CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 13 luglio 2020, n. 14875
Tributi – Accertamento sulla base di dati extracontabili su hard disk – Amministratore di fatto – Sanzioni – Responsabilità solidale
Rilevato che
– con sentenza n. 29/12/12, depositata in data 28 maggio 2012, la Commissione tributaria regionale del Piemonte rigettava l’appello principale proposto da C.S. S.C.A.R.L. e da M.M., quale presunto “amministratore di fatto”, nei confronti dell’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, nonché l’appello incidentale proposto dall’Ufficio avverso la sentenza n. 7/01/11 della Commissione tributaria provinciale di Verbania che, previa riunione, aveva rigettato i ricorsi proposti dalla suddetta società e dal presunto amministratore di fatto, avverso due avvisi di accertamento n. T7X030200112/2010 e n. T7X030200113/2010, con i quali l’Ufficio aveva contestato nei confronti della società un maggiore reddito imponibile ai fini Ires, Irap e Iva, per gli anni 2005-2006 – in relazione a fatture emesse, per operazioni oggettivamente inesistenti, al fine di creare inesistenti crediti Iva – irrogando le relative sanzioni, in solido anche al M.M., quale assunto amministratore di fatto della società;
– in punto di fatto, dalla sentenza impugnata si evince che: 1) previo p.v.c. della G.d.F. del 9 luglio 2009 – a seguito di indagini penali effettuate dalla Procura di Verbania con riferimento a supposti reati di truffa, ai fini Iva e imposte dirette, relativi al c.d. G.M. – del quale faceva parte C.S. S.C.A.R.L. e a vari soggetti nazionali e fittizie società estere, attraverso l’emissione di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti al fine di creare crediti Iva nonché mediante il trasferimento delle quote societarie a meri prestanomi in Bulgaria o in altri Stati esteri – l’Ufficio di Verbania aveva notificato nei confronti di C.S. S.C.A.R.L., nella persona di M.M., quale “autore delle violazioni ed amministratore di fatto”, due avvisi di accertamento n. T7X030200112/2010 e n. T7X030200113/2010 ai fini Ires, Irap e Iva, per gli anni 2005-2006; 2) la C.S. S.C.A.R.L. e M.M., quale presunto amministratore di fatto, avevano impugnato gli atti impositivi dinanzi alla CTP di Verbania che, con sentenza n. 7/01/11, previa riunione, aveva rigettato i ricorsi; 3) avverso la sentenza di primo grado avevano proposto appello principale la società e M.M., nella presunta qualità, deducendo l’erronea applicazione dei principi espressi dalla sentenza n. 225/2005 della Corte costituzionale; la mancata dimostrazione della assunta natura fittizia della società cooperativa; l’illegittima notificazione degli avvisi di accertamento e l’errata attribuzione a M.M. del ruolo di amministratore di fatto nonché l’erronea applicazione dell’art. 11 del d.lgs. n. 472 del 1997; 4)aveva controdedotto l’Agenzia delle entrate chiedendo la conferma della legittimità degli avvisi di accertamento in questione e spiegando appello incidentale di inammissibilità del gravame – eccezione pregiudiziale già formulata nelle controdeduzioni in primo grado e non vagliata dalla CTP – per difetto di legittimazione processuale della società cooperativa in persona di M.M., avendo questi disconosciuto la propria qualifica di amministratore di fatto;
– la CTR, in punto di diritto, ha osservato che: l) gli accertamenti effettuati dall’Ufficio non erano induttivi ma ricostruiti sulla base di dati extracontabili scoperti nell’hard disk dei computers che riflettevano la contabilità ufficiale, andata distrutta o occultata; 2) la società utilizzava fatture fittizie come dichiarato dal M.; 3) dalla documentazione non si evincevano i requisiti di inerenza, competenza e correlazione dei costi rivendicati dalla società; 4) era evidente il carattere meramente fittizio della C.S. S.C.A.R.L che, pur rivestendo formalmente la veste giuridica di società cooperativa, di fatto operava senza avere le caratteristiche di mutualità, essendo finalizzata a fornire manodopera al c.d. “G.M.” per fruire dei vantaggi fiscali; 5) la qualifica di amministratore di fatto di M.M. emergeva da quanto riportato nel p.v.c. del 9 luglio 2009, dalle dichiarazioni dei dipendenti e dei soci prodotte in sede processuale e dalla sentenza penale n. 190/10 del Tribunale di Verbania per