CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 gennaio 2020, n. 425
Tributi – Società di comodo – Interpello disapplicativo – Attività ridotta per effetto della crisi di settore –
Rilevato in fatto
La soc. L. srl, avente per oggetto sociale tra le altre cose la gestione e locazione di posti barca in concessione demaniale propria o di terzi, nel 2010 stipulava due contratti relativi alla nautica da diporto: uno di sub concessione e l’altro di locazione finanziaria per l’acquisizione del diritto di utilizzo due posti barca ed annesso posto auto, ubicati nel Porto Maurizio di Imperia. La crisi del settore consentiva alla società di locare solo uno dei due posti barca (ed annesso parcheggio auto), con ricavi inferiori ai costi di manutenzione registrati nell’anno 2011.
Per questo – a fini cautelativi – presentava interpello c.d. disapplicativo ex art. 30 I. n. 724/1994 in tema di società di comodo.
L’Agenzia delle Entrate – Direzione Regionale per la Lombardia si esprimeva in senso negativo, ritenendo inammissibile la domanda e motivando la decisione con la mancata dimostrazione da parte della contribuente della impossibilità di reperire un altro conduttore e della congruità del canone rispetto al mercato di riferimento.
Avverso tale provvedimento insorgeva la contribuente dinanzi CTP di Milano, che si pronunciava in senso ad essa favorevole, ma la sentenza veniva riformata dalla CTR che riteneva il ricorso improcedibile, stante la non impugnabilità dell’esito dell’interpello disapplicativo, estraneo all’elenco di cui all’art. 19 d.lgs. n. 546/1992.
Contro tale pronuncia insorge la contribuente affidandosi a tre motivi, cui replica puntualmente l’Avvocatura.
Considerato in diritto
Con il primo motivo di ricorso si lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 19 d.lgs. 31/12/1992 n. 546, in relazione all’art. 360, primo comma, n.3 c.p.c., per aver erroneamente ritenuto il diniego di interpello disapplicativo non incluso nell’elenco degli atti impugnabili previsto dall’art. 19 cit., il quale, invece, alla lett. h) del primo comma “il diniego o la revoca di agevolazioni o il rigetto di domande di definizione agevolata di rapporti tributari”, tra i quali rientrerebbe il provvedimento impugnato.
Con il secondo motivo si rileva la violazione e/o falsa applicazione dell’art.19 d.lgs. 31/12/1992 n.546, con conseguente nullità della sentenza, in parametro all’art.360, primo comma, n.4 c.p.c., ove si riscontri l’error in procedendo denunciato con il primo motivo di ricorso.
Con il terzo motivo di contesta la violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto di cui all’art.37bis, ottavo comma, del d.P.R. 29/09/1973 n.600, dell’art.1 del d.m. 19/06/1998 e dell’art. 97 della Costituzione, in relazione all’art. 360, primo comma n.3 c.p.c.. In buona sostanza la contribuente si duole che l’inammissibilità della istanza di interpello sia stata pronunciata sulla base della mancata allegazione documentale circa la doverosità della disapplicazione normativa prevista per le società di comodo, sebbene essa non costituisca motivo di inammissibilità dell’interpello stesso.
Le doglianze articolate in ricorso dalla contribuente possono essere esaminate congiuntamente, riferendosi tutte all’unica questione della impugnabilità dell’atto di rigetto dell’amministrazione sull’interpello disapplicativo.
Secondo l’orientamento di questa Corte, cui si intende dare continuità, come di recente ribadito nella pronuncia 15 marzo 2019 n.7403, “La risposta negativa del fisco a un interpello disapplicativo è atto impugnabile, anche se non rientra tra quelli elencati dall’art. 19 d.Ig. n. 546/1992. Esso, infatti, ha la capacità di incidere immediatamente sulla sfera giuridica del destinatario e quindi non può negarsi che il contribuente abbia l’interesse, ex art. 100 c.p.c., ad invocare il controllo giurisdizionale sulla legittimità dell’atto in esame“.
