CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 15 dicembre 2021, n. 40223
Tributi – Accertamenti bancari – Verifica conti correnti intestati ai soci della società accertata – Autorizzazione ex art. 32, co. 1, n. 7), DPR n. 600/1973 – Obbligo di motivazione – Esclusione
Ritenuto che
Dall’esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva emesso un avviso di accertamento nei confronti di F. s.r.l. e di R.S., in proprio, con il quale, relativamente all’anno di imposta 2008, aveva rettificato il reddito di impresa ai fini Ires, Irap e Iva, e contestato le conseguenti sanzioni; avverso l’atto impositivo la società ed il socio avevano proposto ricorso che era stato rigettato dalla Commissione tributaria provinciale di Agrigento; avverso la pronuncia del giudice di primo grado la società ed il socio avevano proposto appello; la Commissione tributaria regionale della Sicilia ha parzialmente accolto l’appello, in particolare ha ritenuto, per quanto ancora di interesse, che: era infondato il motivo di doglianza relativo alla riconducibilità alla società delle movimentazioni bancarie dei conti correnti bancari fittiziamente intestati al socio; con riferimento agli accertamenti bancari nei confronti della società, la pretesa era fondata unicamente avuto riguardo ai versamenti, non avendo i ricorrenti provato la irrilevanza delle movimentazioni bancarie ai fini della determinazione del reddito e non essendo sufficiente, al fine del superamento della presunzione, un enunciato meramente assertivo, mentre, con riferimento ai prelevamenti, era da considerarsi prova idonea la indicazione del beneficiario; con riferimento, poi, alla pretesa relativa alle applicabilità del regime di presunzione per le movimentazioni bancarie sui conti correnti del socio, i contribuenti non avevano fornito alcuna prova contraria in ordine ai versamenti e solo in parte la prova contraria per i prelevamenti; era fondata la pretesa relativa ai maggiori componenti positivi di reddito relativa alla natura meramente simulata dei finanziamenti dei soci e del successivo rimborso che, in realtà, sottendevano un riparto di utili della società; era parzialmente fondato il motivo di appello relativo al disconoscimento di componenti negativi di reddito; doveva, infine, essere ridotto, in misura corrispondente, l’importo della sanzione, peraltro irrogabile solo nei confronti della società e non del socio;
avverso la suddetta pronuncia la società ed il socio hanno quindi proposto ricorso per la cassazione affidato a cinque motivi di censura, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate depositando controricorso;
considerato che:
con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 32, comma 1, n. 7), d.P.R. n. 600/1973, nonché dell’art. 7, legge n. 212/2000 e dell’art. 3, legge n. 241/1990, per avere erroneamente ritenuto che l’autorizzazione all’espletamento delle indagini bancarie non deve esplicitare i motivi per i quali la stessa è rilasciata, posto che, invece, la sua collocazione all’interno del procedimento finalizzato alla emissione dell’avviso di accertamento esige la necessaria motivazione, e ciò è tanto più necessario qualora le indagini bancarie siano compiute nei confronti di soggetti terzi, quali i soci, con la conseguenza che l’omessa motivazione comporta l’inutilizzabilità degli elementi di prova illegittimamente acquisiti; il motivo è infondato;
questa Corte ha più volte affermato che l’autorizzazione prescritta dall’art. 32, cit., ai fini dell’espletamento delle indagini bancarie, esplica una funzione organizzativa, incidente nei rapporti tra uffici, e non richiede alcuna motivazione (Cass., 10 febbraio 2017, n. 3628; 21 luglio 2009, n. 16874; 26 settembre 2014, n. 20420), per un duplice ordine di ragioni: in primo luogo, perché in relazione a detta autorizzazione la legge non dispone alcun obbligo di motivazione, a differenza di quanto stabilito, invece, per gli accessi e le perquisizioni domiciliari, dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 33, e dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52; inoltre, perché la medesima autorizzazione, ad onta del “nomen iuris” adottato, esplicando una funzione organizzativa, incidente esclusivamente nei rapporti tra uffici, e avendo natura di atto meramente preparatorio, inserito nella fase di iniziativa del procedimento amministrativo di accertamento, non è qualificabile come provvedimento o atto impositivo, tipologie di atti per le quali, rispettivamente, la L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, comma 1, e la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, prevedono l’obbligo di motivazione (Cass. Civ., 10 febbraio 2021, n. 3242);