cui la notifica degli atti impositivi anche a questi risultava corretta; 6) nei confronti di quest’ultimo era intervenuta sentenza penale di patteggiamento per dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o di altri documenti per operazioni inesistenti, per occultamento o distruzione di documenti, sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte ex art. 11 del d.lgs. n. 74/00; 7) non era ravvisabile alcuna violazione dell’art. 11 del d.lgs. n. 472/97 in quanto, nel caso di violazione commessa dal legale rappresentante o dall’amministratore anche di fatto, questi risultava obbligato solidalmente al pagamento di una somma pari alla sanzione irrogata;
– avverso la sentenza della CTR, C.S. S.C.A.R.L. e M.M., propongono ricorso per cassazione affidato a quattro motivi, cui resiste, con controricorso, l’Agenzia delle entrate;
– il ricorso è stato fissato in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375, secondo comma, e dell’art. 380-bis.l cod. proc. civ., introdotti dall’art. 1 -bis del d.l. 31 agosto 2016, n. 168, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 ottobre 2016, n. 197.
Considerato che
– con il primo motivo, i ricorrenti denunciano: 1) la contraddittoria motivazione (art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.) della sentenza impugnata, per avere la CTR ritenuto che l’accertamento fondato su dati extracontabili fosse “analitico” ai sensi del comma 1 dell’art. 39 del d.P.R. n. 600/73 mentre invece era per la sua intrinseca natura “induttivo”, essendo, in tal caso, l’Ufficio tenuto a riconoscere “una percentuale di costi presunti non documentati” a fronte di maggiori ricavi accertati; 2) la violazione e falsa applicazione dell’art. 39, comma 2, lett. c) del d.P.R. n. 600/73, nonché dei principi espressi dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 225 del 2005 in riferimento all’art. 53, comma 1, Cost., per avere erroneamente la CTR ritenuto che l’accertamento effettuato dall’Ufficio fosse “analitico” ai sensi del comma 1 dell’art. 39 cit. e non già- come risultava dagli avvisi di accertamento impugnati – “induttivo” ai sensi del comma 2 dell’art. 39 cit. essendo stato il reddito rideterminato in base al metodo extracontabile con illegittima esclusione di una incidenza percentuale dei costi a fronte dei ricavi accertati;
-il motivo – articolato in due sub-censure da analizzarsi congiuntamente per connessione- si profila complessivamente inammissibile;
– premesso che “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, il discrimine tra l’accertamento con metodo analitico extracontabile e quello con metodo induttivo sta, rispettivamente, nella parziale o assoluta inattendibilità dei dati risultanti dalle scritture contabili: nel primo caso, la “incompletezza, falsità od inesattezza” degli elementi indicati non è tale da consentire di prescindere dalle scritture contabili, in quanto l’Ufficio accertatore può solo completare le lacune riscontrate, utilizzando ai fini della dimostrazione dell’esistenza di componenti positivi di reddito non dichiarati, anche presunzioni semplici aventi i requisiti di cui all’art. 2729 c.c.; nel secondo caso, invece, “le omissioni o le false od inesatte indicazioni” risultano tali da inficiare l’attendibilità – e dunque l’utilizzabilità, ai fini dell’ accertamento – anche degli altri dati contabili (apparentemente regolari), sicché l’amministrazione finanziaria può “prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili in quanto esistenti” ed è legittimata a determinare l’imponibile in base ad elementi meramente indiziari, anche se inidonei ad assurgere a prova presuntiva ex artt. 2727 e 2729 c.c., con l’ulteriore conseguenza che l’eventuale errore qualificatorio del giudice di merito, sul tipo di accertamento, non rileva “ex se” come violazione di legge, ma refluisce in un errore sull’attività processuale ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. o in un errore sulla selezione e valutazione del materiale probatorio ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c.” (Cass. Sez. 5, Ord. n. 6861 del 08/03/2019), nella specie, in disparte il non essere stato riportato in ricorso, in difetto del principio di autosufficienza, il contenuto degli avvisi in questione (risultandone allegate solo alcune pagine), la