CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 13 luglio 2020, n. 14867
Tributi – Imposte sui redditi – Reddito d’impresa – Costi deducibili – Principio di inerenza – Costi sostenuti all’attività d’impresa, anche in via indiretta, potenziale o in proiezione futura
Rilevato che
– con sentenza n. 115/04/12, depositata in data 8 ottobre 2012, non notificata, la Commissione tributaria regionale delle Marche, accoglieva l’appello proposto da M. s.r.l. in persona del legale rappresentante pro tempore, nei confronti dell’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, avverso la sentenza n. 115/04/12 della Commissione tributaria provinciale di Ascoli Piceno che aveva rigettato il ricorso proposto dalla suddetta società contribuente avverso l’avviso di accertamento n. R9H030400229/2008 con il quale l’Agenzia delle entrate aveva contestato, ai fini Irpeg, Irap e Iva, per l’anno 2003: 1) maggiori ricavi pari a euro 65.320,00 conseguiti alla cessione di un immobile ad un prezzo inferiore al “valore normale” desunto dagli indici OMI e al maggiore importo del mutuo stipulato dall’acquirente; 2) recuperato a tassazione costi indebitamente dedotti in quanto non inerenti all’attività di impresa, pari a euro 33.900,00;
– la CTR, in punto di diritto, per quanto di interesse, ha osservato che: 1) quanto alla innoponibilità della plusvalenza relativa alla cessione dell’immobile (ai fini delle imposte dirette) occorreva fare riferimento al corrispettivo effettivamente pattuito e non al valore di mercato del bene, non essendo applicabile il criterio dei valori OMI, stante l’abrogazione di quella parte dell’art. 39, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 600 del 1973 come integrato d.l. n. 223 del 2006;
2) I’importo del mutuo bancario ottenuto dall’acquirente non era di per sé sufficiente a concretare una presunzione grave, precisa e concordante in quanto, nella compravendita potevano intervenire fattori soggettivi- quali una particolare situazione economica negativa del venditore- atti a fare discostare il corrispettivo dal valore normale dell’immobile negoziato; peraltro, all’epoca, le banche tendevano a gonfiare i valori degli immobili dato che poi questi contratti sarebbero stati oggetto di cessione a fondi immobiliari; 3) nemmeno la relazione della CTU poteva assumere valenza probatoria in quanto tendente a ricostruire il “valore normale” dell’immobile e non a ricercare il corrispettivo ricevuto; 4) la ripresa a tassazione dei costi asseritamente indebitamente dedotti era illegittima in quanto dalle spiegazioni fornite dalla società contribuente non sembrava che le prestazioni fossero del tutto avulse dalla sua attività, riguardando i servizi ricevuti: la posa in opera di vetrate, la pulizia dei locali e la manutenzione dell’immobili;
– avverso la sentenza della CTR, l’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione affidato a due motivi, cui resiste, con controricorso, la società contribuente;
– il ricorso è stato fissato in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375, secondo comma, e dell’art. 380-bis.1 cod. proc. civ., introdotti dall’art. 1 -bis del d.l. 31 agosto 2016, n. 168, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 ottobre 2016, n. 197.
