondato;
va in primo luogo osservato che parte ricorrente si limita a sostenere la valenza di giudicato esterno alla pronuncia della Commissione tributaria regionale n. 71/8/2008, passata in giudicato, che si era pronunciata con riferimento al periodo di imposta 2000, ritenendo che tale accertamento avrebbe valenza estensiva anche per le successive annualità, oggetto di contestato nell’atto impugnato;
pur producendo la sentenza in esame, parte ricorrente non ne riproduce i contenuti essenziali che avrebbero potuto condurre alla valutazione della rilevanza, ai fini del decidere nella presente controversia, di quanto in essa accertato, limitandosi a riferire che la sentenza riguardava le stesse parti, lo stesso rapporto giuridico e lo stesso atto di verifica, senza tuttavia porre questa Corte nelle condizioni di verificare che quanto accertato nella suddetta pronuncia attenesse ai fatti essenziali rilevanti in questa sede, in particolare l’identità delle vetture e dei fornitori; in realtà, proprio perché si tratta di anni diversi e la contestazione ha riguardo a operazioni di acquisto diverse a seconda delle annualità, ciascun periodo di imposta ha una valenza autonoma perché i fatti contestati sono diversi, con conseguente necessità di diversa verifica e valutazione a seconda degli anni di imposta in contestazione;
in ogni caso, è anche vero che la questione della formazione del giudicato costituisce circostanza prospettabile anche dinanzi alla Corte di cassazione, sicché si pone in questo contesto la verifica della rilevanza della statuizione contenuta nella pronuncia citata; questa Corte a sezioni unite, con la pronuncia 16 giugno 2006, n. 13916, ha definito entro quali limiti, nella materia tributaria, possa attribuirsi efficacia di giudicato esterno all’accertamento definitivo contenuto in una decisione resa tra le stesse parti ma relativa ad annualità diverse dello stesso tributo ed ha precisato che il giudicato relativo ad un singolo periodo di imposta sia idoneo a “far stato” per i successivi periodi di imposta in via generalizzata ed aspecifica, in quanto non ad ogni statuizione della sentenza può riconoscersi siffatta idoneità, bensì solo a quelle che siano relative a “qualificazioni giuridiche” (che individuano vere e proprie situazioni di fatto, quale la natura di ente commerciale o non commerciale, l’essere soggetto residente o non residente, la natura di bene di interesse storico-artistico, assunte dal legislatore quali elementi preliminari per l’applicazione di una specifica disciplina tributaria e per la determinazione in concreto dell’obbligazione per una pluralità di periodi di imposta, l’attribuzione di una categoria o di una rendita catastale, la spettanza di una esenzione o agevolazione pluriennale) o ad altri eventuali “elementi preliminari” rispetto ai quali possa dirsi sussistere un interesse protetto avente il carattere della durevolezza nel tempo;
con riferimento alla fattispecie, la pronuncia della Commissione tributaria regionale n. 71/8/2008, stando a quanto, pur genericamente riportato nel ricorso, non ha statuito su di alcuno dei suddetti elementi che hanno “valore condizionante” per la valutazione e la disciplina della questione in esame: la stessa, in particolare, sulla base degli elementi di valutazione posti alla sua attenzione, ha espresso il convincimento che poteva ascriversi a carico della contribuente una condotta improntata alla buona fede; si tratta, quindi, di un elemento valutativo della condotta tenuta dalla contribuente per quello specifico periodo di imposta, senza ) che possa ritenersi che la suddetta valutazione degli elementi di prova possa assumere valore condizionante, quale giudicato esterno, della successiva valutazione compiuta dal giudice di appello che ha emesso la sentenza impugnata; con il primo motivo di ricorso incidentale si censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 19, comma 1, e 54, comma 2, del d.P.R. n. 633/1972, dell’art. 2729 cod. civ., nonché dei principi indicati nella sentenza della Corte di Giustizia 12 gennaio 2006 (in cause C.354/03, 355/03 e 484/03, e 6 luglio 2006 (in cause C.439/04 440/04), nonché degli artt. 2697 e 2729 cod. civ, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3) cod. proc. civ., per avere erroneamente ritenuto che la buona fede del cessionario era desumibile dalla mancata partecipazione all’accordo fraudolento e dalla mancanza di benefici economici conseguenti alla realizzazione dell’operazione in esame, atteso che la buona fede, in realtà, non si sostanzia nella mancata partecipazione al meccanismo fraudolento, ma nella diligenza del cessionario riscontrabile quando sussistono elementi che portino a ritenere che questi non sapeva o non poteva non sapere di partecipare ad una frode fiscale;