con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 32 e 37, d.P.R. n. 600/1973, nonché degli artt. 2727 e 2729, cod. civ., per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, nonché per omesso e apparente e illogica motivazione;
in particolare, con un primo profilo di censura, si lamenta che il giudice del gravame ha ritenuto riferibili alla società le movimentazioni dei conti correnti bancari intestati al socio, senza, tuttavia, avere verificato la sussistenza di una fittizia intestazione dei suddetti conti correnti, il cui onere di prova spettava all’amministrazione finanziaria, avendo unicamente posta l’attenzione sulla questione delle disponibilità finanziarie del socio; con un secondo profilo di censura, inoltre, parte ricorrente lamenta la mancata esposizione del procedimento logico inferenziale finalizzato all’accertamento del fatto (non noto) che il conto corrente fosse solo formalmente intestato al terzo (socio) ma nella disponibilità del soggetto verificato;
con un terzo profilo di censura, si lamenta la carente o perplessa motivazione nella parte in cui ha ritenuto infondata la doglianza dei ricorrenti in ordine alla disponibilità finanziaria del socio per l’anno di riferimento nonché l’omessa o errata valutazione dei fatti decisivi relativi alla medesima circostanza e la illogica motivazione nella parte in cui ha ritenuto che, essendo le somme state percepite nel 2007, le stesse non avrebbero potuto assumere rilevanza nell’anno 2008, oggetto di contestazione;
infine, con un ulteriore profilo di censura, si lamenta la mancata considerazione di fatti rilevanti ai fini del decidere, quali: la circostanza che, con riferimento al mutuo erogato nel 2008, di cui il socio R.S. non era il diretto beneficiario, ma mero datore di ipoteca, beneficiaria era la moglie del suddetto socio e, inoltre, lo stesso era stato erogato mediante versamento su conto corrente intestato anche al suddetto socio; una parte degli importi avevano sicura natura personale o erano stati percepiti a titolo di dividendi;
il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile; con riferimento al primo profilo di censura, la sentenza censurata ha evidenziato che il maggior reddito della società era stato accertato anche facendo riferimento ai conti correnti intestati al socio, attesa la “ristretta compagine sociale su base familiare”, oltre che ad altri profili, quali la esistenza di un rapporto organico, la cointeressenza, la cointestazione di alcuni conti correnti del socio con altro socio, il transito di operazioni bancarie dai conti correnti dei soci, la corrispondenza fra le operazioni bancarie su conti della moglie dell’amministratore, dipendente della società, e conti dei soci e della stessa società, nonché, infine, in relazione alla circostanza che il socio non aveva, per l’anno di riferimento, alcun reddito proprio tale da giustificare le movimentazioni sul conto corrente; procedendo sulla base di questa impostazione di fondo, il giudice del gravame ha tenuto conto delle ragioni di doglianza prospettate dalla società contribuente e dal socio, essenzialmente dirette a dare prova della sussistenza di redditi personali del socio giustificativi delle movimentazioni bancarie;
in sostanza, il giudice del gravame ha ritenuto fatti certi, in quanto non oggetto di specifica contestazioni, i profili di fatto sui quali l’amministrazione finanziaria e il giudice di primo grado avevano ritenuto fondata la ripresa, avendo, come detto, posto l’attenzione sulle ragioni di doglianza prospettate in appello, relative alla sussistenza di redditi personali propri di quest’ultimo; non correttamente, dunque, parte ricorrente ritiene che la pronuncia censurata non abbia fatto corretta applicazione della previsione di cui all’art. 32, cit., posto che, invero, la stessa si fonda su presupposti, quali la natura ristretta della compagine sociale su base familiare, nonché sulla rilevata commistione dei conti correnti del socio con quelli degli altri soci e sul transito di operazioni bancarie dai conti dei soci a quelli della società e viceversa, che giustificano l’applicabilità della presunzione legale relative di cui alla sopra citata previsione normativa;
invero, secondo il costante orientamento di questa Corte, con riferimento ad una società a responsabilità limitata (e quindi con riferimento ad un ente in cui l’autonomia patrimoniale della società rispetto ai soci è perfetta), gli Uffici finanziari e la Guardia di Finanza, previa autorizzazione degli organi a ciò deputati, possono richiedere copia dei conti intrattenuti con il contribuente, senza che possa configurarsi una limitazione all’attività di indagine volta al contrasto dell’evasione fiscale, nel senso di circoscrivere l’analisi ai soli conti correnti bancari e postali o ai libretti di deposito intestati esclusivamente al titolare dell’azienda individuale o alla società.
