CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 giugno 2021, n. 16708
Tributi – Accertamento analitico induttivo in base alle scritture contabili – Presupposti – Elementi indiziari – Valutazione complessiva
Rilevato che
1. L’A.G.M.A. s.r.l. impugnò l’avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate aveva rideterminato ai sensi dell’art. 39, primo comma, lett. d), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 i propri ricavi ai fini IRPEF, IRAP ed IVA per l’anno di imposta 2008 e irrogato sanzioni.
2. La Commissione tributaria provinciale accolse il ricorso della contribuente con sentenza che fu confermata in appello.
La Commissione tributaria regionale del Lazio osservò che l’Ufficio non aveva individuato alcun motivo che giustificasse il ricorso all’accertamento ex art. 39, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973, in presenza di una contabilità regolare, e che comunque aveva valorizzato elementi presuntivi inidonei a supportare la rideterminazione presuntiva dei ricavi.
3. Avverso tale pronuncia l’Amministrazione finanziaria propone ricorso affidato a tre motivi cui resiste la contribuente con controricorso illustrato da memoria ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ.
Il Procuratore Generale ha depositato requisitoria scritta in forma di memoria.
Considerato che
1. Con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., l’Agenzia delle entrate lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 39, primo comma, lett. d), e 41-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, 25 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, 54, quarto comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.
Secondo la difesa erariale, i giudici d’appello hanno errato nel ritenere che nel caso di specie, in considerazione della regolarità contabile della società in verifica, non sussistessero le condizioni per ricorrere all’accertamento induttivo ai sensi dell’art. 39, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973 e che, comunque, gli elementi presuntivi valorizzati dall’Amministrazione finanziaria non fossero idonei a sorreggere una ricostruzione induttiva dei ricavi.
1.1. Con il secondo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., l’illogicità e il carattere apparente della motivazione e, quindi, la nullità della sentenza o del procedimento per violazione degli artt. 1, comma 2, e 36, comma 2, n. 4, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, dell’art. 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ. e 118 disp. att. cod. proc. civ.
1.2. Con il terzo motivo si lamenta, in subordine, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 35, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992 e dell’art. 277 cod. proc. civ., in combinato disposto con gli artt. 39, primo comma, lett. d) e 41 del d.P.R. n. 600 del 1973, 25 del d.lgs.n. 446 del 1997 e 54 del d.P.R. n. 633 del 1972, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.
Assume l’Amministrazione ricorrente che nella decisione impugnata la Commissione tributaria regionale sottintende erroneamente di essere sprovvista del potere sostitutivo di correzione dell’avviso di accertamento.
2. Preliminarmente devono essere disattese le eccezioni di inammissibilità del ricorso per cassazione fondate dalla controricorrente sull’inesistenza della notificazione e sulla «palese inammissibilità dell’appello al tempo proposto dall’ufficio, stante l’omessa indicazione dei motivi specifici richiesti dall’art. 53 D.Lgs. 31/12/92 n. 546».
Non merita, in particolare, condivisione, l’assunto della contribuente secondo il quale il fatto che il ricorso per cassazione sia stato notificato agli Avv.ti G.T. e F.C., i quali, essendosi costituiti successivamente al deposito della sentenza gravata, non erano né i propri difensori, né i propri procuratori domiciliatari, comporti l’inesistenza del procedimento notificatorio.
Come chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte, l’inesistenza della notificazione del ricorso per cassazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità (Cass. Sez. U, 20/7/2016, n. 14916).
Tale situazione non è configurabile nell’ipotesi, ravvisabile nel caso di specie, in cui il ricorso per cassazione venga notificato al procuratore designato dal destinatario per il giudizio di secondo grado, ma costituitosi dopo il deposito della sentenza che tale giudizio ha definito, dal momento che tale difensore, pur non essendo identificabile nel destinatario legale – individuato dall’art. 330 cod. proc. civ. nel procuratore costituito nel giudizio in cui è stata emessa la decisione impugnata -, è pur sempre un procuratore nominato dalla parte per la rappresentanza nel giudizio d’impugnazione, così che è ravvisabile un collegamento tra il luogo e la persona che ha ricevuto l’atto, da un lato, e il destinatario, dall’altro, tale da rendere plausibile che l’atto, pervenuto a persona non del tutto estranea al processo, sia giunto a conoscenza del destinatario.
