CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 14 ottobre 2020, n. 22226
Procedura di mobilità – Mancata comunicazione ex art. 4, co. 9, L. 223/1991 – Ulteriori domande di accertamento della sussistenza di demansionamento e mobbing – Costituzione tardiva della società – Principio di non contestazione – Danno risarcibile – Responsabilità contrattuale – Danno collegato all’inadempimento datoriale – Individuazione in forza di rigorosa indagine o di tipo presuntivo o in termini di perdita di chance per il soggetto danneggiato – Perdita di “chance” costituisce danno patrimoniale risarcibile – Pregiudizio certo, anche se non nel suo ammontare – Prova, anche presuntiva, purché fondata su circostanze specifiche e concrete dell’esistenza di elementi oggettivi
Rilevato che
1. la Corte d’appello di Roma, con sentenza del 23.10.2015, respingeva l’appello principale della S. s.p.a. e gli appelli incidentali rispettivamente proposti da tale società e da E.M. avverso le decisioni del Tribunale capitolino, che, con sentenza non definitiva, aveva dichiarato inefficace il licenziamento intimato dalla S. s.p.a. con effetto dal 31.12.2010 nell’ambito della procedura di mobilità avviata dalla stessa, per mancata comunicazione ai sensi dell’art. 4, comma 9, della legge 223/1991 e, con sentenza definitiva del 27.11.2012, aveva condannato la resistente al pagamento di euro 11.600,00, oltre accessori, a titolo di retribuzione variabile, rigettate le ulteriori domande di accertamento della sussistenza dei dedotti demansionamento e mobbing e le conseguenti pretese risarcitorie;
2. proceduto alla riunione degli atti di gravame, la Corte distrettuale rigettava l’appello principale della S. sul rilievo che la stessa aveva omesso di provare l’effettuazione della comunicazione di cui al menzionato art. 4, comma 9, della I. 223/91; quanto all’appello incidentale del M. (proposto in via principale nel procedimento recante r.g. 3437/2013), osservava che le argomentazioni spese dal primo giudice a fondamento del decisum in relazione alle domande di accertamento di demansionamento e mobbing – che il predetto avrebbe asseritamente subito dal 2006 sino alla cessazione del rapporto – nonché alle conseguenti pronunce risarcitorie erano condivisibili, essendo rimasta accertata l’assegnazione del M. a mansioni di elevato contenuto professionale, espressione delle maggiori capacità tecniche e professionali descritte nel 7° livello quadro;
3. aggiungeva la Corte che anche l’appello incidentale proposto dalla società nel procedimento RG 3437/2013 era infondato, in quanto la sentenza di primo grado aveva ben evidenziato, in tema di danno risarcibile, che in ordine alla quantificazione del compenso, seppure lo stesso era stato previsto in maniera variabile fino al 30% della retribuzione, la circostanza che il datore di lavoro fosse risultato inadempiente all’obbligo di fissare gli obiettivi in funzione del cui raggiungimento sarebbe dovuto essere calcolato il compenso, consentiva di qualificare lo stesso nella misura massima, in quanto con il proprio inadempimento la società convenuta aveva precluso al lavoratore la possibilità di ottenere tale emolumento;
4. osservava che, pur se non vi erano elementi per affermare che in concreto il ricorrente avrebbe conseguito il massimo della retribuzione variabile, era altrettanto vero che ciò era avvenuto unicamente per un inadempimento del datore, il quale non aveva prefissato alcun obiettivo;
5. di tale decisione domanda la cassazione il M., affidando l’impugnazione a cinque motivi, cui resiste, con controricorso, la società, che propone ricorso incidentale affidato ad unico motivo, cui resiste a sua volta il M. con controricorso;
6. il P.G. ha fatto pervenire le sue conclusioni scritte.
