CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 13 ottobre 2021, n. 27938
Licenziamento per giusta causa – Contestazione disciplinare – Tecnico d’area – Poteri sull’acquisto e sull’approvvigionamento – Responsabilità
Rilevato
che la Corte di Appello di Lecce-Sezione distaccata di Taranto, accogliendo il reclamo presentato da G. T., ai sensi dell’art. 1, co. 58, l. n. 92 del 2012, nei confronti di I. S.p.A. in amministrazione straordinaria, avverso la sentenza del Tribunale di Taranto n. 119/2018 – con la quale era stata respinta l’opposizione presentata dal lavoratore all’ordinanza di rigetto dell’impugnativa del licenziamento per giusta causa allo stesso intimato il 21.9.2016 -, ha dichiarato la illegittimità del provvedimento espulsivo e, per l’effetto, lo ha annullato ed ha condannato la società alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro ed al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto in misura pari a dodici mensilità, oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali «maggiorati degli interessi legali dal licenziamento alla reintegrazione»;
che la Corte territoriale, per quanto ancora di interesse in questa sede, ha osservato che «attesa l’organizzazione “piramidale” esistente nell’azienda, deve in generale ed ancor più nel caso del T., escludersi che il tecnico d’area avesse poteri sull’acquisto e sull’approvvigionamento», in quanto «Le mansioni di tale figura professionale erano di assicurare il buon funzionamento dell’impianto, di modo che, verificata la necessità di un ricambio, il tecnico d’area inoltrava formale richiesta al capo reparto; questi faceva le verifiche di competenza in merito all’effettiva necessità del ricambio e inoltrava a sua volta la richiesta al capo area, che la inoltrava al magazzino» e, dunque, «il tecnico d’area si limitava a rappresentare l’esigenza, ma rimaneva totalmente estraneo ai successivi passaggi della procedura d’acquisto»;
che per la cassazione della sentenza I. S.p.A. in amministrazione straordinaria ha proposto ricorso articolando quattro motivi ulteriormente illustrati da memoria;
che G. T. ha resistito con controricorso;
che il P.G. non ha formulato richieste
Considerato
che, con il ricorso, si denunzia: 1) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., l’«omesso esame di fatti decisivi per il giudizio e oggetto di discussione, da cui risultavano le responsabilità ascritte al Signor T.» e si assume che la sentenza sarebbe «errata nella parte in cui ha ritenuto di dichiarare l’illegittimità del licenziamento disciplinare irrogato al T. offrendo una lettura del tutto erronea del fatto oggetto di contestazione disciplinare e posto a base del licenziamento come anche delle mansioni che il lavoratore era tenuto a svolgere in relazione alla procedura di acquisto dei prodotti»; 2) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2104, 2105, 2119 e 2697 c.c.; 3 della l. n. 604 del 1966; 7 della l. n. 300 del 1970; 115, 116 e 244 e segg. c.p.c. e si deduce che «la violazione e falsa applicazione delle suddette norme deriva, in via principale, dall’errore compiuto dalla Corte di Appello nell’individuare la condotta ascritta al lavoratore e posta a base del licenziamento (violando l’art. 7 Stat. lav.) e nell’operare uno stravolgimento delle responsabilità che il T., quale tecnico d’area, aveva nell’ambito della procedura di acquisto attraverso una lettura parziale delle risultanze istruttorie (in ciò la violazione degli artt. 115, 116 e 244 ss c.p.c.), che l’hanno erroneamente condotta, interpretando erroneamente anche l’art. 2697 c.c., a ritenere insussistente la lesione del vincolo di fiducia e assente la giusta causa del licenziamento (e ciò in violazione degli artt. 2104, 2105, 2119 c.c. e 3 I. 604/1966)»; 3) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 18, quarto comma, della l. n. 300 del 1970, come modificato dalla l. n. 92 del 2012; tale motivo è articolato «in subordine rispetto al precedente motivo di ricorso, per il caso in cui la Corte ritenga di non ravvisare una violazione del regime probatorio sopra indicato e un’omessa valutazione di circostanze decisive per il giudizio», essendo «la sentenza errata nella parte in cui ha ritenuto, attraverso la “doverosa autonoma valutazione degli elementi di prova raccolti nel giudizio penale”, illegittimo il licenziamento esprimendo “un giudizio di insussistenza del fatto contestato, che la società datrice di lavoro ed il Tribunale hanno ritenuto integrare una giusta causa di licenziamento”, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria in principalità invocata dal T.»; 4) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 18, quarto comma, l. n. 300 del 1970, in relazione agli artt. 24, 52 e 59 della legge fallimentare, «in base al cui disposto il tribunale che ha dichiarato il fallimento deve essere competente a conoscere di tutte le azioni che ne derivano qualunque ne sia il valore e anche se relative a rapporti di lavoro»; per la qual cosa, a parere della società ricorrente, «la Corte di Appello ha disatteso tale norma nella parte in cui, una volta dichiarata l’applicabilità dell’art. 18, comma 4, Stat. lav. per insussistenza del fatto contestato, ha condannato la società, oltre che alla reintegrazione in servizio del T., anche al “pagamento in suo favore dell’indennità risarcitoria nella misura di dodici mensilità dell’ultima retribuzione di fatto, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali maggiorati degli interessi legali dal licenziamento alla reintegrazione, oltre spese….”», peraltro «determinando un’incomprensibile disparità di trattamento tra le categorie di creditori avendo condannato la società direttamente ed omesso ogni riferimento all’art. 24 I. fall.»;