Di conseguenza, la notificazione del ricorso per cassazione in un luogo diverso dal domicilio eletto, ove l’atto risulti consegnato al destinatario e non restituito al mittente, non è pertanto inesistente, ma nulla ed è suscettibile di sanatoria per effetto della costituzione in giudizio dell’intimato, ancorché effettuata al solo fine di eccepire la nullità (Cass. Sez. L, 28/3/2018, n. 7703).
2.1. Parimenti infondata è l’eccezione di inammissibilità del ricorso per cassazione che l’A.G.M.A. s.r.l. in liquidazione pretende di far discendere dall’inammissibilità dell’appello erariale per genericità dei motivi, posto che una censura siffatta avrebbe dovuto essere proposta mediante ricorso incidentale avverso la sentenza gravata.
2.2. Non condivisibile è, infine„ la considerazione svolta dalla società controricorrente con la memoria ex art. 380-bis.1 cod. proc. civ. secondo la quale le censure formulate con il ricorso erariale, essendo sostanzialmente riconducibili nel paradigma dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., sarebbero inammissibili anche in ragione dei limite di impugnazione della “doppia conforme” sancito dall’art. 348-bis cod. proc. civ. Infatti, i motivi di ricorso erariale non denunciano l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ma, per un verso, l’error iuris consistito nell’erronea applicazione, da parte del giudice d’appello, delle norme sul riparto dell’onere probatorio in materia di accertamento induttivo, e, per altro verso, la nullità della sentenza impugnata per motivazione apparente e la violazione degli artt. 2 e 35, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, oltre che dell’art. 277 cod. proc. civ., con riferimento al mancato esercizio dei poteri sostitutivi rispetto a quelli spettanti all’Amministrazione finanziaria.
3. Il secondo motivo del ricorso erariale, da trattarsi con precedenza in ragione della sua priorità logico-giuridica, è infondato.
Come più volte chiarito da questa Corte, la motivazione del provvedimento impugnato con ricorso per cassazione deve ritenersi apparente quando, pur se graficamente esistente ed eventualmente sovrabbondante nella descrizione astratta delle norme che regolano la fattispecie dedotta in giudizio, non consente – alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, sesto comma, Cost. (Cass. Sez. 1, ord. 30/6/2020, n. 13248; Cass. Sez. L, 5/8/2019, n. 20921; Cass. Sez. 6-5, ord. 7/4/2017, n. 9105).
Tale ipotesi non appare configurabile nel caso di specie in cui gli snodi argomentativi della decisione gravata rendono adeguatamente intellegibile il percorso motivazionale seguito dai giudici della commissione di secondo grado, i quali hanno supportato il giudizio di inidoneità degli elementi presuntivi valorizzati nell’avviso di accertamento, precisando che «l’Ufficio ha preso in considerazione solo i secondi piatti (carne e pesce) utilizzando, come elemento base di riferimento, la grammatura minima contrattualmente prevista per la fornitura di tali pietanze: rapportare tale valore minimo – dato meramente contrattuale non verificato in concreto – ad acquisti espressi in quintali appare sommamente pericoloso, dato che oltretutto una minima variazione sul peso della pietanza ha riflessi decisivi nella ricostruzione dei pasti effettivamente prodotti» ed aggiungendo che «Anche la riduzione del 30% a titolo di sfrido appare apodittica. Nel settore della ristorazione (ad ampia utenza) la semplice sezionatura del prodotto macellato, per consentirne l’uso finale, comporta notevoli scarti di merce (ossa, grassi ed altro prodotto no idoneo)» e che «[n]ell’ambito di una mensa aziendale con tipologia self service, vi è la necessità di garantire una quantità di pietanze superiori a quelle materialmente fruibili, proprio per dare opzioni di scelta al consumatore: ciò soprattutto in relazione ai secondi piatti, per i quali è prevista l’alternatività tra carne (prevalente), pesce e formaggi. Ne segue che il non consumato rappresenta una percentuale non di poco conto, la quale non costituisce per il ristoratore una voce di spesa significativa. Tale voce diventa invece di assoluto rilievo laddove il non consumato venga imputato a ricavo ed ancora più rappresentativa in presenza di otto punti di somministrazione. Un’indagine più scrupolosa avrebbe dovuto tener conto anche dei consumi dei primi piatti e magari dei contorni, così da verificare se, anche per le diverse somministrazioni, la ricostruzione dei pasti effettivamente consumati risultasse coerente» (pagine 4 e 5 della motivazione della sentenza impugnata).