Considerato che
Ricorso Principale
1. con il primo motivo, il M. denunzia violazione degli artt. 111 Cost., 112 e 132 c.p.c., con riguardo all’ipotesi di falsa interpretazione degli artt. 115 e 416 c.p.c., ai sensi dell’art. 360, n. 3 e 4, c.p.c., sostenendo che la costituzione tardiva della società non esimeva la stessa dall’onere di contestare i fatti costitutivi dell’avversa domanda e che il principio di non contestazione era applicabile anche in relazione ad una costituzione di parte resistente avvenuta oltre i termini di legge, sicché, avendo quest’ultima scelto di rimanere inerte rispetto ad una strategia di contestazione dei fatti costitutivi della domanda dedotti dal ricorrente, il giudice avrebbe dovuto motivare in ordine alla questione capace di orientare la decisione in senso contrario a quello assunto, non potendosi ritenere che la motivazione al riguardo potesse avvenire per relationem;
2. con il secondo motivo, il ricorrente principale si duole della violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., assumendo che il teste escusso non era stato in grado di riferire in merito alle mansioni disimpegnate dal ricorrente in relazione a periodi diversi dal dicembre 2007/gennaio 2008 e che il teste avrebbe riferito solo di una assegnazione al call center presso il quale il M. avrebbe verificato da remoto la collocazione dei cablaggi comunicando la stessa ai tecnici che avrebbe “guidato” unicamente per lo svolgimento di tale attività; evidenzia come sia mancata proprio la prova del fatto, perché il principio di prudente apprezzamento non consente al giudice di supplire all’assenza di prova, con ciò incorrendo in violazione dei principi di cui agli artt. 115 e 116 c.p.c.;
3. ulteriore violazione degli artt. 132, n. 4, c.p.c., nonché dell’art. 2697 c.c. è denunziata dal M. con il terzo motivo, in base all’assunto che la motivazione addotta dalla Corte distrettuale con riferimento alla deposizione dell’unico testimone escusso sostanzi il vizio procedurale dedotto, per essere contraddittorie le argomentazioni spese, nonché la violazione del principio del riparto dell’onere probatorio, sostenendosi che il lavoratore che lamenti il demansionamento e la dequalificazione deve allegare la fonte del proprio rapporto contrattuale e del proprio diritto, oltre all’inadempimento di controparte, su cui grava l’onere inverso di dimostrare il proprio esatto adempimento e che nella specie, a fronte delle specifiche allegazioni contenute nel ricorso introduttivo, nulla la resistente società abbia provato quanto meno per il periodo successivo al 2008;
4. con il quarto motivo, il ricorrente si duole della omessa valutazione circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, rilevando che la circostanza che la deposizione del testimone potesse essere riferita a tempi diversi rispetto a quelli già indicati costituiva oggetto di discussione tra le parti e che la Corte territoriale ha omesso di esaminare la decisività di tale omissione, nel senso che la conseguenza che ne sarebbe derivata era quella di ritenere acclarata la dequalificazione per tutto il residuo periodo in applicazione dei principi di non contestazione e dell’onere della prova;
5. con il quinto, ascrive alla decisione impugnata violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 2103 c. c., sostenendo che il giudizio di equivalenza rispetto alle mansioni attribuite al ricorrente non doveva essere limitato ad una comparazione formale con riferimento alle declaratorie contrattuali collettive, essendo necessaria un’analisi sostanziale che analizzasse il contenuto delle stesse, ciò che era mancato in relazione quanto meno al periodo successivo al 2008, in mancanza di prova positiva circa l’attribuzione di mansioni concrete e confacenti, con la conseguenza che doveva ritenersi accertata la dequalificazione professionale e che era stata omessa da parte del giudice del gravame la decisione sollecitata al riguardo;
6. la questione posta con il primo motivo, della irrilevanza ai fini dell’operatività del principio di non contestazione della tempestività della costituzione del resistente, é stata ritualmente dedotta in sede di gravame: trattandosi di deduzione di error in procedendo la stessa non può essere posta nella presente sede a fondamento della dedotta omissione di pronuncia, posto che “il mancato esame da parte del giudice di una questione puramente processuale non è suscettibile di dar luogo al vizio di omissione di pronuncia, il quale si configura esclusivamente nel caso di mancato esame di domande od eccezioni di merito, ma può configurare un vizio della decisione per violazione di norme diverse dall’art. 112 c.p.c. se, ed in quanto, si riveli erronea e censurabile, oltre che utilmente censurata, la soluzione implicitamente data dal giudice alla problematica prospettata dalla parte” (cfr. Cass. 12.1.2016 n. 321, Cass. 10.11.2015 n. 22952);
6.1. peraltro, è sufficiente richiamare, quanto al principio di non contestazione, il reiterato orientamento giurisprudenziale di legittimità, in forza del quale “l’accertamento della sussistenza di una contestazione ovvero d’una non contestazione, rientrando nel quadro dell’interpretazione del contenuto e dell’ampiezza dell’atto della parte, è funzione del giudice di merito, sindacabile in cassazione solo per vizio di motivazione. Ne consegue che, ove il giudice abbia ritenuto “contestato” uno specifico fatto e, in assenza di ogni tempestiva deduzione al riguardo, abbia proceduto all’ammissione ed al conseguente espletamento di un mezzo istruttorio in ordine all’accertamento del fatto stesso, la successiva allegazione di parte, diretta a far valere l’altrui pregressa “non contestazione”, diventa inammissibile” (cfr. Cass. 28.10.2019 n. 27490, Cass. 7.12.2019 n. 3680, Cass. 16.3.2012 n. 4249);