Considerato che
– con il primo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., la omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione della sentenza impugnata, per avere il giudice di appello meramente aderito alla tesi della contribuente senza illustrare il percorso logico-argomentativo a sostegno: 1) della ritenuta insussistenza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza degli elementi presuntivi posti dall’Ufficio a fondamento dell’accertamento dei maggiori ricavi, quanto alla accertata plusvalenza relativa alla cessione dell’immobile, sia con riferimento ai valori OMI che all’importo del mutuo contratto dall’acquirente, nonché al valore attribuito al bene dalla banca ai fini dell’iscrizione ipotecaria a garanzia del mutuo; 2) della ritenuta illegittimità della ripresa a tassazione dei costi dedotti che l’Ufficio aveva contestato in quanto non inerenti ex art. 109 TUIR all’attività di impresa;
– il motivo si profila inammissibile, posto che il vizio specifico denunciabile per cassazione in base alla nuova formulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. (come modificato dal decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis nella specie, per essere stata la sentenza di appello depositata in data 8 ottobre 2012) concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c. e dell’art. 369, comma 2, n. 4, c.p.c. il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., sez. un., n. 8053 e n. 8054 del 2014; Cass. n. 14324 del 2015); nella specie, la ricorrente non ha assolto il suddetto onere, non avendo dedotto l’omesso esame di un “fatto storico”, ma di “argomentazioni” e “questioni”;
– con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. la violazione e falsa applicazione degli artt. 39, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 600 del 1973 e 54 del d.P.R. n. 633 del 1972 nonché dell’art. 109 del d.P.R. n. 917 del 1986 per avere il giudice di appello: 1) quanto alla contestazione dei maggiori ricavi per la emersa plusvalenza con riferimento alla cessione dell’immobile, erroneamente ritenuto insussistenti i requisiti di gravità, precisione e concordanza degli elementi presuntivi posti dall’Ufficio a fondamento dell’accertamento e concretantesi nella divergenza del prezzo dichiarato dal valore di mercato del bene in base ai valori OMI- inapplicabili, ad avviso della CTR, stante l’abrogazione della modifica dell’art. 39, comma 1, lett. d) cit. apportata dal d.l. n. 223 del 2006- nel maggiore importo del mutuo contratto dall’acquirente e nella valutazione del bene fatta dalla banca ai fini dell’iscrizione ipotecaria a garanzia del finanziamento; 2) quanto ai costi che si assumevano indebitamente dedotti per carenza del requisito di inerenza, erroneamente ritenuto illegittima la relativa ripresa a tassazione ancorché la contribuente non ne avesse provato l’inerenza in relazione all’attività di impresa esercitata;
– il secondo motivo- sostanzialmente articolato in due sub censure- è fondato quanto alla prima, infondato, quanto alla seconda;
– quanto alla prima sub censura concernente la contestazione dei maggiori ricavi per la plusvalenza emersa in relazione alla cessione dell’immobile, va evidenziato che alla disciplina dell’art. 35 co. 3 del d.l. n. 223 del 2006, convertito in l. n. 248 del 2006, che, integrando l’art. 39 co. 1 lett. d) del d.P.R. n. 600 del 1973, attribuiva valore di presunzione legale al valore normale dell’immobile risultante dalle quotazioni OMI al fine della determinazione del corrispettivo di cessione del cespite immobiliare, seguì poi la disciplina introdotta dalla l. n. 244 del 2007, che, nell’intento di regolare il valore probatorio attribuibile alle quotazioni OMI per le fattispecie negoziali insorte in epoca anteriore alla normativa del 2006, dispose all’art. 1, co. 265 che «In deroga all’articolo 1, comma 2, della legge 27 luglio 2000, n. 212, per gli atti formati anteriormente al 4 luglio 2006 deve intendersi che le presunzioni di cui all’articolo 35, commi 2, 3 e 23- bis, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, valgano, agli effetti tributari, come presunzioni semplici.». Seguì infine la l. n. 88 del 2009 (legge comunitaria 2008), che con l’art. 24 co. 5 intervenne di nuovo sull’art. 39 cít., eliminando la presunzione legale introdotta dal citato art. 35. Ciò a seguito del parere motivato del 19 marzo 2009 della Commissione europea, la quale, nell’ambito del procedimento di infrazione n. 2007/4575, aveva rilevato l’incompatibilità -in relazione specificamente all’IVA, ma con valutazione ritenuta estensibile dal legislatore nazionale anche alle imposte dirette- delle disposizioni del 2006 con il diritto comunitario; l’intervento modificativo del 2009 ha così ripristinato il quadro normativo anteriore al luglio 2006. Nella successione di leggi si è pertanto definitivamente persa la presunzione legale del valore dei cespiti secondo il valore normale emergente dalle quotazioni OMI. Ciò tuttavia non ha escluso del tutto il riferimento a tali quotazioni. A tal fine questa Corte