CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 febbraio 2020, n. 3752
Tributi – Accertamento – Presunzione di cessioni in nero di partite di carburante, corrispondenti ai cali eccedenti la misura consentita – Prova contraria – Furti di dipendente infedele – Rilevanza
Rilevato
che l’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione nei confronti di una sentenza della CTR della Puglia, sezione staccata di Lecce, di accoglimento dell’appello proposto dalla contribuente s.r.l. “S.” avverso una decisione della CTP di Lecce, che aveva rigettato il ricorso di quest’ultima avverso un avviso di accertamento per IRES, IVA ed IRAP 2009;
Considerato
che il ricorso è affidato a due motivi:
che con il primo motivo la ricorrente lamenta violazione art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 cod. proc. civ., per essersi la sentenza impugnata pronunciata oltre la domanda formulata dalla società contribuente, avendo esaminato anche due rilievi dell’avviso di accertamento non dedotti dalla parte interessata, in violazione dell’art. 112 cod. proc. civ.;
che, con il secondo motivo, la ricorrente lamenta violazione art. 324 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 cod. proc. civ., in quanto la sentenza impugnata aveva annullato l’avviso di accertamento di cui era causa, pur avendo l’ufficio evidenziato che la pretesa fiscale relativa agli interessi passivi, indebitamente dedotti in violazione dell’art. 96 del TUIR, non essendo stata contestata dalla società contribuente, era divenuta definitiva, come del resto evidenziato dalla CTP; ed infatti sul punto la società contribuente non aveva proposto appello, si che la CTR con l’impugnata sentenza aveva erroneamente esaminato un fatto, coperto dal giudicato interno;
che la contribuente si è costituita con controricorso;
che il primo motivo di ricorso proposto dall’Agenzia delle entrate è infondato;
che, invero, la stessa Agenzia delle entrate ha dato atto nel proprio ricorso che la società contribuente ha fondato il suo appello su tre motivi e precisamente: (I) la violazione da parte dell’Agenzia delle entrate dell’art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973, per non avere essa provato l’esistenza di una valida delega conferita al soggetto che aveva sottoscritto l’avviso di accertamento impugnato; (II) l’avere la CTP erroneamente ritenuto irrilevanti i furti di carburante subiti da essa società contribuente ad opera di un dipendente infedele, mentre invece essi erano stati la causa dei continui squilibri rilevati nella gestione quantitativa dei carburanti presso il suo centro di distribuzione; (III) la violazione dell’art. 50 del d.lgs. n. 504 del 1995, recante il testo unico delle disposizioni legislative sulle imposte indirette (accise) sulla produzione e sui consumi e dell’art. 2 del d.m. n. 55 del 2000;
che la sentenza impugnata, dopo aver respinto il primo motivo di ricorso con motivazione insindacabile nella presente sede di legittimità, con la quale ha rilevato come l’accertamento fosse stato sottoscritto da un funzionario dirigente di seconda fascia, munito di valida delega rilasciatagli dal direttore provinciale con provvedimento emesso in epoca anteriore all’avviso di accertamento, ha altresì esaminato unitariamente il secondo ed il terzo motivo di ricorso, accogliendoli con motivazione parimenti non sindacabile nella presente sede, con la quale ha ritenuto di non condividere la valutazione presuntiva, fatta dall’ufficio per supportare la sussistenza dì cessioni in nero delle partite di carburante, corrispondenti ai cali eccedenti la misura consentita;
che non è pertanto ravvisabile nella specie alcuna violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., dovendosi ritenere che il vizio di omessa pronuncia da parte del giudice di appello intanto sia configurabile in quanto manchi completamente l’esame di una censura mossa dall’appellante al giudice di primo grado, mentre, al contrario, nella specie in esame, la CTR si è correttamente pronunciata su tutti i motivi di appello formulati dalla società contribuente (cfr. Cass. n. 452 del 2015);
che è altresì infondato il secondo motivo di ricorso, in quanto, dall’esame della sentenza impugnata, può desumersi che correttamente la stessa non si è pronunciata sulla pretesa relativa agli interessi passivi, indebitamente dedotti dalla contribuente in violazione dell’art. 96 del TUIR; invero la società contribuente non ha impugnato in appello la determinazione adottata sul punto dalla CTP, che ha ritenuto fondato il rilievo dell’ufficio relativo agli interessi passivi indebitamente dedotti in violazione dell’art. 96 del TUIR; e su detta statuizione, da qualificare come un capo autonomo della sentenza di primo grado, e che, pur autonomamente impugnabile, non ha formato oggetto di impugnazione, è da ritenere essersi ormai formato il giudicato, senza la necessità di alcuna pronuncia su di essa da parte della CTR, non essendo stata essa investita della questione in sede di appello (cfr., in termini, Cass. SS.UU. n. 13436 del 2019);
che il ricorso proposto dall’Agenzia delle entrate va pertanto respinto, con sua condanna al pagamento delle spese di giudizio, liquidate come in dispositivo;
che, risultano soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato, trattandosi di amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. 30 maggio 2012, n. 115 (ndr art. 13, comma 1-quater del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115);
P.Q.M.
Respinge il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, quantificate in complessivi € 5.500,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% ed agli accessori di legge.
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