L’accesso ai conti intestati formalmente a terzi, le verifiche finalizzate a provare per presunzioni la condotta evasiva e la riferibilità alla società contribuente delle somme movimentate sui conti intestati ai soci, o anche ai loro congiunti, ben possono, invero, essere giustificati da alcuni elementi sintomatici come il rapporto di stretta contiguità familiare, l’ingiustificata capacità reddituale dei prossimi congiunti nel periodo di imposta, l’infedeltà della dichiarazione e l’attività di impresa compatibile con la produzione di utili, incombendo in ogni caso sulla società contribuente la prova che le ingenti somme rinvenute sui conti dei soci o dei loro familiari non siano ad essa riferibili (Cass. Civ., 8 settembre 2021, n. 2408);
sotto tale profilo, non correttamente parte ricorrente prospetta la questione della necessaria configurabilità di una ipotesi di interposizione fittizia, posto che, invero, la ristrettezza della compagine sociale, unitamente agli altri profili individuati nella sentenza censura, sono di per sé idonei a far presumere la sostanziale sovrapposizione tra interessi personali e societari, identificandosi gli interessi economici in concreto perseguiti dalla società con quelli propri dei soci, con conseguente onere di prova contraria a carico della società di dimostrare l’estraneità delle singole operazioni alla comune attività d’impresa;
conseguentemente, è privo di fondamento anche il profilo di censura relativo alla non corretta applicazione delle regole presuntive di cui agli artt. 2727 e 2729, cod. civ., posto che, come detto, i principi espressi da questa Corte, sopra illustrati, individuano nella ristrettezza della compagine sociale un elemento presuntivo idoneo a supportare la prospettazione della riferibilità alla società delle movimentazioni bancarie relative ai conti correnti del socio; inammissibili sono, infine, gli ulteriori profili di censura; la pronuncia censurata ha chiaramente esposto, con un accertamento in fatto non censurabile in questa sede, le ragioni per le quali ha ritenuto che non era stata fornita prova idonea a contrastare la valenza presuntiva della riferibilità alla società delle movimentazioni dei conti correnti intestati al socio, esaminando specificamente sia la non riferibilità del mutuo all’anno di imposta in esame sia la documentazione mediante la quale si intendeva dimostrare la natura personale delle risorse economiche del socio; in questo ambito, si è tenuto conto delle diverse circostanze fattuali esposte nel presente motivo di ricorso (riferibilità del mutuo a diversa annualità, qualità del socio quale mero datore di ipoteca, assenza di ulteriore documentazione idonea con riferimento agli estratti conto), procedendo, quindi, ad un accertamento in fatto della documentazione prodotta e ritenuta non rilevante ai fini del decidere;
va peraltro rilevato che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, qualora l’accertamento effettuato dall’ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, l’onere probatorio dell’amministrazione finanziaria è soddisfatto, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti, mentre si determina un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non sono riferibili ad operazioni imponibili, fornendo, a tal fine, una prova non generica, ma analitica, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili (Cass. civ., 23 settembre 2021, n. 25812); in realtà, con i profili di censura in esame parte ricorrente intende procedere ad una non consentita rivalutazione degli elementi di prova del materiale probatorio esaminato dal giudice del gravame, ostandovi, peraltro, il limite di cui all’art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ, nel testo novellato;
invero, questa Corte ha più volte precisato che l’art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ., nel testo novellato dall’art. 83, decreto- legge n. 83/2012, deve essere interpretato, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione ed è pertanto denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass. Sez. U., 28 ottobre 2020, n. 23746; Cass. Sez. U., 7 aprile 2014 n. 8053);