CTR, con una valutazione in fatto – rispondente ai suddetti criteri qualificatori – non sindacabile in sede di legittimità, ha accertato, rinviando anche al p.v.c., che la ricostruzione dei ricavi operata dall’Ufficio non fosse “induttiva” ma analitica, essendo stata effettuata sulla base di “dati extracontabili” – scoperti nell’hard disk dei computers della società sequestrati nei locali della stessa – che, in sostanza, riflettevano la contabilità ufficiale, andata distrutta o occultata; a fronte di tale qualificazione sul tipo di accertamento espletato dall’Ufficio, la CTR ha poi ritenuto – con uguale insindacabile valutazione di merito – non provati dalla contribuente l’esistenza, l’inerenza e competenza degli eccepiti correlati costi; non ravvisandosi, nella specie, un errore del giudice di appello sulla selezione e valutazione del materiale probatorio trova, pertanto, applicazione il generale limite alla denuncia del vizio di motivazione per cui è inammissibile la revisione del ragionamento decisorio del giudice, non potendo mai la Corte di cassazione procedere ad un’autonoma valutazione delle risultanze degli atti di causa (Cass. n. 91/2014; Cass. S.U. n. 24148/2013; Cass. n. 5024/2012) e non potendo il vizio consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, spettando soltanto al giudice di merito di individuare le fonti del proprio convincimento, controllare l’attendibilità e la concludenza delle prove, scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione dando liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova (Cass. n. 11511/2014; Cass. n. 25608/2013; Cass. n. 6288/2011; Cass. n. 6694/2009; Cass. n. 15489/2007; Cass. n. 4766/2006). Pertanto, con riguardo alle prove, mai può essere censurata la valutazione in sé degli elementi probatori secondo il prudente apprezzamento del giudice (Cass. n. 24155/2017; Cass. n. 1414/2015; Cass. n. 13960/2014);
– con il secondo motivo, i ricorrenti denunciano l’insufficiente motivazione (art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.) della sentenza impugnata sulla natura fittizia della società cooperativa, ancorché quest’ultima operasse non come una vera cooperativa ma come una società di capitale, esercente lavori di facchinaggio, con conseguente più che “fittizietà” possibile “abuso di diritto” e semplice diversa applicazione di aliquote fiscali e contributive sugli imponibili accertati in luogo della asserita indeducibilità dei costi di esercizio effettivamente sostenuti;
– il motivo è inammissibile in quanto non coglie il decisum, essendo la decisione sulla ritenuta legittimità degli avvisi di accertamento in questione fondata sulla asserita condotta evasiva da parte della società C.S. S.C.A.R.L – facente parte del c.d. G.M. – concretantesi nella emissione di fatture “fittizie” per operazioni oggettivamente inesistenti con disconoscimento da parte dell’Ufficio delle fittizie componenti negative del reddito (indicate nelle dichiarazioni annuali a fronte della creazione di inesistenti crediti Iva);
– con il terzo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per vizio di motivazione, per avere la CTR equiparato la sentenza penale di patteggiamento ad una condanna (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) fondando il giudizio sulle conclusioni del giudizio penale, ancorché non potesse farsi discendere dalla sentenza di cui all’art. 444 c.p.c. la prova della ammissione di responsabilità da parte di M.M. quale “amministratore di fatto” della società;
– il motivo è infondato;
– in disparte l’avere i ricorrenti denunciato un vizio di motivazione della sentenza impugnata evocando erroneamente il n. 3 in luogo che il n. 5 del comma 1 dell’art. 360 c.p.c., premesso che “La sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. (cd. “patteggiamento”) costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito, il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità ed il giudice penale vi abbia prestato fede. Detto riconoscimento, pertanto, pur non essendo oggetto di statuizione assistita dall’efficacia del giudicato, ben può essere utilizzato come prova dal giudice tributario nel giudizio di legittimità dell’accertamento” (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 13034 del 24/05/2017), nella specie la