CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 dicembre 2018, n. 32463
Tributi – Accertamento – Riscossione – Redditi d’impresa – Dichiarazioni fiscali – Studi di settore
Rilevato che
1. l’Agenzia delle entrate ricorre, con due motivi, nei confronti di C.B., rimasto intimato, per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Toscana (in seguito: CTR), in epigrafe, che – in controversia concernente l’impugnazione di un avviso di accertamento che recuperava a tassazione, ai fini IVA, IRPEF, IRAP, per il periodo d’imposta 2002, i maggiori ricavi non dichiarati dell’impresa individuale del contribuente (esercente la vendita per corrispondenza di articoli casalinghi), determinati utilizzando il pertinente studio di settore – ha respinto l’appello dell’Ufficio ed ha confermato la sentenza di primo grado, favorevole al contribuente;
2. la CTR ha premesso che quest’ultimo aveva fatto opposizione all’atto impositivo asserendo, in primo luogo, di avere erroneamente indicato il costo del venduto in euro 309.101,00 anziché in euro 174.953,00, com’era desumibile dal “quadro G” della dichiarazione dei redditi e, ancora, che l’indicazione del dato esatto avrebbe comportato la determinazione di ricavi minori a quelli dichiarati;
ha, quindi, ritenuto che le precisazioni fornite dall’Ufficio appellante, in virtù delle quali, anche tenendo conto dell’errore materiale compiuto dal contribuente, sussistevano maggiori ricavi nella misura di euro 48.750,00, non costituivano “prove certe” della pretesa impositiva in quanto, sulla base dei dati riportati dal contribuente nel detto “quadro G”, non contestati dall’Ente impositore, in effetti, il costo del venduto era pari a euro 174.953,00 (rimanenze iniziali: euro 129.114,00 + costi per l’acquisto di merce: euro 143.839,00 – rimanenze finali: euro 98.000,00), sicché la determinazione dei ricavi presunti era, in ogni caso, minore rispetto alla misura dei ricavi dichiarati;
Considerato che
1. con il primo motivo di ricorso, l’Agenzia denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., la violazione e la falsa applicazione dell’art. 3, commi 179-189, della legge n. 549/1995, e dell’art. 62 sexies comma 3, del d.l. n. 331/1993, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 427/1993, della sentenza impugnata che, sebbene il contribuente, in fase amministrativa, fosse rimasto inerte e non avesse fornito alcuna giustificazione circa lo scostamento rilevato con la procedura di accertamento standardizzato, ha ritenuto che incombesse sull’Amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare i maggiori redditi risultanti dall’applicazione degli studi di settore;
1.1. il motivo è fondato;
1.1.1. è ius receptum che: «La procedura di accertamento standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata in relazione ai soli standard in sé considerati, ma nasce procedimentalmente in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente (che può tuttavia, restare inerte assumendo le conseguenze, sul piano della valutazione, di questo suo atteggiamento), esito che, essendo alla fine di un percorso di adeguamento della elaborazione statistica degli standard alla concreta realtà economica del contribuente, deve far parte (e condiziona la congruità) della motivazione dell’accertamento, nella quale vanno esposte le ragioni per le quali i rilievi del destinatario dell’attività accertativa siano stati disattesi. Il contribuente ha, nel giudizio relativo all’impugnazione dell’atto di accertamento, la più ampia facoltà di prova, anche a mezzo di presunzioni semplici, ed il giudice può liberamente valutare tanto l’applicabilità degli standard al caso concreto, che deve essere dimostrata dall’ente impositore, quanto la controprova sul punto offerta dal contribuente.» (Cass. sez. un. 18/12/2009, n. 26635);
posto che l’Ente impositore, dopo avere modificato i dati da rapportare all’accertamento standardizzato, tenendo conto dell’errore di compilazione del detto “quadro G”, allegato dal contribuente durante il giudizio, è pervenuto, comunque, all’individuazione di ricavi non dichiarati, la CTR, dal canto suo, disattendendo il principio di diritto enunciato dalla Corte, ha erroneamente negato che l’Ufficio avesse fornito “prove certe” della pretesa impositiva, anziché affermare, come avrebbe dovuto, che il contribuente – che, in fase amministrativa, non aveva partecipato al contraddittorio coll’Organo di controllo (cfr. pag. 2 della sentenza) -, gravato dell’onere della prova contraria, non aveva dimostrato l’infondatezza della pretesa fiscale;
invero: «Ogni qual volta il contraddittorio sia stato regolarmente attivato ed il contribuente ometta di parteciparvi ovvero si astenga da qualsivoglia attività di allegazione, l’ufficio non è tenuto ad offrire alcuna ulteriore dimostrazione della pretesa esercitata in ragione del semplice disallineamento del reddito dichiarato rispetto ai menzionati parametri.» (Cass. 20/09/2017, n. 21778);
2. con il secondo mezzo l’Agenzia fa valere l’insufficiente motivazione della sentenza impugnata che, per un verso, non ha spiegato perché ha posto alla base del calcolo il “costo del venduto”, inclusivo dei soli acquisti di merci e delle rimanenze iniziali e non ha, invece, considerato il diverso dato, dedotto dall’Ufficio, del “costo del venduto e/o costo per la produzione dei servizi” che, appunto, oltre al costo di acquisto delle merci e alle rimanenze iniziali, includeva anche il “costo per la produzione dei servizi”, indicato dal contribuente in euro 24.529,00; per altro verso, non ha illustrato le ragioni per le quali ha stimato il reddito presunto, derivante dall’applicazione dello studio di settore, minore di quello dichiarato, disattendendo le argomentazioni dell’Amministrazione finanziaria (esposte nell’atto d’appello, corredato dei prospetti di calcolo), che indicavano il reddito presunto nell’importo di euro 322.467,00, a fronte di euro 273.720,00 dichiarati, con conseguente differenza di euro 48.750,00, quali ricavi non dichiarati;
2.1. il motivo è fondato;
2.1.1. la lacuna dello sviluppo motivazionale della decisione d’appello appare evidente: la CTR si limita a confermare la tesi difensiva del contribuente, ossia che i ricavi presunti sarebbero minori di quelli dichiarati, muovendo dal postulato che, in effetti, il costo del venduto fosse pari a euro 174.953,00;
la decisione, però, non si misura con le puntuali deduzioni dell’Ufficio, secondo cui, come suaccennato (cfr. par. 2), per un verso, il costo del venduto era maggiore di quello indicato dal contribuente (dovendosi considerare anche il costo per la produzione dei servizi) e, per altro verso, in applicazione dello studio di settore, risultavano maggiori ricavi (euro 322.467,00) rispetto a quelli dichiarati (euro 273.720,00) e, quindi, maggiori ricavi omessi (euro 48.750,00);
3. in definitiva, accolti entrambi i motivi, la sentenza va cassata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Toscana, in diversa composizione, per il riesame della controversia, e anche per la decisione sulle spese del giudizio di legittimità;
P.Q.M.
Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Toscana, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
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