con il terzo motivo di ricorso si censura la sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 32, d.P.R. n. 600/1973, nonché per omesso esame di un fatto decisivo per la controversia e per omessa apparente o illogica motivazione;
il motivo è in parte inammissibile in parte infondato; il motivo di ricorso in esame, in particolare, è articolato in diversi profili di censura che attengono, in primo luogo, alla questione della legittimità della pretesa basata sui versamenti risultanti dai conti correnti intestati alla società (profilo di censura indicato nel ricorso quale III.A) nonché sui versamenti risultanti dai conti correnti intestati al socio (profilo di censura indicato nel ricorso quale III.B); in entrambi i profili di censura, i ricorrenti evidenziano di avere fornito adeguata prova documentale, non limitata a mere affermazioni, idonea a superare la presunzione legale relativa di cui all’art. 32, cit., e tuttavia, il giudice del gravame avrebbe omesso ogni valutazione della stessa, senza procedere, quindi, all’esame delle emergenze istruttorie ai fini della considerazione finale della loro irrilevanza;
i profili di censura sopra indicati sono inammissibili;
gli stessi, invero, non tengono conto della ratio deciderteli della pronuncia censurata;
il giudice del gravame, nell’esaminare la questione relativa alla idoneità della prova contraria offerta dai ricorrenti in ordine alla contestazione degli elementi presuntivi di maggior reddito non dichiarato derivante dal riscontro dei versamenti eseguiti sul conto corrente della società e del socio, ha chiarito, in primo luogo, che la presunzione legale relativa derivante dalla previsione di cui all’art. 32, cit., poteva essere superata solo mediante idonea dimostrazione in ordine al fatto che di essi si era tenuto conto ai fini della determinazione del reddito o che non avevano rilevanza allo stesso fine ed ha, altresì, precisato che le notizie ed i dati non addotti e gli atti non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell’ufficio non potevano essere presi in considerazione a favore del contribuente in sede amministrativa o contenziosa, salvo che questi, oltre che depositare la documentazione in sede giudiziale, dichiari contestualmente di non avere potuto adempiere alle richieste degli uffici per causa a lui non imputabile;
è, quindi, procedendo, sulla base di tale premessa di fondo che il giudice del gravame ha ritenuto che, per quanto concerneva i versamenti, non era stata provata “a fronte dell’inversione dell’onere probatorio, la loro irrilevanza ai fini della determinazione del reddito e perché non è idoneo a superare la presunzione di legge un enunciato meramente assertivo”;
analogamente, per le medesime ragioni, si è espresso il giudice del gravame con riferimento ai versamenti sul conto corrente del socio, avendo accertato la “mancanza di puntuale dimostrazione di fatti idonei a vincere la presunzione di legge circa la rilevanza tributaria degli stessi”;
in sostanza, il giudice del gravame ha preso atto della applicabilità, al caso di specie, della circostanza che parte ricorrente non aveva provveduto a fornire adeguata risposta al questionario trasmesso dall’amministrazione finanziaria alla società al fine di avere dimostrazione della eventuale irrilevanza dei versamenti ai fini della determinazione del reddito, dovendosi ritenere che la contestazione era avvenuta solo mediante un “enunciato meramente assertivo” ovvero senza adeguata prova documentale;