Come chiarito, infatti, nella pronuncia 05/10/2012 n.17010 “La natura tassativa – e quindi soggetta ad interpretazione rigorosa – dell’elencazione degli atti contenuta nel citato D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, con il correlato onere di impugnazione a pena di cristallizzazione della pretesa in essi contenuta, non comporta, tuttavia, che l’impugnazione di atti diversi da quelli ivi specificamente indicati sia in ogni caso da ritenere inammissibile.
Da tempo, infatti, la giurisprudenza di questa Corte … ha affermato il principio secondo il quale il detto “catalogo” degli atti impugnabili è suscettibile di interpretazione estensiva, sia in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) e di buon andamento della p.a. (art. 97 Cost.), che in conseguenza dell’allargamento della giurisdizione tributaria operato con la L. n. 448 del 2001: ciò, ovviamente, per quanto detto sopra, con il necessario corollario della mera facoltà d’impugnazione, il cui mancato esercizio non determina alcuna conseguenza sfavorevole in ordine alla possibilità di contestare la pretesa tributaria in un secondo momento.
In particolare, è stata riconosciuta la facoltà di ricorrere al giudice tributario avverso tutti gli atti adottati dall’ente impositore che, con l’esplicitazione delle concrete ragioni (fattuali e giuridiche) che la sorreggono, porti, comunque, a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, senza necessità di attendere che la stessa, ove non sia raggiunto lo scopo dello spontaneo adempimento cui è naturaliter preordinata, si vesta della forma autoritativa di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19: sorge, infatti, in capo al contribuente destinatario, già al momento della ricezione della notizia, l’interesse, ex art. 100 c.p.c., a chiarire, con pronuncia idonea ad acquisire effetti non più modificabili, la sua posizione in ordine alla stessa e, quindi, ad invocare una tutela giurisdizionale, comunque, di controllo della legittimità sostanziale della pretesa impositiva (e/o dei connessi accessori vantati dall’ente pubblico); la mancata impugnazione da parte del contribuente di un atto non espressamente indicato dall’art. 19 citato non determina, in ogni caso, la non impugnabilità (e cioè la cristallizzazione) di quella pretesa, che va successivamente reiterata in uno degli atti tipici previsti dallo stesso art. 19 (in termini, Cass. n. 21045 del 2007 – con i precedenti ivi indicati -, cui adde Cass., Sez. un., n. 10672 del 2009, nonchè Cass. nn. 27385 del 2008; 4513 del 2009; 285 e 14373 del 2010; 8033, 10987 e 16100 del 2011)”.
Non colgono, dunque, nel segno le eccezioni dell’Amministrazione finanziaria secondo cui, consentire al contribuente di impugnare il provvedimento di rigetto o quello dichiarativo dell’inammissibilità dell’istanza – che intervengono in una fase preventiva all’accertamento e senza obbligo di adeguamento per il contribuente – si tradurrebbe nel riconoscimento per il contribuente di un doppio grado di tutela nel merito. Perché, infatti, non si è di fronte ad una doppia tutela prima contro l’interpello e, poi, poi l’atto di accertamento; bensì della possibilità per ragioni di economia processuale di impugnare i due atti, riferiti a due stadi differenti. Tanto è vero che, per le stesse ragioni e senza che si discuta o dubiti di una doppia tutela giudiziaria di merito, è consentito impugnare la cartella, anche se non si è avuto prima l’accertamento.
D’altra parte, il provvedimento di rigetto dell’interpello disapplicativo è immediatamente lesivo – in ipotesi sulla bancabilità della contribuente – donde sorge l’interesse attuale, concreto, personale, economicamente valutabile alla sua rimozione e, quindi, all’impugnazione.
In definitiva il ricorso è fondato.
P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rimette le parti, anche per la regolazione delle spese di giudizio, dinanzi alla CTR per la Lombardia in diversa composizione.
Non sussistono i presupposti ex art. 13, comma 1 quater del d.P.R. 115/2002 per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma del comma 1 bis dell’art. 13 d.P.R. n. 115/2002.
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