che il primo motivo non è meritevole di accoglimento perché, nella sostanza, pone una quaestio facti ed è, all’evidenza, diretto ad ottenere una diversa interpretazione degli elementi delibatori che fondano e sostengono, motivatamente, la decisione impugnata; con ciò, sollecitando una nuova valutazione del merito non consentito in questa sede, trattandosi di attività istituzionalmente riservata al giudice di merito (cfr., ex plurimis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass. nn. 25277/2015; 14541/2014), non sindacabile in Cassazione se non sotto il profilo della congruità della motivazione del relativo apprezzamento (nella fattispecie, peraltro, congrua, condivisibile e scevra da vizi logici);
che, peraltro, la parte ricorrente non ha specificato i punti ritenuti fondamentali, nella valutazione degli elementi di prova su cui la decisione impugnata si fonda, al fine di consentire il vaglio di decisività che avrebbe eventualmente dovuto condurre la Corte di merito ad una diversa pronunzia, con l’attribuzione di una diversa valutazione e di un diverso rilievo delibatorio alle emergenze istruttorie relative al ruolo svolto dal tecnico di area nell’ambito della procedura di acquisto o alle risultanze della sentenza penale (neppure divenuta definitiva) relativamente alle quali si denunzia il vizio (cfr., ex multis, Cass. nn. 17611/2018; 13054/2014). In particolare, in ordine a quanto è emerso in sede penale, la Corte di Appello ha motivato in modo esaustivo (v. le pagg. 4-6 della sentenza impugnata) e, circa la qualifica del T. (tecnico di area), nella sentenza (v. pag. 6) si sottolinea, a seguito dell’esame delle mansioni che connotano tale qualifica, che il lavoratore non avrebbe potuto firmare ordini di acquisto, potendo solo fare proposte; infine (sempre a pag. 6 della decisione oggetto del presente giudizio), si rileva che la Corte di merito ha altresì tenuto conto dei nuovi codici attribuiti ai materiali da acquistare;
che parimenti da disattendere è il secondo motivo, perché attiene a censure di fatto, articolate mediante presunti errori di diritto, deducendosi, altresì irritualmente, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., dal momento che, in tema di valutazione delle risultanze probatorie, in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione delle predette norme è apprezzabile, in sede di ricorso di legittimità, nei limiti del vizio di motivazione di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. e «deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità» (cfr., ex plurimis, Cass., ord. n. 8763/2019; sent. n. 24434/2016).
Pertanto, la violazione degli artt. 115 e 116 del codice di rito non può essere dedotta nel ricorso per cassazione ove si lamenti che i giudici di merito, nel valutare le prove addotte dalle parti, abbiano attribuito «maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre» (v., tra le altre, Cass. nn. 25394/2020; 11892/2016);
che, inoltre, la parte ricorrente non ha indicato analiticamente sotto quale profilo, le norme che si assumono violate sarebbero state incise, in spregio alla prescrizione di specificità dell’art. 366, primo comma, n. 4, c.p.c., che esige che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, primo comma, n. 3, del codice di rito, debba essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle disposizioni asseritamente violate, ma anche con specifiche argomentazioni intese motivatamente a dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in contrasto con le disposizioni regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le molte, Cass., Sez. VI, ord. nn. 187/2014; 635/2015; Cass. nn. 19959/2014; 18421/2009);
che il terzo motivo non è fondato, poiché, nella fattispecie, si configura l’ipotesi di cui al quarto comma dell’art. 18 della l. n. 300 del 1970, avendo la Corte di merito accertato che non ricorrono gli estremi della giusta causa addotti dalla datrice di lavoro, per insussistenza del fatto contestato; e ciò, conformemente ai prevalenti arresti giurisprudenziali di legittimità (cfr., tra le molte, Cass. nn. 30430/2018; 29062/2017; 13799/2017; 13383/2017; 20540/2015), alla stregua dei quali è prevista la tutela reintegratoria di cui all’art. 18, quarto comma, della l. n. 300 del 1970, non solo quando il fatto è insussistente nella sua materialità, ma anche quanto sussiste ma è privo del carattere di illiceità o non è imputabile al lavoratore;
che, pertanto, correttamente, i giudici di appello hanno annullato il licenziamento – data, appunto, la insussistenza del fatto contestato – e condannato la società datrice alla reintegrazione del T. nel posto di lavoro ed al pagamento di una indennità risarcitoria pari a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori, dalla data del licenziamento sino a quella della effettiva reintegrazione;
che il quarto motivo è da respingere, essendo la decisione impugnata del tutto in linea con la giurisprudenza di questa Corte (v., tra le altre, Cass. nn. 16443/2018; 24363/2017; 2975/2017; 19308/2016; 7129/2015) – del tutto condivisa dal Collegio, che non ravvisa ragioni per discostarsene -, secondo cui <<qualora risulti l’interesse del lavoratore>>, come nella fattispecie, <<all’accertamento del diritto di credito risarcitorio in via non meramente strumentale alla partecipazione al concorso nella procedura di amministrazione straordinaria, bensì effettivo alla tutela della propria posizione all’interno dell’impresa, spetta al giudice del lavoro la cognizione delle domande di impugnazione del licenziamento, di reintegrazione nel posto di lavoro e di accertamento, nel vigore del testo dell’art. 18 I. 300/1970 come novellato dalla I. 92/2012, della misura dell’indennità risarcitoria dovutagli»;
che, pertanto, in considerazione di quanto innanzi osservato, il ricorso va disatteso;
che le spese del presente giudizio – liquidate come da dispositivo, e da distrarre, ai sensi dell’art. 93 c.p.c., in favore del difensore del T., avv. M.D.V., dichiaratosi antistatario – seguono la soccombenza;
che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti processuali di cui all’art. 13, comma 1 – quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, secondo quanto specificato in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.450,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge, da distrarsi.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso articolo 13, se dovuto.