a dimostrazione di tale ragione della decisione è il fatto che, invece, con riferimento ai prelevamenti, il giudice del gravame ha ritenuto invece, che per gli stessi era sufficiente la mera indicazione del beneficiario “senza ulteriore allegazione dimostrativa”; in sostanza, il giudice del gravame ha distinto l’onere di prova gravante sui contribuenti in relazione ai versamenti ovvero ai prelevamenti: con riferimento ai primi, ha ritenuto che la mancata esibizione della documentazione fosse ostativa al superamento della presunzione di riconducibilità delle movimentazioni al reddito della società, mentre, con riferimento ai secondi, era sufficiente, invece, la mera indicazione del beneficiario, potendo tale indicazione essere compiuta anche in sede giudiziale, ove accompagnata dalla dichiarazione di non imputabilità del mancato riscontro alle richieste avanzate dall’amministrazione in sede extragiudiziale, senza che fosse necessaria la dimostrazione dell’effettiva non imputabilità; questa diversificazione dell’onere probatorio a seconda che si fosse trattato di questione relativa ai versamenti ovvero ai prelevamenti è stata posta alla base della ritenuta non rilevanza della documentazione prodotta, ma la suddetta ragione della decisione, oltre che non essere stata colta dai ricorrenti con il presente motivo di ricorso è, peraltro, in linea con la giurisprudenza di questa Corte (Cass. Civ.,14 giugno 2021, n. 16757) che ha precisato che: “In tema di accertamento tributario, occorre distinguere l’ipotesi in cui la richiesta dell’Amministrazione finanziaria di documenti al contribuente sia stata inviata mediante questionario, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, in materia di imposte dirette ovvero del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51, in materia di Iva, da quella in cui sia stata avanzata, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 33, quanto all’imposizione reddituale e D.P.R. n. 633 del 1972, ex 52, quanto all’Iva, nel corso di attività di accesso, ispezione o verifica, atteso che – ferma sempre la necessità, in ogni ipotesi, che l’Amministrazione dimostri che vi era stata una puntuale indicazione di quanto richiesto, accompagnata dall’espresso avvertimento circa le conseguenze della mancata ottemperanza – nel primo caso, il mancato invio nei termini concessi equivale a rifiuto, determinando l’inutilizzabilità della documentazione in sede amministrativa e contenziosa, salvo che il contribuente non dichiari, all’atto di produrre la suddetta documentazione con il ricorso, che l’inadempimento è avvenuto per causa a lui non imputabile, della cui prova è onerato; nel secondo caso, la mancata esibizione di quanto richiesto preclude la valutazione a favore del contribuente solo se si traduca in un sostanziale rifiuto di rendere disponibile la documentazione, incombendo la prova dei relativi presupposti di fatto sull’Amministrazione finanziaria;
il terzo e quarto profilo di censura (prospettati nel ricorso con l’indicazione III.C e III.D), attengono invece alla questione della prova dei beneficiari dei prelevamenti rilevati dalle movimentazioni bancarie del socio, e, in particolare, hanno riguardo alla statuizione del giudice del gravame che ha ritenuto non rilevanti, quali prove contrarie, i prelevamenti per i quali era stata offerta la prova dei successivi versamenti in altri conti personali nonché in conti correnti della società, ovvero ancora per spese personali; secondo parte ricorrente, le suddette circostanze proverebbero, diversamente da quanto ritenuto dal giudice del gravame, l’impiego delle somme per operazioni non imponibili e, quindi, la loro non qualificabilità quali presunti ricavi;
i profili di censura non sono fondati;
con riferimento ai prelevamenti per i quali è stata offerta la prova della destinazione presso altri conti correnti intestati allo stesso socio ovvero alla società, va osservato che la previsione di cui all’art. 32, cit., si fonda sulla considerazione che i prelevamenti dal conto corrente intestato al socio di una società a ristretta base partecipativa, quale quella in esame, costituiscono una presunzione di capacità produttiva del reddito della società, essendo ipotizzabile un impiego/investimento della somma prelevata con finalità di produzione di altra ricchezza;