7. il secondo motivo è palesemente inammissibile per quanto reiteratamente affermato da questa Corte con riguardo alla deduzione di violazione delle norme richiamate, in quanto un’autonoma questione di malgoverno degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. può porsi solo allorché il ricorrente alleghi rispettivamente che il giudice di merito abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge o abbia fatto ricorso alla propria scienza privata ovvero ritenuto necessitanti di prova fatti dati per pacifici ed abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione (cfr., tra le altre, Cass. 17.1.2019 n. 1229, Cass. 27.12.2016 n. 27000): nessuna di tali situazioni è rappresentata nel motivo anzidetto, per cui le relative doglianze sono da ritenere mal poste, tendendo unicamente ad una rivisitazione del merito, non consentita nella presente sede di legittimità;
8. la censura formulata nel terzo motivo è infondata, in quanto in primo luogo è noto che la motivazione meramente apparente – che la giurisprudenza parifica, quanto alle conseguenze giuridiche, alla motivazione in tutto o in parte mancante – sussiste allorquando, pur non mancando un testo della motivazione in senso materiale, lo stesso non contenga una effettiva esposizione delle ragioni alla base della decisione, nel senso che le argomentazioni sviluppate non consentono di ricostruire il percorso logico-giuridico alla base del decisum;
8.1. è stato, in particolare, precisato che la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da error in procedendo, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass. Sez. Un. n. 22232 del 2016), oppure allorquando il giudice di merito ometta ivi di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento (Cass. n. 9105 del 2017) oppure, ancora, nell’ipotesi in cui le argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum (Cass. n. 20112 del 2009);
8.2. tali carenze, che l’odierna parte ricorrente assume sulla base di considerazioni del tutto generiche ed assertive, non sono evidenziabili nella sentenza in esame, della quale è agevolmente riscontrabile il percorso argomentativo che ha indotto il giudice del gravame a ritenere condivisibile quanto già ritenuto dal giudice di primo grado;
8.3. per il resto, se pure sono esatte le premesse in diritto, un’autonoma questione di malgoverno dell’art. 2697 c.c. può porsi solo allorché il ricorrente alleghi che il giudice di merito abbia invertito gli oneri probatori;
8.4. una tale situazione non è, tuttavia, rappresentata nel motivo anzidetto, in quanto anche qui la doglianza deve ritenersi mal prospettata, tendendo unicamente ad una rivisitazione del merito, non consentita nella presente sede di legittimità; deve, poi, aversi riguardo al principio più volte affermato da questa Corte, secondo cui l’acquisizione della prova rileva indipendentemente dal fatto che la iniziativa della stessa provenga dalla parte onerata (cfr. Cass. 29.5.2018 n. 13395, Cass. 17.6.2013 n. 15107, Cass. 5.9.2006 n. 19064);
8.5. il principio generale di riparto dell’onere probatorio di cui all’art. 2697 cod. civ. deve essere contemperato con il principio di acquisizione probatoria, che trova fondamento nella costituzionalizzazione del principio del giusto processo, con la conseguenza che anche il principio dispositivo delle prove va inteso in modo differente, traducendosi nel dovere del giudice di pronunciare nel merito della causa sulla base del materiale probatorio ritualmente acquisito – da qualunque parte processuale provenga – con una valutazione non atomistica ma globale nel quadro di una indagine unitaria ed organica, suscettibile di sindacato, in sede di legittimità, per vizi di motivazione e, ove ne ricorrano gli estremi, per scorretta applicazione delle norme riguardanti l’acquisizione della prova (cfr. Cass. 14.7.2017 n. 17598, Cass. 25.9.2013 n. 21909);
9. in ordine al quarto motivo, è sufficiente osservare che la deposizione del teste, riferita all’assegnazione del M. a determinati compiti a partire da una certa data, è stata valutata dalla Corte come riferita anche ad un periodo successivo, in mancanza di una diversa determinazione della società che ponesse nel nulla la precedente assegnazione, e ciò rientra nella valutazione della prova demandata al giudice del merito e non sindacabile in sede di legittimità; la stessa prospettazione del motivo, che stigmatizza una ricostruzione dei fatti al di là dello stesso ambito temporale cui il ricorrente sostiene che la deposizione del teste era riferita, pone la censura al di fuori del paradigma devolutivo e deduttivo del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. (cfr. Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 26 giugno 2015, n. 13189; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439), avendo la doglianza piuttosto il carattere di una (inammissibile) contestazione della valutazione probatoria della Corte di merito;
10. in relazione a quanto dedotto con il quinto motivo, deve escludersi l’ipotesi di omissione di pronuncia, in quanto il relativo vizio non ricorre quando la motivazione accolga una tesi incompatibile con quella prospettata, implicandone il rigetto, dovendosi considerare adeguata la motivazione che fornisce una spiegazione logica ed adeguata della decisione adottata, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla, ovvero la carenza di esse, senza che sia necessaria l’analitica confutazione delle tesi non accolte o la particolare disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi (cfr., da ultimo, Cass. 2153/2020);
Ricorso incidentale della s.p.a. S.