il motivo è fondato;
la pronuncia impugnata fonda la propria decisione, con riferimento alla questione dell’onere della prova nella materia delle fatturazioni relative a operazioni soggettivamente inesistenti, che poteva desumersi la buona fede della società contribuente tenuto conto sia dell’estraneità della stessa “al meccanismo di interposizione fittizia” finalizzato ad avere ingiusti vantaggi economici in materia di IVA sia della mancanza di benefici economici derivanti dalla concreta applicazione di tale operazione fittizia;
questa decisione si pone, tuttavia, in contrasto con l’orientamento di questa Corte, sul tema dei criteri per la individuazione della soggettiva inesistenza delle operazioni, (v. in particolare, Cass. 16936/2015, 24426/2013, 23074/2012 e 6229/2013);
ai sensi dell’art. 21 del d.P.R. n. 633 del 1972, la fattura è, di regola (salva l’ipotesi di contabilità inattendibile), documento idoneo a rappresentare operazioni rilevanti ai fini fiscali, e quindi a dedurre, ai fini dell’imposizione diretta, l’esborso fatturato, ed a consentire, ai fini IVA, la detrazione correlativamente indicata sicché, normalmente, una regolare fattura, lasciando presumere la verità di quanto in essa rappresentato, costituisce titolo per il contribuente ai fini della deduzione del costo indicato e della detrazione della correlata IVA;
a fronte della esibizione di una tale fattura spetta all’Ufficio, qualora contesti indebite detrazioni di IVA, dimostrare (anche attraverso presunzioni semplici) il difetto delle condizioni per la deduzione e la detrazione; in particolare, nel caso in cui l’Amministrazione ritenga che la fattura attenda ad operazioni solo soggettivamente inesistenti, e cioè che la fattura sia stata emessa da soggetto diverso da quello che ha effettuato la cessione o la prestazione in essa rappresentata (e della quale il cessionario o il committente sia stato realmente destinatario), ai fini della detraibilità dell’IVA, va innanzitutto precisato che la stessa deve essere, in linea di principio, esclusa, venendo a mancare lo stesso principale presupposto della detrazione, costituito dall’effettuazione di un’operazione ai sensi dell’art. 19, comma 1, del d.P.R. n. 633 del 1972, presupposto da ritenersi carente anche nel caso in cui i termini soggettivi dell’operazione non coincidano con quelli della fatturazione (Cass. 23987/2009; 5719/07); in tal caso, infatti, come ben evidenziato da Cass. 24426/2013, l’imposta viene “versata ad un soggetto non legittimato alla rivalsa né assoggettato all’obbligo di pagamento dell’imposta, in quanto le fatture sono emesse da un soggetto che non è stato controparte nel rapporto relativo alle operazioni fatturate, da ritenersi “inesistenti”. In sostanza, in caso di emissione di fattura per operazioni inesistenti, l’IVA versata (come previsto dall’art. 21, comma 7, del d.P.R. n. 633 del 1972) alla non genuina controparte, va considerata (proprio per le dette finalità del complessivo sistema IVA) come “fuori conto”, e cioè “isolata” dalla massa di operazioni effettuate ed “estraniata” dal meccanismo di compensazione tra IVA “a valle” ed IVA “a monte” che presiede alla detrazione d’imposta di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19 (Cass. 6229/2013);
peraltro, nel caso di operazioni soggettivamente inesistenti, ove queste siano di tipo triangolare, strutturalmente poco complesse e caratterizzate dalla interposizione fittizia di un soggetto terzo tra il cedente comunitario ed il cessionario italiano l’onere probatorio posto a carico della Amministrazione finanziaria è soddisfatto dalla dimostrazione che l’interposto sia privo di dotazione personale e strumentale adeguata alla prestazione fatturata, mentre spetta al contribuente- cessionario fornire la prova contraria della buona fede con cui ha svolto le trattative ed acquistato la merce, ritenendo incolpevolmente che essa fosse realmente fornita dalla persona interposta (da ultimo, Cass. 10120/2017);
si deve aver riguardo, infatti, all’esigenza della tutela della buona fede del contribuente, atteso che, in linea con principi ripetutamente enunciati dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea, è possibile negare ad un soggetto passivo il beneficio del generale e fondamentale diritto alla detrazione solo qualora si dimostri, alla luce di elementi oggettivi, che detto soggetto sapeva o avrebbe dovuto sapere che con il proprio acquisto partecipava ad un’operazione che si iscriveva in un’evasione dell’IVA commessa dal fornitore o da un altro operatore intervenuto a monte o a valle nella catena di tali cessioni o prestazioni;