sotto tale profilo, è quindi da escludere che possa valere come prova contraria la destinazione del prelevamento in favore della stessa società ovvero in altro conto corrente del socio: in entrambi i casi, la prospettiva va riguardata nell’ambito dello stesso ambito di operatività economica della società, tenuto conto del fatto che è proprio la ristretta base partecipativa che implica una sostanziale sovrapposizione tra gli interessi personali e quelli societari; con riferimento, poi, alla circostanza che parte dei prelevamenti sarebbero stati eseguiti per il soddisfacimento degli interessi personali del socio, il profilo di censura non tiene conto del fatto che la sentenza censurata ha escluso la rilevanza della prova contraria offerta, in base alla considerazione che il socio non aveva alcuna autonomia finanziaria nell’anno di imposta di riferimento; in sostanza, proprio l’assenza di autonoma finanziaria del socio ha indotto il giudice del gravame a escludere che gli importo risultanti dal conto corrente intestato al socio fosse a lui effettivamente riferibile, sì da ricondurre gli importi presenti a ricavi propri della società;
questa ragione di censura non è stata colta dai ricorrenti, che hanno posto l’attenzione unicamente sulla natura personale della destinazione del versamento, e prospettato solo la questione della erroneità della esiguità del reddito del socio, profilo già esaminato in sede di esame del secondo motivo di ricorso;
inammissibile, peraltro, è il profilo di censura relativo alla mancata considerazione dell’importo di euro 18.000,00, in quanto il beneficiario sarebbe la moglie del socio, in quanto in contrasto con i limiti di applicabilità del vizio di motivazione, di cui all’art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ.;
infine, sempre nell’ambito del presente motivo di ricorso, la censura viene prospettata come omesso esame di un fatto decisivo per la controversia consistente nella errata duplicazione delle movimentazioni contestate, ora come versamenti ora come prelevamenti; il profilo è inammissibile;
lo stesso, invero, implica una rivalutazione degli elementi di prova contraria già posti all’attenzione del giudice del gravame e dallo stesso non considerati al fine dell’accertamento conclusivo del maggior reddito contestato alla società in conseguente dell’esame dei versamenti e dei prelevamenti risultanti dall’avviso di accertamento;
con il quarto motivo di ricorso principale la società ed il socio censurano la sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 39 e 40, d.P.R. n. 600/1973, e degli artt. 2727 e 2729 cod. civ., nonché per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oltre che per omessa, apparente e illogica motivazione; in particolare, il motivo di ricorso in esame ha riguardo alla statuizione contenuta nella sentenza relativa alla pretesa di maggiori componenti positivi di reddito basata, secondo quanto riscontrabile nell’avviso di accertamento, sulla considerazione che il versamento compiuto dal socio in favore della società (poiché da esso eseguito nonostante fosse privo di adeguata situazione reddituale in grado di giustificare l’apporto) costituiva un fatto indiziario che sottintendeva un occultamento di utili da parte della società, sicché il versamento erano solo “apparente al fine di simulare un successivo rimborso implicante, in realtà, un riparto di utili sociali” (vd. sentenza, pag. 6);
con il presente motivo di ricorso parte ricorrente evidenzia, in primo luogo, il vizio di violazione di legge, posto che il giudice del gravame non avrebbe compiuto alcuna valutazione in ordine alla sussistenza di elementi gravi, precisi e concordanti al fine di individuare l’esistenza del fatto non noto (la distribuzione di utili non dichiarati); inoltre, parte ricorrente prospetta, altresì, un vizio di motivazione della sentenza, per non avere tenuto conto della documentazione prodotta, relativa alla non esiguità del reddito del socio, nonché della circostanza che la presunzione sulla quale la pretesa era basata poteva, al più, riguardare il versamento, non anche il rimborso eseguito dalla società, anche tenuto conto dell’esame analitico dei versamenti eseguiti; il motivo è infondato;