4. Il primo e il secondo motivo, da trattarsi congiuntamente in quanto connessi, sono fondati.
Merita, innanzitutto, condivisione la censura rivolta dall’Amministrazione finanziaria all’affermazione della sentenza gravata secondo la quale la regolarità contabile impediva il ricorso all’accertamento induttivo, rispondendo ad un insegnamento più che consolidato il contrario assunto secondo il quale in tema di accertamento dei redditi di impresa„ l’Ufficio può procedere a quello analitico-induttivo, ai sensi dell’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973, anche in presenza di scritture formalmente regolari, ove la contabilità risulti complessivamente inattendibile sulla base di elementi indiziari gravi e precisi (Cass. Sez. 5, ord. 12/12/2018, n. 32129).
Parimenti condivisibile è l’assunto della difesa erariale secondo il quale la commissione di secondo grado si è limitata a negare valore indiziario ai singoli elementi acquisiti in giudizio senza considerare che «i requisiti di gravità, precisione e concordanza, richiesti dalla legge, vanno desunti dal complesso degli indizi, soggetti ad una valutazione globale e non con specifico riferimento a ciascuna inferenza induttiva» (pag. 14 del ricorso).
È, invero, censurabile in sede di legittimità la decisione nella quale il giudice si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand’anche singolarmente sforniti di valenza indiziarla, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento (Cass. Sez. 5, n. 9108 del 6/6/2012).
In particolare, questa Corte ha precisato che, «In tema di prova per presunzioni, il giudice, dovendo esercitare la sua discrezionalità nell’apprezzamento e nella ricostruzione dei fatti in modo da rendere chiaramente apprezzabile il criterio logico posto a base della selezione delle risultanze probatorie e del proprio convincimento, è tenuto a seguire un procedimento che si articola necessariamente in due momenti valutativi: in primo luogo, occorre una valutazione analitica degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, è doverosa una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni di essi. Ne consegue che deve ritenersi censurabile in sede di legittimità la decisione in cui il giudice si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand’anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento» (Cass. Sez. 5, n. 9108 del 6/6/2012, cit.; Cass., Sez. 6-5, Ord. n. 5374 del 2/3/2017).
Tanto premesso, i giudici d’appello, limitandosi ad escludere che gli elementi presuntivi valorizzati dall’Amministrazione finanziaria al fine di ricostruire i ricavi tratti dalla contribuente dall’attività di somministrazione di pasti nelle mense aziendali dalla stessa gestite (quantità di carne e di pesce acquistate dalla società, grammatura dei secondi piatti risultante dal contratto di appalto, numero totale dei pasti ricavabile dai prospetti indicati nell’avviso di accertamento, percentuale di sfrido, ecc.), singolarmente considerati, fossero connotati dai requisiti di gravità precisione e concordanza richiesti dall’art. 39, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973 ai fini dell’accertamento induttivo, senza, tuttavia procedere, al loro apprezzamento complessivo, non si sono conformati ai principi sopra richiamati.
4.1. Parimenti fondata è la censura con la quale l’Agenzia delle entrate lamenta che la Commissione tributaria regionale non è entrata nel merito della pretesa impositiva, così disattendendo il principio consolidato secondo il quale il processo tributario è annoverabile tra quelli di “impugnazione-merito”, in quanto è diretto ad una decisione sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente, sia dell’accertamento dell’Ufficio, sicché il giudice, ove ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi non formali, ma di carattere sostanziale, non può limitarsi al suo annullamento, ma deve esaminare nel merito la pretesa e ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte (Cass. Sez. 5, Ord. n. 18777 del 10/9/2020).
4. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso va accolto nei termini di cui in motivazione e la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, alla quale è demandata anche la regolazione delle spese processuali del presente giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.
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