ha ripetutamente affermato che, in tema di accertamento dei redditi d’impresa, in seguito alla sostituzione dell’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 ad opera dell’art. 24 co. 5, della l. n. 88 del 2009, che, con effetto retroattivo -stante la sua finalità di adeguamento al diritto dell’Unione europea- ha eliminato la presunzione legale relativa di corrispondenza del corrispettivo della cessione di beni immobili al valore normale degli stessi introdotta dall’art. 35 cit., così ripristinando il precedente quadro normativo in base al quale l’esistenza di attività non dichiarate può essere desunta “anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti”, l’accertamento di un maggior reddito derivante dalla predetta cessione di beni immobili non può essere fondato soltanto sulla sussistenza di uno scostamento tra il corrispettivo dichiarato nell’atto di compravendita ed il valore normale del bene quale risulta dalle quotazioni OMI, ma richiede la sussistenza di ulteriori elementi indiziari gravi, precisi e concordanti (Cass., sent. n. 9474/2017; n. 26487/2016; n. 24054/2014; da ultimo cfr. anche ord. n. 11439/2018; n. 2155 del 2019);
– nella specie, la CTR, non facendo corretta applicazione dei suddetti principi, ha ritenuto che fosse inapplicabile per determinare il valore del bene il criterio delle quotazioni OMI stante l’abrogazione (in forza della legge n. 88 del 2009) della modifica all’art. 39, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 600 del 1973 apportata dal d.l. n. 223 del 2006, e dunque della presunzione legale al valore normale dell’immobile risultante dalle quotazioni OMI; con ciò senza considerare che l’intervento modificativo del 2009 ha ripristinato il quadro normativo anteriore al luglio 2006, con conseguente valenza dello scostamento tra il corrispettivo dichiarato nell’atto di compravendita ed il valore normale del bene quale risulta dalle quotazioni OMI, unitamente ad altri elementi indiziari gravi, precisi e concordanti, a fondare l’accertamento del maggior reddito imponibile; è evidente il vizio del ragionamento presuntivo del giudice di appello che, avendone escluso aprioristicamente l’applicabilità, non ha valutato lo scostamento del prezzo dai valori OMI unitamente agli ulteriori elementi indiziari offerti dall’Amministrazione nel loro complesso, limitandosi ad affermare che “l’importo del mutuo bancario ottenuto dall’acquirente non [era] di per sé sufficiente a fondare una presunzione dotata dei requisiti di gravità, precisione e concordanza e che anche la relazione della CTR “tendeva a ricostruire il valore normale dell’immobile e non a ricercare il corrispettivo ricevuto”;
– inammissibile è invece la seconda sub-censura relativa la asserita illegittima ripresa a tassazione dei costi che l’Ufficio aveva ritenuto indebitamente detratti in quanto non inerenti all’attività di impresa ex art. 109 TUIR; premesso che “In tema di imposta sui redditi d’impresa, il principio dell’inerenza esprime la riferibilità dei costi sostenuti all’attività d’impresa, anche in via indiretta, potenziale o in proiezione futura, escludendo i costi che si collocano in una sfera ad essa estranea, e, infatti, quale vincolo alla deducibilità dei costi, non discende dall’art. 75, comma 5 (attuale art. 109, comma 5), del d.P.R. n. 917 del 1986, che concerne il diverso principio dell’indeducibilità dei costi relativi a ricavi esenti (ferma l’inerenza), cioè la correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili. Da ciò consegue che l’inerenza deve essere apprezzata attraverso un giudizio qualitativo, scevro dai riferimenti ai concetti di utilità o vantaggio, afferenti ad un giudizio quantitativo, e deve essere distinta anche dalla nozione di congruità del costo, anche se l’antieconomicità e l’incongruità della spesa possono essere indici rivelatori del difetto di inerenza” (Cass. Sez. 5 , Sentenza n. 27786 del 31/10/2018), nella specie, la CTR, con un accertamento in fatto, non sindacabile in sede di legittimità, ha affermato che “dalle spiegazioni fornite dalla società contribuente non sembrava che le prestazioni fossero del tutto avulse dalla sua attività, riguardando i servizi ricevuti la posa in opera di vetrate, pulizia dei locali e manutenzione dell’immobile”; ogni altra argomentazione sottesa alla detta sub-censura tende inammissibilmente ad una rivisitazione di valutazioni di merito effettuate dal giudice di appello;
– in conclusione, va accolto il secondo motivo nei limiti di cui in motivazione, dichiarato inammissibile il primo; con cassazione della sentenza impugnata- in relazione al motivo come accolto- e rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Commissione tributaria regionale delle Marche, in diversa composizione;
P.Q.M.
Accoglie il secondo motivo di ricorso nei limiti di cui in motivazione; dichiara inammissibile il primo; cassa la sentenza impugnata- in relazione al motivo come accolto- e rinvia- anche per le spese del giudizio di legittimità- alla Commissione tributaria regionale delle Marche, in diversa composizione.