la questione di fondo in esame atteneva alla natura simulata dei versamenti compiuti dal socio a titolo di finanziamento in favore della società che, invero, secondo la prospettazione dell’amministrazione finanziaria, a seguito del successivo rimborso, costituivano lo strumento tramite cui ottenere distribuzione di utili non dichiarati;
nella sentenza è evidenziato che la pretesa, in particolare, si fondava sulla circostanza che il versamento compiuto dal socio ed il successivo rimborso erano solo apparenti, in quanto sottintendevano un riparto di utili;
è rilevante evidenziare il fatto che il giudice del gravame aveva, in precedenza, esaminato la questione della capacità finanziaria del socio ed aveva ritenuto che lo stesso, per l’anno in esame, aveva un reddito dichiarato estremamente ridotto;
sicché, il successivo passaggio motivazionale, in cui si valuta la sussistenza di elementi di prova gravi, precise e concordanti, trova fondamento proprio nella considerazione della mancanza di giustificazione della capacità finanziaria del socio che sola avrebbe potuto rendere coerente il rimborso dell’importo; è, dunque, procedendo sulla base di tale prospettiva che il giudice del gravame ha ritenuto supportato da elementi di prova presuntiva idonea la pretesa dell’amministrazione finanziaria basata sulla fittizietà del rimborso e sulla reale finalità della stessa di distribuzione di utili in favore del socio;
priva di rilievo, in questo contesto, è la considerazione relativa alla non esiguità del reddito del socio, profilo già esaminato in sede di esame del secondo motivo di ricorso, nonché l’ulteriore ragione difensiva relativa alla riferibilità della presunzione al solo versamento, non anche il rimborso eseguito dalla società: la considerazione espressa dal giudice del gravame, invero, attiene alla valutazione dell’intera operazione in termini di fittizietà, in quanto finalizzata, nel complesso, alla simulazione del successivo rimborso, quando, invece, la realtà dell’operazione riguardava un riparto di utili;
non può quindi ravvisarsi né un vizio di violazione di legge né un vizio di motivazione della pronuncia censurata;
con il quinto motivo di ricorso si censura la sentenza per violazione e falsa applicazione degli artt. 39 e 40, d.P.R. n. 600/1973, nonché per omesso esame di un fatto decisivo per la controversia e per apparente ed illogica motivazione, per non avere tenuto conto, con riferimento alla questione del disconoscimento del costo per il personale dipendente, della documentazione prodotta dai ricorrenti; il motivo è infondato;
la questione relativa alla prova relativa al costo del personale è stata espressamente presa in considerazione dal giudice del gravame, il quale ha precisato che: “a fronte della rilevazione da parte dell’amministrazione di costi nell’anno 2008 per soli euro 3.816,46, sulla base della documentazione esibita dalla società e della mancanza presentazione dei mod. 770 previsto per i sostituti di imposta, sono stati opposti soltanto rilievo critici non supportati da dimostrazione documentale”;
in sostanza, il giudice del gravame ha esaminato la prova documentale prodotta dalla società contribuente ed ha ritenuto, con un accertamento in fatto non sindacabile in questa sede, che dalla stessa non poteva evincersi la prova dell’effettivo sostenimento dei costi per il personale dipendente;
in conclusione, sono infondati il primo, quarto e quinto motivo, sono in parte infondati ed in parte inammissibili il secondo e terzo motivo, con conseguente rigetto del ricorso e condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese di lite in favore della controricorrente; si dà atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. n. 115/2002, della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese di lite del presente giudizio che si liquidano in complessive euro 7.800,00, oltre spese prenotate a debito;
dà atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. n. 115/2002, della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
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