CTR, conformemente a tale principio, con una motivazione succinta ma congrua, ha desunto la prova del ruolo di “amministratore di fatto” della società e di “autore delle assunte violazioni fiscali” in capo a M.M. valutando complessivamente, quali elementi indiziari, sia il contenuto della sentenza penale di patteggiamento n. 190/10 del Tribunale di Verbania (per dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o di altri documenti per operazioni inesistenti, per occultamento o distruzione di documenti, sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte ex art. 11 del d.lgs. n. 74/00) che le dichiarazioni rese dai soci/lavoratori nel corso della procedura di accertamento e utilizzate nel contenzioso tributario in ossequio del principio di diritto di questa Corte secondo cui “il divieto di prova testimoniale posto dall’art. 7, decreto legislativo n. 546/1992, si riferisce alla prova testimoniale da assumere con le garanzie del contraddittorio e non implica, pertanto, l’impossibilità di utilizzare, ai fini della decisione, le dichiarazioni che gli organi dell’amministrazione finanziaria sono autorizzati a richiedere anche ai privati nella fase amministrativa di accertamento che, proprio perchè assunte in sede extraprocessuale, rilevano quali elementi indiziari che possono concorrere a formare, unitamente ad altri elementi, il convincimento del giudice” (Cass. civ., n. 24531 del 2019; n. 13174 del 2019; Cass. civ., n. 9080 del 2017); si è, al riguardo, precisato che tali dichiarazioni hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari e, qualora rivestano i caratteri di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 2729 cod. civ., danno luogo a presunzioni (Cass. civ., n. 9402 del 2007); da qui la ritenuta corretta notificazione degli avvisi di accertamento in questione anche al M., quale amministratore di fatto della società, oltre che al legale rappresentante di quest’ultima;
– con il quarto motivo, i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 11 del d.lgs. n. 472 del 1997 e 7 del d.l. n. 269 del 2003 nonché la violazione dell’art. 112 c.p.c. (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.) per avere la CTR- pronunciando anche oltre i limiti delle pretese contenute negli avvisi di accertamento e nell’atto di appello incidentale- affermato erroneamente che M.M., quale asserito amministratore di fatto della C.S. S.C.A.R.L., fosse “coobbligato solidalmente” al pagamento delle sanzioni irrogate a carico della società;
-premesso che dalla sentenza impugnata si evince che la questione della assunta erroneità e falsa applicazione dell’art. 11 del d.lgs. n. 472 del 1997 – per illegittima presunzione di coobbligazione solidale del presunto “amministratore di fatto” nel pagamento delle sanzioni irrogate a carico della società – costituiva specifico motivo di appello principale con conseguente inconfigurabilità dell’asserito vizio di ultrapetizione (in ordine al quale è stato richiamato per errore il n. 3 in luogo del n. 4 del comma 1 dell’art. 360, c.p.c.), la censura di violazione dell’art. 7 del d.l. n. 269 del 2003 è infondata per le ragioni di seguito indicate;
– secondo un orientamento della S.C., cui va data continuità, «le sanzioni amministrative relative al rapporto tributario proprio di società o enti con personalità giuridica, ex art. 7 del d. l. n. 269 del 2003 (conv. con modif. in l. n. 326 del 2003), sono esclusivamente a carico della persona giuridica anche quando sia gestita da un amministratore di fatto, non potendosi fondare un eventuale concorso di quest’ultimo nella violazione fiscale sul disposto di cui all’art. 9 del d.lgs. n. 472 del 1997, che non può costituire deroga al predetto art. 7, ad esso successivo, che invece prevede l’applicabilità delle disposizioni del d.lgs. n. 472 ma solo in quanto compatibili» (Cass. n. 25284 del 25/10/2017). Ed, infatti, «l’amministratore di fatto di una società alla quale sia riferibile il rapporto fiscale ne risponde direttamente qualora le violazioni siano contestate o le sanzioni irrogate antecedentemente alla data di entrata in vigore del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, stante la disposizione di diritto transitorio di cui all’art. 7, comma 2, del menzionato decreto e la disciplina precedentemente vigente