ne deriva che, per la natura di eccezione del diniego del diritto a detrazione, spetta in primo luogo all’Amministrazione provare, in base ad elementi oggettivi, che il contribuente, al momento dell’acquisto del bene o del servizio, sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’uso dell’ordinaria diligenza, che il soggetto formalmente cedente aveva, con l’emissione della relativa fattura, evaso l’imposta o partecipato ad una frode, e cioè che il contribuente disponeva di indizi idonei ad avvalorare un tale sospetto ed a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente; una volta che l’Amministrazione abbia assolto a tale onere probatorio, passa poi al contribuente l’onere di fornire la prova contraria (Cass. 24426/2013; 23560/2012); inoltre, va precisato che, nell’ipotesi (più semplice e comune) di operazione di tipo triangolare, caratterizzata dalla interposizione di un soggetto italiano – fittizio – nell’acquisto di beni tra un soggetto comunitario (reale cedente) ed un altro soggetto italiano (reale acquirente), l’onere dell’Amministrazione di provare la soggettiva inesistenza dell’operazione ben può esaurirsi nella dimostrazione che il soggetto interposto sia privo di dotazione (personale e strumentale) adeguata all’esecuzione della prestazione fatturata (sia, cioè, una “cartiera”). Tale elemento è sintomatico della mancanza di buona fede del cessionario, in quanto l’immediatezza dei rapporti tra i soggetti coinvolti nella frode induce ragionevolmente ad escludere l’ignoranza incolpevole del contribuente in merito all’avvenuto versamento dell’IVA a soggetto non legittimato alla rivalsa né assoggettato all’obbligo del pagamento dell’imposta. Sarà, poi, onere del contribuente provare di non essere stato a conoscenza del fatto che il fornitore effettivo del bene o della prestazione era non il fatturante ma altro soggetto (Cass. 10220/2017; 24426/2013; 6229/2013); nel caso si specie, non è stato posto in discussione dalla Commissione tributaria regionale l’assolvimento dell’onere probatorio da parte dell’Amministrazione, dunque l’esistenza di elementi indiziari sufficienti per ritenere che sussisteva una interposizione fittizia in relazione alla vendita delle autovetture, ma la stessa ha ritenuto che, da parte sua, la società contribuente aveva adeguatamente assolto all’onere probatorio, tuttavia argomentato sulla base di elementi (l’estraneità al meccanismo di interposizione e la mancanza di benefici economici) che non possono costituire, di per sé soli, per ritenere raggiunta la prova che la società contribuente non era nelle condizioni di conoscere la esistenza dell’operazione fraudolenta;
in tal modo la Commissione tributaria regionale non si è adeguata ai su esposti principi, in particolare non ha considerato che in ipotesi di fatture per operazioni solo soggettivamente inesistenti, la riscontrata esistenza, almeno a livello indiziario, di un meccanismo di interposizione fittizia, soddisfa l’onere probatorio posto a carico della Amministrazione finanziaria, sulla consapevolezza da parte del cessionario che il corrispettivo della cessione sia versato al soggetto terzo non legittimato alla rivalsa né assoggettato all’obbligo del pagamento dell’imposta e fa passare in capo alla contribuente l’onere di fornire la prova contraria della buona fede, di aver incolpevolmente ritenuto che le autovetture fossero realmente state fornite dalla persona interposta con cui ha svolto le trattative ed acquistato la merce;
con il secondo motivo di ricorso incidentale si censura la sentenza impugnata per insufficiente motivazione in ordine a un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ., per avere ritenuto esistente la buona fede della contribuente, senza tenere in considerazione i fatti decisivi prospettati dall’Ufficio da cui, invece, poteva desumersi il comportamento non diligente nella scelta del contraente; le conclusioni cui si è pervenuti in relazione al primo motivo di ricorso incidentale ha valore assorbente del motivo di ricorso in conclusivamente, il ricorso principale deve essere rigettato, mentre trova accoglimento il ricorso incidentale, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla Commissione tributaria regionale, in altra composizione, anche per la liquidazione delle spese di lite del presente grado di giudizio;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale e, in accoglimento del ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di lite del presente grado di giudizio.
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