11. la società denunzia errata interpretazione degli artt. 1218 e 1223 c.c. e violazione dell’art. 2697 c.c., sostenendo che la Corte distrettuale abbia fatto malgoverno dei principi affermati dalla Corte di legittimità, secondo cui deve distinguersi tra “inadempimento” e “danno risarcibile” in base agli ordinari principi civilistici, in forza dei quali i danni attengono alla perdita o al mancato guadagno che siano conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento, lasciando distinto il momento della violazione degli obblighi da quello, solo eventuale, della produzione del pregiudizio;
11.1. la S.p.a. S. sostiene che nello specifico la prova sull’effettiva entità del pregiudizio non sia stata raggiunta ed ancor prima allegata, non potendo pertanto attribuirsi il diritto alla misura massima del compenso contrattualmente pattuita;
11.2. la violazione dei principi di diritto consacrati negli articoli rubricati, in tema di responsabilità del debitore e di risarcimento del danno che sia conseguenza del primo, è palese, in quanto in tema di responsabilità contrattuale vige il principio, disatteso dalla pronuncia impugnata, che il danno collegato con nesso di causalità all’inadempimento datoriale (nella specie pacifico) debba essere individuato in termini di accertamento dell’an in forza di rigorosa indagine o di tipo presuntivo o in termini di perdita di chance verificatasi per il soggetto danneggiato;
11.3. è stato affermato da questa Corte che “la perdita di “chance” costituisce un danno patrimoniale risarcibile, quale danno emergente, qualora sussista un pregiudizio certo (anche se non nel suo ammontare) consistente nella perdita di una possibilità attuale ed esige la prova, anche presuntiva, purché fondata su circostanze specifiche e concrete dell’esistenza di elementi oggettivi dai quali desumere, in termini di certezza o di elevata probabilità, la sua attuale esistenza” (cfr. Cass. 30.9.2016 n. 19604, Cass. 20.11.2018 n. 29829);
11.4. nella specie, posto come dato pacifico che la società ha omesso di fissare gli obiettivi cui era da rapportare la misura del compenso variabile percepibile dal M., è stato ritenuto, in virtù di un ingiustificato automatismo, contrario alle regole suddette, che al ricorrente spettasse il risarcimento del danno anche in mancanza di specificazione di un pregiudizio distinto dall’inadempimento, e per di più nella misura massima;
11.5. nulla è stato infatti specificato dalla Corte di merito né in termini di accertamento presuntivo, né in termini di perdita di chance, sulla base di individuati o quanto meno individuabili elementi concreti idonei a dimostrare il realizzarsi del dedotto pregiudizio;
12. alla stregua delle esposte considerazioni, deve pervenirsi all’accoglimento del ricorso incidentale, con conseguente cassazione della decisione in parte qua e rinvio della causa al giudice del merito designato in dispositivo per la corretta applicazione dei principi richiamati; allo stesso giudice va demandata anche la liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità;
13. il ricorso principale va, invece, per quanto detto, rigettato;
14. sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 115 del 2002 per il ricorrente principale;
P.Q.M.
accoglie il ricorso incidentale, rigetta il ricorso principale, cassa la decisione impugnata in relazione al ricorso accolto e rinvia alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dell’art.13, comma1bis, del citato D.P.R., ove dovuto.
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