dettata dagli articoli 3, comma 2, e 11 del d.lgs. 18 dicembre 1997 n. 472» (Cass. n. 9122 del 23/04/2014). Tale orientamento incontra un limite nella artificiosa costituzione a fini illeciti della società di capitali, potendo allora le sanzioni amministrative tributarie essere irrogate «nei confronti della persona fisica che ha beneficiato materialmente delle violazioni contestate. In tal caso, la persona fisica che ha agito per conto della società è, nel contempo, trasgressore e contribuente, e la persona giuridica è una mera fictio, creata nell’esclusivo interesse della persona fisica. Non opera, pertanto, l’art. 7 del D.L. n. 269/2003, secondo cui nel caso di rapporti fiscali facenti capo a persone giuridiche le sanzioni possono essere irrogate nei soli confronti dell’ente, in quanto detta norma “intende regolamentare le ipotesi in cui vi sia una differenza tra trasgressore e contribuente, e, in particolare, l’ipotesi di un amministratore di una persona giuridica che, in forza del proprio mandato, compie violazioni nell’interesse della persona giuridica medesima” (19716/13)» (così, in motivazione, Cass. n. 5924 del 08/03/2017, che richiama Cass. n. 19716 del 28/08/2013; v. da ultimo Cass. n.28331 del 2018); “l’applicazione della norma eccezionale introdotta dal citato art. 7 presuppone che la persona fisica, autrice della violazione, abbia agito nell’interesse e a beneficio della società rappresentata o amministrata, dotata di personalità giuridica, poiché solo la ricorrenza di tale condizione giustifica il fatto che la sanzione pecuniaria, in deroga al principio personalistico, non colpisca l’autore materiale della violazione ma sia posta in via esclusiva a carico del diverso soggetto giuridico (società dotata di personalità giuridica) quale effettivo beneficiario delle violazioni tributarie commesse dal proprio rappresentante o amministratore; viceversa, qualora risulti che il rappresentante o l’amministratore della società con personalità giuridica abbiano agito nel proprio esclusivo interesse, utilizzando l’ente con personalità giuridica quale schermo o paravento per sottrarsi alle conseguenze degli illeciti tributari commessi a proprio personale vantaggio, viene meno la ratio che giustifica l’applicazione dell’art. 7 del d.l. n. 269 del 2003, diretto a sanzionare la sola società con personalità giuridica, e deve essere ripristinata la regola generale secondo cui la sanzione amministrativa pecuniaria colpisce la persona fisica autrice dell’illecito. Conferma tale conclusione l’art. 11 del d.lgs. n.472 del 1997, il quale prevede la responsabilità solidale delle società senza personalità giuridica per le sanzioni amministrative irrogate a carico della persona fisica autrice della violazione, qualora la violazione sia stata commessa “nell’interesse” della società rappresentata o amministrata; ciò significa, a contrariis, che qualora la persona fisica autrice della violazione non abbia agito nell’interesse della società, ma abbia perseguito un interesse proprio o comunque diverso da quello sociale, non sussiste la responsabilità solidale per le sanzioni amministrative della società priva di personalità giuridica, ed allo stesso modo non sussiste la responsabilità esclusiva della società dotata di personalità giuridica ex art. 7 d.l. n. 269 del 2003, ma trova applicazione la regola generale sulla responsabilità personale dell’autore della violazione commessa nell’interesse esclusivamente proprio” (Cass. n. 12334 e n. 12335 del 2019; conformi le conclusioni di Sez. 5 n. 28331/ 2018; Sez. 5 n. 5924/2017; Sez. 5 19716/2013);
– nel caso di specie, l‘accertata fittizietà della Cooperativa S. scarl da parte della CTR comporta la inoperatività dell’art. 7 del d.l. n. 269 del 2003, con conseguente corretta configurazione in capo al M., quale amministratore di fatto, della responsabilità solidale per il pagamento delle sanzioni, essendo quest’ultimo, al contempo, trasgressore e contribuente, e, dunque, autore e beneficiario delle violazioni contestate;
– in conclusione, il ricorso va rigettato;
– le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti al pagamento in favore dell’Agenzia delle entrate delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in euro 13.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito;